La
prima
cosa che pensò Jude appena aprì gli occhi, fu che
sarebbe stato carino per una
volta essere svegliata dal trillo della sveglia che accuratamente
programmava
ogni sera, e non dalla voce di Lauren che dal bagno intonava una
melodia a lei sconosciuta,
ma alquanto acuta e stridula.
Con
uno
sbuffo cercò di coprirsi le orecchie come meglio poteva col
cuscino, ma la voce
di Lauren riusciva a oltrepassare qualsiasi ostacolo. Si mise a sedere
sul
letto, spegnendo la sveglia prima che suonasse –perché
diavolo continuava a metterla se sapeva che sarebbe stata
svegliata dalle urla di Lauren?- poi si dedicò
alla ricerca delle sue
pantofole, intenzionata ad andare dalla coinquilina per tapparle la
bocca in
qualche modo violento e poco gentile, ma proprio mentre stava
indossando le sue
pantofole rosa a forma di coniglio sentì Elle, dal
corridoio, precederla.
-LAUREN!
SONO STUFA DI SENTIRTI CANTARE OGNI MATTINA, CHIUDI IL BECCO!-
Lauren
non rispose, ma Jude la sentì improvvisamente smettere di
cantare e sorrise
soddisfatta mentre si alzava per recuperare i vestiti che aveva
accuratamente
preparato la sera prima su una sedia.
A
Jude
sembrava che fossero passati solo una decina di giorni da quando si era
trasferita in quella casa, a New York, da quando aveva conosciuto
Lauren ed
Elle, che poteva considerare le uniche persone con cui aveva un qualche
rapporto,
ed invece era passato più di un anno.
Alla
notizia che la Columbia University aveva accettato la sua domanda, Jude
si era
sentita eccitata e terrorizzata nello stesso momento. Nel piccolo
paesino del
North Carolina, dove aveva vissuto per diciotto anni, Jude non aveva
trovato
nessuno con cui potesse veramente parlare o confrontarsi, in una
cittadina di
provincia le persone hanno la mentalità ristretta e
più volte si era trovata a
sostenere gli occhi sbarrati di qualche suo compagno di classe quando
parlava
di un qualche argomento un po’ più maturo che
andasse al di là dei semplici
concetti che ti insegnano a scuola. Jude si sentiva terribilmente
diversa dalle
persone che la circondavano, forse per questo non aveva mai avuto una
migliore
amica, come tutte le ragazze della sua età avevano. Anche i
suoi rapporti con
l’altro sesso erano molto limitati e poco stimolanti, ma ora
stava per
trasferirsi a New York e tutto sarebbe cambiato, sapeva che da qualche
parte lì
in giro c’era la sua anima gemella, che
l’attendeva. Allo stesso tempo però era
anche terrorizzata all’idea, perché avrebbe dovuto
affrontare un cambiamento
così grande da sola, senza l’aiuto dei suoi
genitori, gli unici veri amici che
avesse mai avuto.
I
primi
tempi erano stati difficili, la casa che aveva fittato via internet era
mal
ridotta ed il fitto era così caro che a fine mese le
restavano a mal appena i
soldi per mangiare, le lezioni all’università
erano molto interessanti e
piacevoli, ma non si era ancora ambientata del tutto e, contrariamente
a quanto
si era aspettata, nessuno pareva interessato a parlare con lei, tutti
erano
impegnati a correre da una parte all’altra del campus, in
ritardo per qualche
lezione, come cavalli sbizzarriti e lei si sentiva del tutto spaesata.
Poi,
finalmente, era arrivata Lauren che con un sorriso a trentadue denti
l’aveva
invitata a sedere accanto a lei a lezione e parlando del più
e del meno le
aveva detto che lei e la sua amica erano in cerca di una nuova
coinquilina. Non
ci volle molto per convincere Jude a lasciare la casa mal messa e
triste dove
viveva, per andare con loro.
