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Autore: JustALittleLie    31/03/2012    8 recensioni
Quando Jude, cresciuta nel North Carolina, si era trasferita a New York per studiare alla Columbia, aveva pensato che quella sarebbe stata la svolta della sua vita. In una città così grande avrebbe sicuramente trovato un buon lavoro, delle persone intellettualmente stimolanti e, più importante di tutto, il suo principe azzurro.
Le cose non erano andate però secondo i suoi piani e tutto quello che aveva era un lavoro come ragazza delle consegne da Frankie's e due coinquiline alquanto strane.
Oh, ma il bello, la ciliegina sulla torta, doveva ancora arrivare ed aveva anche un nome: Andrew.
***
-ma questo è un ricatto!- si ritrovò quasi ad urlare, rossa in viso, mentre il ragazzo si allontanava
-e questa è New York, piccola- e le fece l’occhiolino mandandole un bacio, con tanto di schiocco.
  
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima cosa che pensò Jude appena aprì gli occhi, fu che sarebbe stato carino per una volta essere svegliata dal trillo della sveglia che accuratamente programmava ogni sera, e non dalla voce di Lauren che dal bagno intonava una melodia a lei sconosciuta, ma alquanto acuta e stridula.

Con uno sbuffo cercò di coprirsi le orecchie come meglio poteva col cuscino, ma la voce di Lauren riusciva a oltrepassare qualsiasi ostacolo. Si mise a sedere sul letto, spegnendo la sveglia prima che suonasse –perché diavolo continuava a metterla se sapeva che sarebbe stata svegliata dalle urla di Lauren?- poi si dedicò alla ricerca delle sue pantofole, intenzionata ad andare dalla coinquilina per tapparle la bocca in qualche modo violento e poco gentile, ma proprio mentre stava indossando le sue pantofole rosa a forma di coniglio sentì Elle, dal corridoio, precederla.

-LAUREN! SONO STUFA DI SENTIRTI CANTARE OGNI MATTINA, CHIUDI IL BECCO!-

Lauren non rispose, ma Jude la sentì improvvisamente smettere di cantare e sorrise soddisfatta mentre si alzava per recuperare i vestiti che aveva accuratamente preparato la sera prima su una sedia.

A Jude sembrava che fossero passati solo una decina di giorni da quando si era trasferita in quella casa, a New York, da quando aveva conosciuto Lauren ed Elle, che poteva considerare le uniche persone con cui aveva un qualche rapporto, ed invece era passato più di un anno.

Alla notizia che la Columbia University aveva accettato la sua domanda, Jude si era sentita eccitata e terrorizzata nello stesso momento. Nel piccolo paesino del North Carolina, dove aveva vissuto per diciotto anni, Jude non aveva trovato nessuno con cui potesse veramente parlare o confrontarsi, in una cittadina di provincia le persone hanno la mentalità ristretta e più volte si era trovata a sostenere gli occhi sbarrati di qualche suo compagno di classe quando parlava di un qualche argomento un po’ più maturo che andasse al di là dei semplici concetti che ti insegnano a scuola. Jude si sentiva terribilmente diversa dalle persone che la circondavano, forse per questo non aveva mai avuto una migliore amica, come tutte le ragazze della sua età avevano. Anche i suoi rapporti con l’altro sesso erano molto limitati e poco stimolanti, ma ora stava per trasferirsi a New York e tutto sarebbe cambiato, sapeva che da qualche parte lì in giro c’era la sua anima gemella, che l’attendeva. Allo stesso tempo però era anche terrorizzata all’idea, perché avrebbe dovuto affrontare un cambiamento così grande da sola, senza l’aiuto dei suoi genitori, gli unici veri amici che avesse mai avuto.

I primi tempi erano stati difficili, la casa che aveva fittato via internet era mal ridotta ed il fitto era così caro che a fine mese le restavano a mal appena i soldi per mangiare, le lezioni all’università erano molto interessanti e piacevoli, ma non si era ancora ambientata del tutto e, contrariamente a quanto si era aspettata, nessuno pareva interessato a parlare con lei, tutti erano impegnati a correre da una parte all’altra del campus, in ritardo per qualche lezione, come cavalli sbizzarriti e lei si sentiva del tutto spaesata.

