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Autore: Lunkas    30/03/2012    2 recensioni
Ti dico che ho paura. Sussurri che sei con me. Mi stringi la mano.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alessandro il Grande, Efestione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Ordunque, son tornata! Era da secoli che non scrivevo *asciuga lacrimuccia*, e mi sembra giusto ed opportuno ricominciare partendo da questo pairing per vostra disgrazia gioia <3 
                   Bene, come al solito su questi due bei ragazzuoli non mi esce nulla che sfiori anche solo lontanamente il comico o comunque il fluff. E' più forte di me. Ergo, punto su ciò che mi esce meglio: la tristessa. Tutta
                   questa beeeella storiella è nata da questo video:  http://www.youtube.com/watch?v=nvcvhkDb1P8, che definire capolavoro è poco. Tantopiù che adoro i Placebo (gnam). Ecco, datemi i Placebo ed una penna e  
                   sicuramente il risultato sarà una storia deprimente. I'm sorry. Quindi... TA DA'. 
                   P.S:Sì, il titolo non ha molto senso, pardon T-T

WHERE WE ARE

 And thems the breaks for we designer fakes.
We need to concentrate on more then meets the eye.
Placebo- Twenty Years                 

 Sei qui.
Se entrato senza bussare, come sempre. Sei passato attraverso tutti i macedoni e ti sei posto al mio fianco, come hai sempre fatto. Mi hai sorriso e mi hai poggiato una mano sulla mia spalla, come al solito.
Avverto questa tua presenza discreta che mi sostiene, mentre tutti attorno a noi stanno urlando. Sussurro il tuo nome, per farti capire che so che ci sei, anche se non posso guardarti: gli occhi mi fanno troppo male.
Ti siedi accanto a me e mi scompigli i capelli. Cerchi di far zittire i generali, che continuano a sbraitare come se non esistessimo. Come se non fossimo mai esistiti. Come se stessimo per scomparire nel nulla.
Dove siamo?
Mi sussurri un nome all’orecchio. Ma non capisco. Ripetilo,  per favore. Urlano troppo forte, falli smettere … Ma i generali non ti ascoltano. Sento che li implori di fare silenzio; sussurri loro che ho bisogno di essere lasciato da solo. Solo con te. Non ti ascoltano, non ti danno attenzione. Urlano più forte. Qualcuno si avvicina. Gli ringhi di allontanarsi, circondandomi con le tue braccia. Ti scavalca. Comincia a scrollarmi urlando qualcosa che non capisco. Cosa dice? Dimmelo, ti prego. Fallo smettere. Mi rispondi che vuole l’anello. E’ un soffio. Che anello? Quello del potere.
Quale potere?
Quale potere desideri, villano?
Non sarà un anello a dartelo.
Non sarà l’anello, né la mitra, né i miei occhi chiusi.
Mi abbracci, mentre il villano continua a scrollarmi urlando parole che non voglio capire.



Il canto dei grilli. I grilli cantano solo a Babilonia, me lo dicesti tu. Sono desto, ma i miei occhi continuano a farmi male. Vogliono dormire. Sento il tuo respiro sul collo. Mormori che va tutto bene: è sempre così, all’inizio.
Inizio di cosa?
Un singhiozzo. Non è il tuo singhiozzo. Quando piangi tu non singhiozzi.
C’è silenzio, l’ho notato solo ora. Perché non  me l’avevi detto, che non c’era più nessuno? Scrolli le spalle, rispondendo che non ce n’era il bisogno.
Un altro singhiozzo.
Sento delle mani sul petto, vicino al cuore. Stanno tremando, e non sono le tue mani. Qualcuno è nella stanza e turba la mia, la tua, la nostra solitudine. Dici che non lo fa di proposito: vuole solo svolgere il suo lavoro. Sento un mugugno. Un mugugno conosciuto, ma non è il tuo. Le mani scivolano via dal petto e vanno al volto. Ti scosti con stizza, borbottando qualcosa. Mi ordini di aprire gli occhi. Ti dico che mi fanno male, non ci riesco. Lo ordini di nuovo, intransigente. Come sempre.
Sforzo poco le palpebre, ma non riesco a schiuderle. I singhiozzi si trasformano in un pianto convulso. Alcune gocce salate mi bagnano gli zigomi e le labbra. Non sono le tue lacrime.
Il tuo sussurro mi ordina di provare ancora. Schiudi le palpebre, mi dici. Ci ritento: un lieve spiraglio di luce.
Mi inciti: più forte! Sforzo i muscoli e ci riesco: apro gli occhi.
C’è fumo nella stanza.
Dove siamo?
Un grido si diffonde nell’ambiente. Le mani stringono delicatamente il volto. Vedo due occhi. Sono pieni di lacrime e neri. Non sono i tuoi occhi. Sono gonfi, arrossati. Ma brillano. Un bisbiglio urlato: “Mio signore!”
Un accento diverso. So di chi è quell’accento. Sorrido. Gli occhi neri mi rispondono con un sorriso disperato: “Non morire, mio signore!”
Morire?
Mi volto verso di te. Non me l’avevi detto. Scuoti la testa, e con una mano mi chiudi gli occhi. Un altro singulto si spegne nel buio.