Dal
primo momento in cui l’aveva vista, Lauren le aveva trasmesso
un senso di
sicurezza e calore, era una di quelle persone forti e indipendenti, una
di
quelle che parevano ridere di fronte alle difficoltà della
vita, prendendo
tutto con innata leggerezza ed uscendone sempre illese. Jude sognava di
essere
un po’ come lei, ma il suo carattere ansioso e dedito
all’ordine mentale e
materiale glielo impediva.
Elle,
invece, era tutt’altra storia. La prima volta che
l’aveva vista -quando Lauren
l’aveva portata a casa per
farle vedere l’appartamento- Jude ebbe come
l’impressione che Elle volesse
sbatterle la porta in faccia. I capelli rossi erano legati in uno
chignon
disordinato e gli occhi verdi l’avevano squadrata
attentamente per qualche
istante prima di posarsi su Lauren che intanto volteggiava verso la
camera che
poi sarebbe stata sua.
-si
può
sapere perché continui a bussare se hai le chiavi? Non sono
il tuo portiere- aveva
sbottato puntandosi una mano su un fianco, mentre Jude si era sentita
completamente fuori luogo.
-oh,
non
riuscivo a trovarle nella borsa!- in realtà Jude non
l’aveva vista cercare le
chiavi di casa –non essere sgarbata Ells, saluta la nostra
nuova coinquilina!-
Gli
occhi verdi di Elle erano tornati a squadrare Jude in un modo che le
fece
colorare le guance di rosso per l’imbarazzo.
-beh,
almeno saremo in due a sopportare l’egocentrismo di Lauren-
aveva borbottato in
fine, prima di voltarle le spalle e tornare a chiudersi nella sua
stanza.
Le
parole di Elle si avverarono, e tutti i giorni le due si ritrovavano a
dover
sopportare il fastidioso cantare di Lauren sotto la doccia, il suo
incurabile
disordine, l’andirivieni di ragazzi che entravano la sera ed
andavano via la
mattina -preferibilmente prima di
colazione- e i mille altri difetti della ragazza, come quello
di essere perennemente
in ritardo.
-se
mi
fa fare tardi anche questa mattina, giuro che la uccido-
ringhiò Elle seduta al
piccolo tavolo rotondo della cucina insieme a Jude, lanciando uno
sguardo
furioso all’orologio che portava al polso.
-vedrai
che ora arriva- la rassicurò Jude, ansiosa, non le piaceva
arrivare in ritardo.
Elle
ringhiò ancora, in risposta, finendo in un sorso il suo
caffellatte.
La
pazienza non era uno dei pregi di Elle, per questo Jude spesso era
chiamata a
mettere pace tra le due e più volte si era chiesta come
avessero fatto a vivere
insieme senza scannarsi, prima che arrivasse lei.
-dopo
le
lezioni mi aspetti? potremmo andare insieme a lavoro- chiese Jude,
tentando di
distogliere l’amica dall’accurata preparazione
mentale del piano perfetto per uccidere
Lauren.
Elle
si
limitò ad annuire, mentre si alzava per riporre la tazza
ormai vuota nel
lavabo.
-E’
vicino la biblioteca, no?- chiese frettolosa mentre infilava il
giubbotto nero,
per lanciare poi uno sguardo spazientito verso il corridoio.
-si-
Jude
sperava che Lauren si muovesse prima che Elle decidesse di andare prenderla personalmente,
probabilmente
trascinandola a forza fino alla porta –proprio di fronte-
Elle
lavorava da una vita ormai in biblioteca, il salario non era alto ma la
ragazza
era entusiasta di poter essere circondata da libri, da sempre preferiti
alle
persone. Senza contare che Elle, a differenza di Lauren e Jude, non
aveva
bisogno di lavorare per mantenersi agli studi visto che proveniva da
una
famiglia piuttosto ricca, ma la ragazza, spinta da uno spirito di
autosufficienza, non prendeva più del dovuto dai genitori,
lavorando e sudando
qualsiasi cosa volesse che andasse al di là delle spese
universitarie. Era una
che non approfittava del suo status sociale, come dimostrava il fatto
che
vivesse in una casa con due coinquiline fastidiose, nonostante fosse
bastato
uno squillo al padre per ottenere un attico con vista su central park.