Poi, finalmente, era arrivata Lauren che con un sorriso a trentadue denti l’aveva invitata a sedere accanto a lei a lezione e parlando del più e del meno le aveva detto che lei e la sua amica erano in cerca di una nuova coinquilina. Non ci volle molto per convincere Jude a lasciare la casa mal messa e triste dove viveva, per andare con loro.

Dal primo momento in cui l’aveva vista, Lauren le aveva trasmesso un senso di sicurezza e calore, era una di quelle persone forti e indipendenti, una di quelle che parevano ridere di fronte alle difficoltà della vita, prendendo tutto con innata leggerezza ed uscendone sempre illese. Jude sognava di essere un po’ come lei, ma il suo carattere ansioso e dedito all’ordine mentale e materiale glielo impediva.

Elle, invece, era tutt’altra storia. La prima volta che l’aveva vista -quando Lauren l’aveva portata a casa per farle vedere l’appartamento- Jude ebbe come l’impressione che Elle volesse sbatterle la porta in faccia. I capelli rossi erano legati in uno chignon disordinato e gli occhi verdi l’avevano squadrata attentamente per qualche istante prima di posarsi su Lauren che intanto volteggiava verso la camera che poi sarebbe stata sua.

-si può sapere perché continui a bussare se hai le chiavi? Non sono il tuo portiere- aveva sbottato puntandosi una mano su un fianco, mentre Jude si era sentita completamente fuori luogo.

-oh, non riuscivo a trovarle nella borsa!- in realtà Jude non l’aveva vista cercare le chiavi di casa –non essere sgarbata Ells, saluta la nostra nuova coinquilina!-

Gli occhi verdi di Elle erano tornati a squadrare Jude in un modo che le fece colorare le guance di rosso per l’imbarazzo.

-beh, almeno saremo in due a sopportare l’egocentrismo di Lauren- aveva borbottato in fine, prima di voltarle le spalle e tornare a chiudersi nella sua stanza.

Le parole di Elle si avverarono, e tutti i giorni le due si ritrovavano a dover sopportare il fastidioso cantare di Lauren sotto la doccia, il suo incurabile disordine, l’andirivieni di ragazzi che entravano la sera ed andavano via la mattina -preferibilmente prima di colazione- e i mille altri difetti della ragazza, come quello di essere perennemente in ritardo.

-se mi fa fare tardi anche questa mattina, giuro che la uccido- ringhiò Elle seduta al piccolo tavolo rotondo della cucina insieme a Jude, lanciando uno sguardo furioso all’orologio che portava al polso.

-vedrai che ora arriva- la rassicurò Jude, ansiosa, non le piaceva arrivare in ritardo.

Elle ringhiò ancora, in risposta, finendo in un sorso il suo caffellatte.

La pazienza non era uno dei pregi di Elle, per questo Jude spesso era chiamata a mettere pace tra le due e più volte si era chiesta come avessero fatto a vivere insieme senza scannarsi, prima che arrivasse lei.

-dopo le lezioni mi aspetti? potremmo andare insieme a lavoro- chiese Jude, tentando di distogliere l’amica dall’accurata preparazione mentale del piano perfetto per uccidere Lauren.

Elle si limitò ad annuire, mentre si alzava per riporre la tazza ormai vuota nel lavabo.

-E’ vicino la biblioteca, no?- chiese frettolosa mentre infilava il giubbotto nero, per lanciare poi uno sguardo spazientito verso il corridoio.