Ti sento vicino. Mi abbracci ed io poggio la mia testa sulla tua spalla. Sono stanco; dici che è normale. Vorrei coricarmi; rispondi che devo aspettare ancora un po’.  
Non ci sono rumori, né singhiozzi. Anche i grilli sono muti. Non so dove siamo.
Mi accarezzi il volto. Il tuo tocco lo conosco: sei tu.
Ti ricordi? quando eravamo bambini. Vedo il mio dente da latte brillare sul tuo collo.
Ti ricordi? le carezze. Le promesse. Oh, quelle promesse.
Ti ricordi? il buio. La paura. I sorrisi imbarazzati.
Ti ricordi? quella battaglia. L’inverno alle porte. I nostri corpi gelidi sotto la coperta.
Ti ricordi? la morte. La corona. La guerra.
Ti ricordi? la partenza. La fede. Il dio.
Ti ricordi? i monti. Il deserto. Le patrie.
Ti ricordi? il ritorno.
Sorridi continuando ad accarezzarmi. Non rispondi. Il tuo sorriso è mesto: cela un ricordo. Ho gli occhi pesanti. Ripeti che il primo tempo è sempre così, poi passa tutto. Dici che l’hai già vissuto.
Cos’hai vissuto?
Taci. Detergi il mio sudore con le dita. Non sorridi più. Mi dici di provare a riposarmi, ma io non ci riesco. Mi fanno troppo male. Annuisci. Mi prendi una mano e la stringi con forza. Sussurri che finirà presto.
Una lacrima ti scivola lungo la guancia, ed io non riesco a fermarla.





Sussurri che è tardi, che devo decidere. Attorno a noi c’è di nuovo chiasso. Ti imploro di farli smettere, ma tu scuoti il capo: è tempo che io decida.
Decidere cosa?
Il successore. Che successore? Il successore del regno. Non sanno a chi affidarlo. Sfoceranno in una guerra civile e distruggeranno l’impero.
Quale impero? Io non ho un impero. Non ho un successore. Ricordi la nostra promessa? I nostri figli avrebbero vissuto insieme; saremmo andati oltre il mare, io e te. Te ed io. Insieme.
Mi fissi con rimprovero: devi decidere il successore, altrimenti tutto ciò non avrà mai fine. Ma io non ho il successore. Io non ho niente. Niente…
Qualcuno urla il mio nome. Non sei tu. E’ un urlo iroso, che emana un ordine. Non capisco ciò che dice. Sussurri che vuole sapere a chi lascerò il mio regno. Non riesco a parlare. Dici che devo sforzarmi. Apro la bocca. So cosa dire. Devo dirlo. Devo lasciare il mio regno a qualcuno. Lascerò il regno al più meritevole.
Annuisci con approvazione. Dici che adesso posso rilassarmi. Forse riuscirò ad addormentarmi.
Attorno a noi torna il silenzio.
Sussurri che penserai a tutto tu. Mi sfili l’anello e lo lasci cadere.
Le urla ricominciano più forti, ma a me giungono ovattate. Credo di star per addormentarmi. Mi dici che adesso sarà tutto più semplice. Ti dico che ho paura. Sussurri che sei con me. Mi stringi la mano.
Le urla sono lontane.
Lontane.
Noi siamo lontani.
Dove siamo?
Mi baci piano, sulle labbra. Mi dici che siamo insieme, per sempre.




  

“Il mio nome è Alessandro, e sono il figlio del re!” esclamò il bambino biondo, sedendosi accanto a lui.
“Io sono Efestione” rispose in un sussurro.
Il bambino lo osservò per un po’ con curiosità. “Vuoi essere mio amico?” chiese dopo, facendosi più vicino.
Efestione scrollò le spalle: “Va.. va bene” sorrise.
Alessandro sorrise a sua volta, felice: “Dovremmo scambiarci qualcosa, però. Per rendere tutto più ufficiale!”
“Io non ho nulla; solo questo” mugugnò Efestione tirando fuori da un sacco un dente da latte e dandolo al figlio del re.
Alessandro scrutò serioso il piccolo dente candido che risaltava sul suo palmo roseo. Annuì con approvazione e si cacciò una mano nella bocca, afferrando un dente traballante e tirandolo forte. Il dente venne via, e lui provò un forte dolore. Trattenne le lacrime, consegnando al ragazzo bruno il dente ancora sporco di sangue: “Siamo amici adesso” sentenziò “Per sempre”
Efestione annuì, facendo scivolare il dente nel sacchetto. “Per sempre” ripeté, fissando gli occhi di Alessandro “Fino alla morte”


  
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