-eccomi
qui!- la voce squillante di Lauren fece capolino in cucina facendo
rilassare
visibilmente Jude, che si alzò di scatto per afferrare la
sua borsa.
Finalmente
riuscirono ad uscire di casa, stranamente in orario.
-Hei
Jud, non hai il tuo primo giorno di lavoro oggi?- chiese Lauren mentre
si
avviavano a passo svelto per la strada
-si,
ma
sono già nervosa, non me lo ricordare!- rispose stringendosi
di più al collo la
sua sciarpa rossa
-la
nuova ragazza delle consegne di Frankie’s!- trillò
allegra Lauren in risposta
–oh, sarai fantastica con l’uniforme gialla-
Jude
la
ignorò avanzando il passo, ma a quanto pare quella mattina
Lauren aveva più
voglia che mai di infastidire le sue coinquiline.
-hei,
cos’hai stamattina, brontolo?- si avvicinò
pericolosamente a Elle
picchiettandole una spalla –sei più imbronciata
del solito-
Jude
sospiro. Certo, Elle aveva il suo caratteraccio, ma non si poteva dire
che
Lauren facesse di tutto per evitare la collera della rossa.
-forse
brontolo- saltò
immediatamente Elle
indicandosi –non sarebbe così imbronciata se sua
altezza la regina delle oche
non avesse perso tutto quel tempo a rimirarsi allo specchio facendole
fare
tardi-
Lauren
si
ritrasse come scottata e Jude alzò gli occhi al cielo,
pronta ad assistere ad
un altro dei loro soliti battibecchi.
-ma
se
siamo in perfetto orario!- sbottò la mora
-siamo
cinque minuti in ritardo-
Elle,
precisa come sempre.
-in
ritardo per cosa? Sono le otto e quaranta e le lezioni non cominciano
prima
delle nove!-
-sai
che
mi piace arrivare in anticipo! E poi tu…-
Jude
premette il tasto play sul suo iPod e la voce di Paul McCartney
sostituì quella
ben più fastidiosa delle due ragazze a qualche metro da lei
che discutevano
inutilmente.
Conoscendo
le due quel battibecco sarebbe durato finché non fossero
arrivate a scuola e,
fortunatamente, sarebbero state costrette a separarsi, quindi, meglio
impiegare
il tempo fino ad allora in modo piacevole.
Amava
i
Beatles da quando era bambina, all’inizio li ascoltava solo
perché suo padre,
di origini inglesi, ne andava matto –non
a caso aveva tanto insistito per chiamarla Jude- ma poi col
tempo si era
resa conto che le piacevano davvero quelle canzoni che parlavano
d’amore, di
sogni, di speranze per un mondo migliore.
Ricordava
che ogni sera suo padre intonava le note di Hey Jude, poi le baciava
una
guancia augurandole la buonanotte e sussurrandole la stessa frase ogni
sera: “Sarò sempre qui
per te principessa, fin
quando non crescerai e troverai il tuo principe che ti
proteggerà e ti amerà
come faccio io”.
Ora
suo
padre era lontano e lei era cresciuta, ma quel principe di cui tanto le
aveva
parlato non era ancora arrivato.
Eppure
Jude sentiva che era vicino, che nascosto tra quei ragazzi arroganti,
rudi e
senza più un minimo di romanticismo, c’era anche
il suo principe.
Andrew
tese l’orecchio verso la porta nell’intento di
cogliere le parole del fratello
nell’altra stanza.
-Si
mamma, qui va tutto bene ti ho detto- il tono era accondiscendente, ma
impaziente –perché non provi a parlargli?-
I
muscoli delle spalle di Andrew si tesero automaticamente nel sentire
quelle
parole.