-si- Jude sperava che Lauren si muovesse prima che Elle decidesse di andare  prenderla personalmente, probabilmente trascinandola a forza fino alla porta –proprio di fronte-

Elle lavorava da una vita ormai in biblioteca, il salario non era alto ma la ragazza era entusiasta di poter essere circondata da libri, da sempre preferiti alle persone. Senza contare che Elle, a differenza di Lauren e Jude, non aveva bisogno di lavorare per mantenersi agli studi visto che proveniva da una famiglia piuttosto ricca, ma la ragazza, spinta da uno spirito di autosufficienza, non prendeva più del dovuto dai genitori, lavorando e sudando qualsiasi cosa volesse che andasse al di là delle spese universitarie. Era una che non approfittava del suo status sociale, come dimostrava il fatto che vivesse in una casa con due coinquiline fastidiose, nonostante fosse bastato uno squillo al padre per ottenere un attico con vista su central park.

-eccomi qui!- la voce squillante di Lauren fece capolino in cucina facendo rilassare visibilmente Jude, che si alzò di scatto per afferrare la sua borsa.

Finalmente riuscirono ad uscire di casa, stranamente in orario.

-Hei Jud, non hai il tuo primo giorno di lavoro oggi?- chiese Lauren mentre si avviavano a passo svelto per la strada

-si, ma sono già nervosa, non me lo ricordare!- rispose stringendosi di più al collo la sua sciarpa rossa

-la nuova ragazza delle consegne di Frankie’s!- trillò allegra Lauren in risposta –oh, sarai fantastica con l’uniforme gialla-

Jude la ignorò avanzando il passo, ma a quanto pare quella mattina Lauren aveva più voglia che mai di infastidire le sue coinquiline.

-hei, cos’hai stamattina, brontolo?- si avvicinò pericolosamente a Elle picchiettandole una spalla –sei più imbronciata del solito-

Jude sospiro. Certo, Elle aveva il suo caratteraccio, ma non si poteva dire che Lauren facesse di tutto per evitare la collera della rossa.

-forse brontolo- saltò immediatamente Elle indicandosi –non sarebbe così imbronciata se sua altezza la regina delle oche non avesse perso tutto quel tempo a rimirarsi allo specchio facendole fare tardi-

Lauren si ritrasse come scottata e Jude alzò gli occhi al cielo, pronta ad assistere ad un altro dei loro soliti battibecchi.

-ma se siamo in perfetto orario!- sbottò la mora

-siamo cinque minuti in ritardo-

Elle, precisa come sempre.

-in ritardo per cosa? Sono le otto e quaranta e le lezioni non cominciano prima delle nove!-

-sai che mi piace arrivare in anticipo! E poi tu…-

Jude premette il tasto play sul suo iPod e la voce di Paul McCartney sostituì quella ben più fastidiosa delle due ragazze a qualche metro da lei che discutevano inutilmente.

Conoscendo le due quel battibecco sarebbe durato finché non fossero arrivate a scuola e, fortunatamente, sarebbero state costrette a separarsi, quindi, meglio impiegare il tempo fino ad allora in modo piacevole.

Amava i Beatles da quando era bambina, all’inizio li ascoltava solo perché suo padre, di origini inglesi, ne andava matto –non a caso aveva tanto insistito per chiamarla Jude- ma poi col tempo si era resa conto che le piacevano davvero quelle canzoni che parlavano d’amore, di sogni, di speranze per un mondo migliore.

Ricordava che ogni sera suo padre intonava le note di Hey Jude, poi le baciava una guancia augurandole la buonanotte e sussurrandole la stessa frase ogni sera: “Sarò sempre qui per te principessa, fin quando non crescerai e troverai il tuo principe che ti proteggerà e ti amerà come faccio io”.

Ora suo padre era lontano e lei era cresciuta, ma quel principe di cui tanto le aveva parlato non era ancora arrivato.

Eppure Jude sentiva che era vicino, che nascosto tra quei ragazzi arroganti, rudi e senza più un minimo di romanticismo, c’era anche il suo principe.

 

 

 

 

 

Andrew tese l’orecchio verso la porta nell’intento di cogliere le parole del fratello nell’altra stanza.

