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Autore: shezza    29/03/2012    5 recensioni
“Allora, perché piangevi?”
Il viso del bambino si fece di nuovo triste, tirò su con il naso.
“Mi è caduto il gelato sulla sabbia” disse, indicando un punto sporco nella sabbia, il punto del decesso del suo amato amico gelato e per cui aveva pianto tanto.
Phoebe aveva guardato il suo gelato, ci aveva riflettuto un po’, prima di porgli il suo.
“Tieni io non ne voglio più” disse una bugia, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per vedere il sorriso di quel bambino. E riuscì nell’ impresa, perché il suo volto si illuminò, la sua bocca si aprì in un sorriso, che mostrava delle piccole fossette ai lati.
“Grazie. Sei gentile. Da oggi in poi sei la mia migliore amica”
Il loro fu un incontro insolito, in una normalissima giornata di sole, che però cambio del tutto la loro vita, il loro destino.
Mancava solo una cosa nella sua vita, una cosa che potesse renderla veramente felice, ma lei ancora non aveva capito quale.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Destined to be together. 


Quel giorno il sole si abbatteva pesantemente sulla sabbia chiara e morbida, mentre il frantumarsi delle onde sugli scogli facevano da sottofondo alle urla dei bambini che giocavano sulla spiaggia. C’era chi faceva dei castelli, chi giocava a pallone, chi si tuffava in mare a causa del gran caldo, qualcuno invece si gustava un buon gelato al cioccolato mentre passeggiava mano nella mano in compagnia della madre per il lungomare. Come la piccola Phoebe che, incespicando ogni tanto sui propri passi cercando di stare al passo con la madre, ammirava gli altri bambini che si divertivano in spiaggia. Vicino a quel gruppetto la piccola vedeva un bimbo dal caschetto biondo e dagli occhi verdi e vispi, che però versavano qualche lacrima bagnando la sabbia, seduto accanto a quello che era rimasto di un cono gelato, mentre la madre, una donna dai capelli scuri, lo  incitava ad alzarsi.
Terminata la passeggiata, la madre di Phoebe si sedette su una panchina di legno. La bimba alzò la testa verso di lei, senza dire niente, come se aspettasse che le dicesse qualcosa,  mentre il suo gelato iniziava a colare sulla sabbia, sciogliendosi sotto il sole. “Dai, vai a giocare con gli altri bambini!”  la incitò la donna.
Così la bambina si avviò verso il gruppo di bambini, lentamente, sempre silenziosa, quando rivide il bambino che piangeva. Ora sua madre si era allontanata, e lui era ancora lì, seduto sulla sabbia.
Lei si sedette accanto a lui, che la guardò per qualche istante, per poi posare gli occhi di nuovo su un punto in mezzo alla sabbia dorata. Le guance lisce e paffutelle del bambino erano bagnate da qualche piccola lacrima che gli rigavano il viso, per poi andare a confondersi tra i granelli di sabbia.
“Sei un bambino strano” disse Phoebe, continuando a guardare i suoi occhi verdi.
Lui la guardò male, con aria interrogativa. “Perché sono strano?”
“Perché stai piangendo e i maschi non piangono”
“Vuoi dire che io sono una femmina?”
La bambina annuì. Lui rimase in silenzio, per poi alzarsi di scatto in piedi e mettere le braccia conserte sul petto, con una smorfia offesa sul viso.
“Non è vero”
“Si che è vero, io ho sempre ragione.”
Il bimbo fece una faccia ancora più offesa, secondo lui era solo una bambina presuntuosa, non era vero che aveva ragione, lui non era una femmina. Pestò il piede sulla sabbia, facendo alzare un po’ di polvere, ma non disse niente, quando la bambina continuò a parlare.
 “Allora, perché piangevi?”
Il viso del bambino si fece di nuovo triste, tirò su con il naso.
“Mi è caduto il gelato sulla sabbia” disse, indicando un punto sporco nella sabbia, il punto del decesso del suo amato amico gelato e per cui aveva pianto tanto.
Phoebe aveva guardato il suo gelato, ci aveva riflettuto un po’, prima di porgli il suo.
“Tieni io non ne voglio più” disse una bugia, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per vedere il sorriso di quel bambino. E riuscì nell’impresa, perché il suo volto si illuminò, la sua bocca si aprì in un sorriso, che mostrava delle piccole fossette ai lati.
“Grazie. Sei gentile. Da oggi in poi sei la mia migliore amica”
“Allora lo sei anche tu” sorrise la bambina. “Come ti chiami?”
“Harry, ma in realtà il mio vero nome è Harold. Ma tu chiamami Harry, tutti mi chiamano così.”
“Okei Harry. Tu sei il mio migliore amico.”
Disse la bambina prendendolo per  mano, forse ancora non sapeva che Harry sarebbe stato il suo migliore amico solo per pochi giorni, e che non l’avrebbe più visto, almeno per qualche anno.
Phoebe gli sorrise, lui ricambiò il gesto, mentre felice si gustava il suo gelato.
 