-E’
di
la, vuoi che te lo passi?-
Con
un
gesto riflesso strinse la mano attorno alla chiave infilata nella
serratura,
pronto a barricarsi dentro nel caso suo fratello avesse avuto
l’intenzione di
farlo parlare a telefono.
-no,
certo, lo chiamerai tu quando avrai tempo- lo sentì
sospirare e si rilassò un
po’
Quando
avrai tempo.
Quando mai sua madre aveva avuto tempo per lui?
Sentì
dei passi avvicinarsi alla porta e poco dopo qualcuno bussare. Si
passò una
mano sul viso stanco e poi tra i capelli, prima di aprire la porta,
trovando il
fratello in giacca e cravatta già pronto per uscire per la
sua tipica,
monotona, giornata.
-io
vado
a lavoro- lo avvertì
-bene-
rispose semplicemente lui alzando un sopracciglio con aria
strafottente, come a
voler sottolineare che la cosa non lo interessava minimamente.
Il
fratello sospirò, prima di ricominciare a parlare
–intendi fare qualcosa di
costruttivo della tua vita, oggi?-
Andrew
strinse i pugni affondando le unghie nel palmo delle mani –lo
faccio tutti i
giorni, in realtà- rispose tra i denti.
-e
quello
che fai lo chiami costruttivo?- chiese scettico
Ecco,
una delle loro conversazioni standard. Di solito però queste
avvenivano la sera,
quando suo fratello tornava stanco da lavoro e non riusciva a fingere
di sopportarlo,
allora inveiva contro di lui ricordandogli in tutti i modi possibili
che era la
pecora nera della famiglia, quella che aveva portato il seme della
discordia.
Era strano che il fratello non lo sopportasse già da prima
mattina, sicuramente
una buona parte di quella reazione era dovuta alla telefonata della
madre.
-perché
non mi butti fuori di casa se non sei d’accordo con quello
che faccio?- lo
sfidò alzando il mento
-perché
sei mio fratello, diamine! E voglio solo aiutarti a capire chi sei
veramente-
Oh,
ecco
che veniva fuori il suo lato da psicologo fallito, quello che voleva
capire ed
aiutare il mondo.
-Posso
dirti quello che non sono Ben-
ringhiò –non sono come te, non sono come mamma e
papà e non studierò mai
medicina e non diventerò mai un chirurgo-
Ben
annuì indietreggiando di qualche passo –io non
sono come loro, non voglio
costringerti ad essere qualcosa che tu non vuoi, voglio solo aiutarti
ad essere
qualcuno, ma tu sei troppo perso per
capirlo- voltò le spalle e se ne andò sbattendo
la porta dietro di se.
Andrew
si prese il viso tra le mani facendo pressione coi polpastrelli sulla
sua
pelle. Aveva voglia di prendersi a schiaffi, di graffiarsi, urlare, ma
non
poteva farlo, il suo viso era tutto quello che aveva, venderlo era
l’unico modo
per sopravvivere in quella giungla di cemento.
Aveva
fatto bene a trasferirsi da suo fratello in un altro continente? Era la
domanda
che si faceva più o meno tutte le sere prima di andare a
dormire, la domanda
che era rimasta in sospeso da tre anni ormai.
Qual’era
l’alternativa, d'altronde? Rimanere in Inghilterra e seguire
la volontà dei
suoi genitori di diventare un chirurgo come loro? Non riusciva nemmeno
ad
immaginarlo.
I
suoi
genitori avevano messo al mondo i due fratelli con l’intento
di creare due
cloni di loro stessi. Fin da piccoli quando agli altri bambini del
vicinato
ricevevano per Natale delle bici nuove con cui facevano gare per la
strada, Andrew
e Benjamin ricevevano regali come “il
piccolo chirurgo” o interessantissimi libri sul
corpo umano ed ai due non
restava che guardare fuori dalla finestra con aria sognante i bambini
che
sfrecciavano felici sulle loro biciclette fiammanti.