-Si mamma, qui va tutto bene ti ho detto- il tono era accondiscendente, ma impaziente –perché non provi a parlargli?-

I muscoli delle spalle di Andrew si tesero automaticamente nel sentire quelle parole.

-E’ di la, vuoi che te lo passi?-

Con un gesto riflesso strinse la mano attorno alla chiave infilata nella serratura, pronto a barricarsi dentro nel caso suo fratello avesse avuto l’intenzione di farlo parlare a telefono.

-no, certo, lo chiamerai tu quando avrai tempo- lo sentì sospirare e si rilassò un po’

Quando avrai tempo. Quando mai sua madre aveva avuto tempo per lui?

Sentì dei passi avvicinarsi alla porta e poco dopo qualcuno bussare. Si passò una mano sul viso stanco e poi tra i capelli, prima di aprire la porta, trovando il fratello in giacca e cravatta già pronto per uscire per la sua tipica, monotona, giornata.

-io vado a lavoro- lo avvertì

-bene- rispose semplicemente lui alzando un sopracciglio con aria strafottente, come a voler sottolineare che la cosa non lo interessava minimamente.

Il fratello sospirò, prima di ricominciare a parlare –intendi fare qualcosa di costruttivo della tua vita, oggi?-

Andrew strinse i pugni affondando le unghie nel palmo delle mani –lo faccio tutti i giorni, in realtà- rispose tra i denti.

-e quello che fai lo chiami costruttivo?- chiese scettico

Ecco, una delle loro conversazioni standard. Di solito però queste avvenivano la sera, quando suo fratello tornava stanco da lavoro e non riusciva a fingere di sopportarlo, allora inveiva contro di lui ricordandogli in tutti i modi possibili che era la pecora nera della famiglia, quella che aveva portato il seme della discordia. Era strano che il fratello non lo sopportasse già da prima mattina, sicuramente una buona parte di quella reazione era dovuta alla telefonata della madre.

-perché non mi butti fuori di casa se non sei d’accordo con quello che faccio?- lo sfidò alzando il mento

-perché sei mio fratello, diamine! E voglio solo aiutarti a capire chi sei veramente-

Oh, ecco che veniva fuori il suo lato da psicologo fallito, quello che voleva capire ed aiutare il mondo.

-Posso dirti quello che non sono Ben- ringhiò –non sono come te, non sono come mamma e papà e non studierò mai medicina e non diventerò mai un chirurgo-

Ben annuì indietreggiando di qualche passo –io non sono come loro, non voglio costringerti ad essere qualcosa che tu non vuoi, voglio solo aiutarti ad essere qualcuno, ma tu sei troppo perso per capirlo- voltò le spalle e se ne andò sbattendo la porta dietro di se.

Andrew si prese il viso tra le mani facendo pressione coi polpastrelli sulla sua pelle. Aveva voglia di prendersi a schiaffi, di graffiarsi, urlare, ma non poteva farlo, il suo viso era tutto quello che aveva, venderlo era l’unico modo per sopravvivere in quella giungla di cemento.

Aveva fatto bene a trasferirsi da suo fratello in un altro continente? Era la domanda che si faceva più o meno tutte le sere prima di andare a dormire, la domanda che era rimasta in sospeso da tre anni ormai.

Qual’era l’alternativa, d'altronde? Rimanere in Inghilterra e seguire la volontà dei suoi genitori di diventare un chirurgo come loro? Non riusciva nemmeno ad immaginarlo.

I suoi genitori avevano messo al mondo i due fratelli con l’intento di creare due cloni di loro stessi. Fin da piccoli quando agli altri bambini del vicinato ricevevano per Natale delle bici nuove con cui facevano gare per la strada, Andrew e Benjamin ricevevano regali come “il piccolo chirurgo” o interessantissimi libri sul corpo umano ed ai due non restava che guardare fuori dalla finestra con aria sognante i bambini che sfrecciavano felici sulle loro biciclette fiammanti.