***

 
Erano passati molti anni ormai da quel giorno, un giorno della loro infanzia di cui probabilmente, dopo 12 anni, si erano completamente dimenticati. O forse no.
Phoebe comunque non aveva mai dato importanza a quella vacanza al mare, dopotutto aveva solo sei anni, e ricordava poco di quelle giornate in spiaggia.
Ora, ormai diciottenne,  era seduta su una panchina di legno consumata, all’ombra di un ulivo,  ad ammirare gli alberi spogli del parco dove ormai passava tutti i pomeriggi, e ad osservare gli uccellini svolazzare tra quei rami cullati da una brezza fredda. Non c’era quel caldo sole di tanti anni prima, stavolta il cielo era grigio e cupo, occupato solo dalle immense e scure nuvole, che promettevano pioggia, come del resto ogni giorno. Ora era sola insieme ai suoi pensieri e alla natura, le piaceva stare lontana dai rumori e dal traffico londinese per sedersi su quella panchina, sempre la stessa tra le tante di quel parco. E lei, con le cuffiette alle orecchie, ascoltava beata le sue canzoni preferite dal suo inseparabile MP3, lasciandosi accarezzare da quel vento gelido che le faceva lacrimare gli occhi e che le scompigliava i capelli, dandole una bella sensazione, una sensazione di libertà.
Una libertà che forse solo il vento poteva avere, pensava.
Stava lì solo per sfuggire alla vita monotona che viveva ogni giorno, per scappare alle prese in giro a scuola, ai continui litigi in famiglia, quello era il suo rifugio, l’unico riparo per distrarsi da quel mondo in cui non era felice. Mancava solo una cosa nella sua vita, una cosa che potesse renderla veramente felice, ma lei ancora non aveva capito quale.
Chiuse gli occhi, facendosi trasportare dalle parole della canzone, che le penetravano nella mente,  e le facevano dimenticare tutto.
Poi sentì qualcosa. Qualcosa le sfiorò il braccio. Stavolta non era il vento. Sussultò e aprì di scatto gli occhi, togliendosi automaticamente le cuffiette dalle orecchie.
Un ragazzo. Un ragazzo? Si, c’era un ragazzo davanti a lei.
Un ragazzo abbastanza magro, capelli castani, dei perfetti riccioli ribelli che gli ricadevano in massa sulla fronte da un lato. Lui la guardò. Aveva degli occhi stupendamente verdi. Vivaci, luminosi, vispi. Le piacevano. 
“Scusa, non volevo spaventarti” disse lui. Che voce, pensò Phoebe.
“No, scusami tu, io non dovrei nemmeno essere qui” disse lei con un sospiro.
“Posso sedermi qui?”
“Certo, certo, siediti pure”
Phoebe gli fece spazio nella panchina, lui si accomodò.
Il ragazzo rimase qualche secondo in silenzio guardando gli alberi muoversi insieme al vento, muovevano i rami spogli come se fossero le mani dei fan ad un concerto che si muovevano a tempo di una canzone lenta. Il silenzio era tale che si sentiva solo il loro fruscio.
“Ah, scusami non mi sono presentato. Io sono Harry” si decise poi a parlare il ragazzo porgendole la mano, che lei strinse subito, come se non aspettasse altro.
“Oh, Harry, che bel nome”
“Si, in realtà mi chiamo Harold, ma io odio quel nome. Chiamami Harry” sorrise, mostrando quasi tutti i suoi denti, mentre ai lati della bocca spuntarono due fossette.
Fossette. Occhi verdi. Harry, Harold… Tutto questo le ricordava qualcuno. Dove aveva sentito quei nomi?
Phoebe saltò di scatto in piedi, facendo sussultare il ragazzo che era seduto sulla panchina.
Gli puntò il dito contro, come se volesse accusarlo di qualcosa, il suo volto si illuminò come se si fosse ricordata di qualcosa o come se le fosse venuto in mente qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
“E’ possibile? Sei tu? Quell’ Harry?”
Il ragazzo la guardò tanto d’occhi, non sapendo di cosa stesse parlando.
“Può essere, io mi chiamo Harry, ma sai, ce ne sono tanti qui e…”
“Ma sii, sei Harry-Harold quello della spiaggia con il gelato!” disse tutto d’un fiato, sempre con il dito puntato verso di lui.
Il gelato sulla sabbia!
Stavolta anche il volto del ragazzo si illuminò e si fece radioso, finalmente si ricordava di lei.
 “Tu sei Phoebe! Si, sei la bambina quella della spiaggia del gelato!”
“Si, sono io! Mi ero quasi dimenticata di te!” Disse Phoebe, buttandosi istintivamente fra le braccia del ragazzo, per poi pentirsene subito, staccandosi immediatamente da lui e diventando rossa in viso per la vergogna.
“Scusami… Non volevo” cercò di giustificarsi lei.
“Fa niente… Anzi mi è piaciuto il tuo abbraccio” disse Harry, guardando intensamente gli occhi della ragazza, che ora arrossiva ancora di più. Nel suo viso riusciva a ricordare e a vedere quella bambina, e improvvisamente si ricordava ogni particolare si lei e di quella normalissima giornata in spiaggia. “Quindi tu abiti a Londra?” le chiese, per rompere il ghiaccio.
“Si io sono nata qui”
“Bello! Sei mai stata sul London Eye?”
“No”
“Ma come sei nata a Londra e non sei mai andata sul London Eye?” chiese sorpreso il ragazzo, mentre Phoebe scosse di nuovo la testa.
I due ragazzi iniziarono a parlare. Parlavano del loro incontro, di quanto erano piccoli quando si erano conosciuti, pensavano a cosa avrebbero voluto dirsi prima di non vedersi più, e che ogni tanto, anche dopo tanti anni, si erano chiesti dove fossero in quel momento.
 