Ben, di tre anni più grande di Andrew e dal carattere più mansueto e sottomesso, aveva accettato la volontà del genitori quando frequentava le scuole superiori, Andrew poteva persino ricordare il momento esatto della sottomissione totale.

Era un giorno di metà ottobre e Ben portò a casa il suo primo compito di chimica, sulla quale una A+ era cerchiata di rosso; Andrew guardò attentamente la madre mentre prendeva il foglio tra le mani e successivamente rivolgeva uno sguardo di pura soddisfazione verso il figlio più grande. In quel momento una scintilla passò negli occhi di Ben e Andrew capì che da quel momento in poi il fratello avrebbe fatto di tutto per ottenere il maggior numero di quegli sguardi e l’unico modo, ovviamente, era seguire la volontà dei suoi genitori.

Dopo la sottomissione del primo figlio, ai suoi genitori pareva scontato che anche il secondo avrebbe obbedito al loro volere, ma non avevano fatto i conti col carattere e la testardaggine di quest’ultimo.

Il fastidioso vibrare del suo cellulare lo distrasse dal pericoloso fluire dei suoi pensieri.

-chi è?- rispose senza nemmeno guardare il numero sul display

-il tuo angelo custode- ridacchiò una voce maschile dall’altro lato –vuole ricordarti che sei in ritardo, di nuovo. E che se non varcherai la soglia dell’ufficio tra cinque minuti ti licenzieranno, di nuovo-

Andrew gettò uno sguardo veloce alla sveglia sul comodino per poi imprecare a mezz’aria.

-arrivo, intrattienili per quindici minuti e sono lì- soffiò mentre raccoglieva dei vestiti dalla sedia

-sbrigati- rispose semplicemente il ragazzo dall’altro lato, per poi riagganciare.

Andrew si avviò verso il bagno mentre cercava di ricordare mentalmente tutti gli impegni della giornata. Avrebbe dovuto trascorrere tutta la giornata a lavoro e se, per puro miracolo, avesse finito prima delle otto, sarebbe dovuto passare per il market a fare la spesa, cosa che Ben era del tutto incapace di fare.

Arrivato in bagno si guardò allo specchio, passandosi una mano tra i capelli. Non aveva un bell’aspetto. Gli occhi erano contornati da pesanti occhiaie violacee e il volto era stanco e pallido, evidentemente penalizzato dalle pochissime ore di sonno che accumulava a notte.

Da quando era arrivato lì non c’era una sera in cui riuscisse a dormire sereno, non una sera in cui i suoi fantasmi non fossero andati a trovarlo e lui tremava ogni sera, stringendosi, attendendo il loro arrivo. Quei fantasmi gli sussurravano cose che lui non voleva sentire, gli sussurravano quello che infondo anche lui sapeva.

Che era un fallito.

Ma lui aveva trovato una soluzione, un sistema che gli permettesse di scacciare quel fantasmi malvagi, almeno di giorno.

Aprì il mobiletto di vetro di fronte a se e dopo aver scostato vari barattolini di medicinali afferrò una scatola bianca che giaceva sul fondo dello scomparto. La scritta sulla scatola diceva “aspirina”, ma quello che Andrew estrasse dal suo interno, di certo non lo era.

Aveva deciso di nasconderla lì perché suo fratello era allergico alla aspirina e sapeva che non gli sarebbe mai venuto in mente di prendere quella scatola, nemmeno per sbaglio.

Prese la bustina di plastica trasparente dalla scatola e versò un po’ del suo contenuto sulla superficie piatta della mensola accanto al lavandino per poi estrarre un piccolo pezzo di vetro, sottilissimo, cominciando a sminuzzare attentamente la polverina bianca di fronte a se.

Solo una volta -si riprometteva tutti i giorni- domani sarò più forte e riuscirò a farcela senza questa roba.

Ma ogni giorno, inevitabilmente, si ritrovava nella stessa situazione, nella sua stessa trappola, senza nemmeno accorgersene.