Da quel giorno Phoebe e Harry iniziarono a vedersi tutti i pomeriggi, sempre lì, su quella panchina, a parlare, a ridere. E più la ragazza stava insieme a lui, più lei si sentiva felice e realizzata, per aver ritrovato un amico che non sperava più di rivedere.
Ormai era passato un anno. Era l’ennesima giornata nuvolosa, e lei era lì, sulla panchina di legno del parco, ad aspettare il suo migliore amico.
Era in ritardo, pensò, guardando l’orologio. Lui non arrivava mai in ritardo.
Era sempre stata con lei, tutti i giorni, si davano appuntamento sempre, per stare lì, soli in quel parco, perché non avevano altro modo di incontrarsi e di parlare. E non era mai mancato, neanche una volta.
Phoebe iniziò a guardarsi intorno. Il parco sembrava sempre lo stesso, lo stesso di sempre, eppure era passato un anno dal loro secondo incontro, che in qualche modo aveva cambiato la sua vita, aveva cambiato lei.
Ora guardava il marciapiede. Alcuni piccioni svolazzavano tra di esso beccando delle briciole e facendo a lotta tra di loro per prenderle. Ma qualcosa si avvicinò e le fece volare via, si alzarono in volo per poi posarsi sul tetto di una casa. Eccolo, era arrivato finalmente. Il rumore dei suoi passi lenti e pesanti rimbombavano nel silenzio del parco a contatto con i ciottoli e i sassolini del vialetto. Phoebe gli andò incontro, notò che aveva un’espressione sconvolta in viso, preoccupata, scoraggiata, triste.
“Hei, perché ci hai messo tanto? Che è successo?”
Harry continuava a rimanere in silenzio e a testa bassa, tirò su con il naso.
“Che hai?”
“Domani parto”
Cosa?
“Ci trasferiamo. I miei hanno divorziato e mia mamma ha deciso di andarsene da qui. Mi dispiace, ho cercato di convincere mia madre a restare ma..”
I suoi occhi si erano fatti lucidi, lui continuava a guardare in basso, forse per nascondere le lacrime. Non riuscì a finire la frase, sapeva che lei aveva capito.
Phoebe gli alzò il mento, costringendolo a guardarla. Ora si trovavano faccia a faccia, i loro occhi, con le lacrime in attesa di uscire, scendere e farsi vedere dal mondo esterno, si incontrarono di nuovo, i loro sguardi si incrociarono facendosi ancora più intensi e profondi.
“Harry, c’è una cosa che avrei voluto dirti un po’ di tempo fa”
Disse lei con voce flebile, solo la loro vicinanza permetteva a Harry di sentirla.
“Cosa?”
La ragazza si avvicinò ancora di più a lui.
“Io ti amo” alla fine disse con voce ancora più bassa, ma lui quella frase la sentì chiaramente.
Senza aspettare risposta Phoebe si avvicinò a lui ancora di più, fino a che i loro nasi si sfiorarono, e unì le sue labbra con quelle del ragazzo. Finalmente aveva osato, aveva osato sapendo che poteva correre un rischio. E se lui non ricambiava? E se in quel modo aveva solo fatto un enorme sbaglio e aveva rovinato la loro amicizia? Quei pensieri balenavano nella sua mente, ma Harry era ancora lì e iniziò a cercare la sua lingua, a inseguirla, e a danzare con la sua, fino a quando non avevano più ossigeno e si staccarono, per ritrovarsi di nuovo a guardarsi negli occhi, vicinissimi. Le prese una mano, provocandole un brivido lungo la schiena.
“Anche io ti amo” disse lasciandole un altro bacio sulle labbra.
“Potremmo passare l’ultimo giorno insieme, che dici?” disse lei, facendosi ora più sicura di sé.
 