 

 

 

 

 

-e questo è tutto. C’è qualcosa che non ti è chiaro?-

Jude scosse la testa allungando la mano per afferrare la divisa –giacca e cappellino- gialla che l’uomo grassotto di fronte a lei le stava porgendo per poi indossarla frettolosamente.

-sicura?- chiese ancora

-certo- sistemò meglio il cappello sulla fronte in modo che non le tirasse i capelli.

Non c’era poi molto da capire. Doveva prendere le ordinazioni che i ragazzi preparavano dietro al bancone e portarle all’indirizzo che avrebbero scritto sulla busta. Anche l’ultimo degli idioti avrebbe capito.

-bene, allora ecco la tua prima consegna- prese una busta dal lungo bancone in acciaio e la piazzò tra le braccia della ragazza, che traballò per un istante sotto l’improvviso peso.

-ce la fai?- chiese l’uomo con espressione dubbiosa

-si, si, tutto a posto- si sforzò di sorridere lei afferrando il manico della busta di cartone con una mano.

-lì sopra c’è l’indirizzo, buona fortuna- borbottò tra i folti baffi castani per poi tornare dietro al suo bancone, per dedicarsi alle sue mansioni.

Jude sospirò uscendo dal piccolo negozio, accompagnata dal trillo del campanello appeso alla porta. Controllò l’indirizzo scarabocchiato in maniera più o meno comprensibile su un lato della busta, prima di avviarsi lungo la strada che conduceva a Central Park.

Quel lavoro era stata una vera e propria manna dal cielo. Quando, qualche settimana prima, aveva deciso di lasciare il lavoro al pub sotto casa dove la sfruttavano vergognosamente, aveva creduto di non riuscire a trovare un altro lavoro part-time che pagasse abbastanza bene per permetterle di mantenersi in quella città, ma grazie ad una soffiata di Lauren, che aveva un amico che lavorava lì, aveva saputo che il vecchio Frankie aveva bisogno di un’altra persona che facesse consegne nelle zone vicino al bar. Secondo Frankie era inutile sprecare soldi e benzina per trecento metri quando poteva sfruttare le gambe di qualche giovane con forze fresche, come Jude.

Quel lavoro sarebbe stato stancante, ma Frankie le aveva promesso un buon salario, e inoltre le consegne venivano richieste maggiormente negli uffici, per cui una volta chiusi questi, alle sei del pomeriggio, Jude poteva anche tornare a casa. In questo modo avrebbe avuto anche il tempo di studiare, invece di farlo di notte come le era capitato più volte.

Svoltò a sinistra e si avvicinò all’ingresso di uno dei tanti grattacieli che si imponevano in quella lunga strada per controllare il numero civico. Per fortuna non aveva sbagliato via.

Entrò nell’androne del grattacielo avviandosi verso l’ascensore, controllò che il piano fosse segnato sulla busta, accanto all’indirizzo, e attese pazientemente per qualche minuto che le porte in acciaio si aprissero di fronte a lei.

Trentacinquesimo piano.

Alzò gli occhi seguendo la luce che si illuminava segnando la sua salita, piano dopo piano, mentre batteva ritmicamente con un piede a terra.

Non ci vollero più di tre minuti per arrivare al suo piano e quando le porte di fronte a lei si aprirono, si ritrovò di fronte ad un enorme scrivania in mogano.

-Salve- salutò scorgendo dietro di essa una ragazza sulla trentina di bell’aspetto.

La ragazza, con la testa biondo platino china su alcuni fogli che teneva sotto il naso, borbottò uno svogliato “Salve” in risposta, senza alzare minimamente il volto.

Jude si avvicinò sperando di catturare la sua attenzione, ma la ragazza non si distrasse dalle sue faccende nemmeno per un secondo.

-sto cercando l’ufficio di…- alzò la busta all’altezza del volto per controllare il nome –Claire&Co-

-a sinistra- rispose distrattamente

-gentilissima- sibilò sarcastica Jude per poi avviarsi lungo il corridoio a sinistra della scrivania.

Trovare la stanza che le interessava, non fu difficile visto che era presente una sola grande porta di ferro alla fine del corridoio scarsamente illuminato. Man mano che si avvicinava sentiva un rumore assordante provenire dall’interno della stanza e la cosa la insospettì facendole credere di aver sbagliato. Frankie le aveva detto che le loro consegne riguardavano gli uffici, ma dal baccano che sentiva provenire da lì dentro, non credeva ci fossero persone intente a fare il proprio lavoro.

Che tipo di ufficio era, quello?

Abbassò la maniglia e si decise a dare una sbirciatina dentro, l’indirizzo era quello, non poteva aver sbagliato.

Quando la porta si aprì avanti a lei, Jude rimase impalata a fissare l’interno della stanza, chiedendosi se non fosse finita proprio in paradiso.

-oh mio Dio- sussurrò mentre con occhi avidi passava a rassegna ogni centimetro del corpo mezzo nudo del ragazzo che passò a mezzo metro da lei.

Quello non era un ufficio, almeno non come lo immaginava lei. L’immensa sala –sarà stato almeno mezzo piano di quell’enorme grattacielo- era stata allestita con teloni bianchi sul lato sinistro, mentre sul destro c’erano tanti stand stracolmi di vestiti e gente che correva avanti e indietro. Era finita su un set fotografico.

Quello che colpì Jude però non era di certo il fotografo che scattava come impazzito foto a raffica ad una ragazza dal lunghi capelli biondi e dal fisico slanciato e fin troppo magro, e nemmeno l’elevato numero di gente che correva avanti e indietro urlando o parlando ad un auricolare, no. Quello che colpì Jude e catturò completamente la sua attenzione, fu la fila di ragazzi in intimo che aspettavano pazienti vicino agli stand che qualcuno gli dicesse cosa indossare.

Jude non era una di quelle ragazze maliziose che rivolgevano sguardi ammalianti ad ogni essere che avesse un apparato respiratorio funzionante e due testicoli, di solito era Lauren quella che si perdeva in commenti poco velati, ma ora era impossibile per lei impedire alle sue ovaie di incendiarsi completamente, chiedendo pietà. Era impossibile restare impassibili di fronte a fisici tanto scolpiti che sembravano di pietra.

Doveva consegnare quella maledetta busta e scappare via di li, prima che qualcuno l’avesse sorpresa a sbavare indecorosamente.

Richiuse la porta alle sue spalle appiattendosi quanto più possibile vicino al muro, doveva trovare qualcuno che aveva l’aspetto di un responsabile, o qualcosa del genere, sicuramente doveva consegnare a lui quella busta.

Si voltò a destra, dove un paio di ragazze sedute su delle sedie di plastica erano intente a fissare la loro immagine all’enorme specchio di fronte a loro, mentre due ragazzi sulla trentina, dietro di loro, erano impegnati ad acconciare i lunghi capelli biondi in morbidi boccoli.

Distolse lo sguardo alla ricerca di quello che cercava, ma fu interrotta da un improvviso rumore alle sue spalle.

Sobbalzò voltandosi alla sua sinistra, dove la porta che lei stessa aveva varcato qualche istante prima, era stata nuovamente aperta, questa volta da un ragazzo. Un ragazzo decisamente bello.

-ANDY! Avevi detto quindici minuti, ne sono passati trenta!- sobbalzò nuovamente nel sentire qualcuno che si avvicinava sbraitando, e si appiattì ancora più vicino al muro, facendo un passo per allontanarsi dalla porta.

Jude studiò il ragazzo che si avvicinava a quello appena arrivato, sperando che lui non la notasse, non che fosse una cosa molto difficile per lei non farsi notare in mezzo a tutte quelle stangone perfette, effettivamente. Il ragazzo aveva la carnagione scura e i lineamenti molto più marcati rispetto all’altro. Le labbra carnose, le folte sopracciglia, quel leggero filo di barba e lo sguardo malizioso gli davano quell’aria da sex simbol a cui ogni uomo aspirava. I capelli scuri erano spettinati e gli occhi scuri nascondevano un velo di preoccupazione.