Harry spense la luce con la mano che gli era rimasta libera, mentre l’altra era occupata a tenere in braccio Phoebe. Le sue gambe gli cingevano i fianchi, mentre la testa, appoggiata sulla sua spalla, affondava tra i riccioli del ragazzo. I loro visi calarono nell’oscurità, solo una flebile luce proveniente da fuori illuminava debolmente i loro visi. Phoebe si lasciò andare nel letto morbido, mentre Harry si sdraiò delicatamente sopra di lei, le diede un leggero bacio sulle labbra. Lei lasciò che Harry le togliesse la maglia e i jeans, e poi fece lo stesso con lui. Fino a quando rimasero completamente nudi. Harry le accarezzò i capelli, e la guardò nel buio della notte, per poi lasciarle un ultimo bacio.
 

***


Poco lontano da Londra un bambino e sua madre passeggiavano mano nella mano in uno dei soliti parchi invasi dagli alberi e dal verde. Il bimbo, dai capelli biondi e dagli occhi verde chiaro, vispi e vivaci e che guardavano con curiosità tutto intorno a lui, camminava a piccoli passetti a fianco di sua madre, che guardava con nostalgia il parco. “Mamma, mi compri un gelato?” chiese il piccolo con una vocina dolce.
“Certo che te lo compro, tesoro” rispose lei, ricordandosi a una persona a lei cara, che non vedeva da molti anni. Sorrise al figlio. Anche lui le aveva sempre ricordato quella persona, quando era piccola, quando l’aveva incontrata la prima volta. Chissà se l’avrebbe più rivista. Era l’ennesima volta che se lo chiedeva.
Il piccolo continuava a guardarsi intorno, lasciò la mano della madre per andare a cercare qualcuno con cui giocare e per ‘esplorare’ il grande giardino. Si avvicinò ad un signore seduto su una panchina di legno, sotto un ulivo.
“Ciao” disse l’uomo, vedendo il piccolo. Evidentemente gli piacevano i bambini, sorrise.
“Ciao” rispose al saluto il bimbo, intimidito.
“Hai perso la mamma?”
“No, è là” disse indicando con l’indice un punto il lontananza. “Vieni, te la faccio conoscere, così fate amicizia” aggiunse prendendo la sua mano e facendolo alzare trascinandolo in quel punto che indicava.
Ed ecco che la vide. La riconobbe. Era chiaramente più grande, me era lei. E quello che teneva per mano era sua figlio. Anche la donna lo riconobbe in lontananza, ma il bimbo presto arrivò a meta, e loro si ritrovarono faccia a faccia. “Sei tu?” disse la donna guardandolo. Gli era cresciuta la barba, aveva qualche ricciolo in meno, ma gli occhi erano sempre i soliti.
“Phoebe…. da quanto tempo” disse lui abbracciandola. Il bimbo, sotto di loro, li guardava divertito con la testa in alto, pensando di essere riuscito nel suo intento.
“Sarà stato il destino…” disse poi Harry staccandosi dall’abbraccio.
“Che vuoi dire?”
“Insomma, ci siamo persi di vista due volte. Sarà il destino che ha voluto che ci rincontrassimo”
Phoebe annuì. In effetti poteva essere vero, credesse o no nel destino o negli dei, da qualche parte era scritto che loro si rincontrassero. Oppure era stato semplicemente il caso?
“Ma ora ti prometto che non vi lascerò mai più..” aggiunse scompigliando i capelli al piccolo che sorrise divertito, per poi prenderlo per mano.
“Sei mai stato sul London Eye?” gli chiese.
“No”
“Come, non ci sei mai stato? Un giorno ti ci devo portare!” gli disse, mentre tutti e tre, per mano, sorridevano, felici. E lì Phoebe capì qual era quella cosa che la rendeva felice nella sua vita, ce l’aveva davanti agli occhi. Anzi, li aveva.
In fondo, loro erano fin dall’inizio destinati a stare insieme
  
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