L’altro, quello a cui stava sbraitando contro, era completamente diverso. La pelle di porcellana era lattea e i lineamenti erano così delicati che rendevano il suo profilo perfetto, gli occhi a mandorla leggermente arrossati sembravano vuoti e poco interessati alle urla dell’amico.

-sei riuscito a tenerli occupati?- chiese, senza particolare interesse o preoccupazione nel tono della voce

Il moro fece per rispondere, ma un uomo con una maglietta slabbrata e un paio di jeans tanto aderenti da bloccargli la circolazione fece la sua comparsa, facendolo zittire. Dalla cartellina che teneva tra le mani Jude pensò che poteva essere l’uomo che cercava, ma non fece in tempo ad aprire la bocca che questo prese ad inveire contro il ragazzo.

-Andrew! Sei di nuovo in ritardo!-

Andrew -così si chiamava il ragazzo appena entrato- restò in silenzio, senza nemmeno provare a giustificare il suo ritardo o scusarsi. Quel silenzio parve stizzire ancora di più l’uomo.

-Vai immediatamente a cambiarti! E se fai anche solo cinque minuti di ritardo domani, sei licenziato!- urlò ancora, per poi girare sui tacchi e tornare sui suoi passi.

Il moro scosse la testa nella direzione di Andrew.

-ti conviene muovere le chiappe d’oro amico- gli suggerì prima di andarsene

Jude rimase immobile, mentre fissava il ragazzo stretto in una felpa verde muschio che si strofinava gli occhi con le dita, con aria stanca.

C’era qualcosa di strano in quel ragazzo, qualcosa che aveva colpito Jude nel momento stesso in cui era entrato. Non aveva quasi parlato, non aveva detto nulla di strano o particolare, eppure c’era qualcosa in lui, nel suo sguardo spento, qualcosa che…

Il ragazzo, evidentemente, si sentì osservato e di colpo alzò lo sguardo verso Jude, che venne scoperta in flagrante. La ragazza fece per distogliere lo sguardo, ma ormai era troppo tardi per far finta di niente.

-che diavolo hai da guardare tu?- sbottò il ragazzo, facendola sussultare

Jude avrebbe volentieri aperto un varco a testate tra le mattonelle e ci sarebbe sprofondata dentro. Scoperta mentre fissava un ragazzo, che cosa imbarazzante.

-niente- balbettò senza riuscire a distogliere lo sguardo, suo malgrado –cercavo qualcuno a cui consegnare questo- rispose flebilmente alzando la busta

-beh? Ti sembro qualcuno che si occupa di queste cose?- sbottò

Jude si accigliò chiedendosi perché quel ragazzo che nemmeno la conosceva aveva avuto quella reazione nei suoi confronti. Non sapeva come funzionava in quell’ambiente, ma dalle sue parti la prima cosa che le avevano insegnato era l’educazione. Cosa che evidentemente era completamente assente in quel ragazzo.

-non c’è bisognò di essere così scortesi- controbatté cercando di mantenere la calma –stavo solo…-

-non mi interessa cosa stavi facendo- la interruppe bruscamente lui –togliti dai piedi ora-

E la sorpassò sfiorando la sua spalla e lasciandola con un enorme punto interrogativo sulla faccia.

Che razza di maleducato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*                  *                  *

 

 

 

 

Ok, non sono del tutto convinta di quello che sto facendo e sono quasi sicura che me ne pentirò. In questo fandom ci sono decine di autrici bravissime e mi viene voglia di correre a nascondermi nel primo angolo più vicino.

Questo primo capitolo è una sorta di prova, se vi piacerà la continuerò, altrimenti eviterò di rendermi ridicola continuando a postarla.

Bene, detto questo sappiate che accetterò qualsiasi tipo di recensione, soprattutto critica! Quindi non trattenetemi dal dirmi cosa ne pensate.

A presto(spero).

 

 

   
 
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