Ben,
di
tre anni più grande di Andrew e dal carattere più
mansueto e sottomesso, aveva
accettato la volontà del genitori quando frequentava le
scuole superiori, Andrew
poteva persino ricordare il momento esatto della sottomissione totale.
Era
un
giorno di metà ottobre e Ben portò a casa il suo
primo compito di chimica,
sulla quale una A+ era cerchiata di rosso; Andrew guardò
attentamente la madre
mentre prendeva il foglio tra le mani e successivamente rivolgeva uno
sguardo
di pura soddisfazione verso il figlio più grande. In quel
momento una scintilla
passò negli occhi di Ben e Andrew capì che da
quel momento in poi il fratello
avrebbe fatto di tutto per ottenere il maggior numero di quegli sguardi
e
l’unico modo, ovviamente, era seguire la volontà
dei suoi genitori.
Dopo
la
sottomissione del primo figlio, ai suoi genitori pareva scontato che
anche il
secondo avrebbe obbedito al loro volere, ma non avevano fatto i conti
col
carattere e la testardaggine di quest’ultimo.
Il
fastidioso vibrare del suo cellulare lo distrasse dal pericoloso fluire
dei
suoi pensieri.
-chi
è?-
rispose senza nemmeno guardare il numero sul display
-il
tuo
angelo custode- ridacchiò una voce maschile
dall’altro lato –vuole ricordarti
che sei in ritardo, di nuovo. E che se non varcherai la soglia
dell’ufficio tra
cinque minuti ti licenzieranno, di nuovo-
Andrew
gettò uno sguardo veloce alla sveglia sul comodino per poi
imprecare a
mezz’aria.
-arrivo,
intrattienili per quindici minuti e sono lì-
soffiò mentre raccoglieva dei
vestiti dalla sedia
-sbrigati-
rispose semplicemente il ragazzo dall’altro lato, per poi
riagganciare.
Andrew
si avviò verso il bagno mentre cercava di ricordare
mentalmente tutti gli
impegni della giornata. Avrebbe dovuto trascorrere tutta la giornata a
lavoro e
se, per puro miracolo, avesse finito prima delle otto, sarebbe dovuto
passare
per il market a fare la spesa, cosa che Ben era del tutto incapace di
fare.
Arrivato
in bagno si guardò allo specchio, passandosi una mano tra i
capelli. Non aveva
un bell’aspetto. Gli occhi erano contornati da pesanti
occhiaie violacee e il
volto era stanco e pallido, evidentemente penalizzato dalle pochissime
ore di
sonno che accumulava a notte.
Da
quando era arrivato lì non c’era una sera in cui
riuscisse a dormire sereno,
non una sera in cui i suoi fantasmi non fossero andati a trovarlo e lui
tremava
ogni sera, stringendosi, attendendo il loro arrivo. Quei fantasmi gli
sussurravano cose che lui non voleva sentire, gli sussurravano quello
che
infondo anche lui sapeva.
Che
era
un fallito.
Ma
lui
aveva trovato una soluzione, un sistema che gli permettesse di
scacciare quel
fantasmi malvagi, almeno di giorno.
Aprì
il
mobiletto di vetro di fronte a se e dopo aver scostato vari barattolini
di
medicinali afferrò una scatola bianca che giaceva sul fondo
dello scomparto. La
scritta sulla scatola diceva “aspirina”,
ma quello che Andrew estrasse dal suo interno, di certo non lo era.
Aveva
deciso di nasconderla lì perché suo fratello era
allergico alla aspirina e
sapeva che non gli sarebbe mai venuto in mente di prendere quella
scatola,
nemmeno per sbaglio.
Prese
la
bustina di plastica trasparente dalla scatola e versò un
po’ del suo contenuto
sulla superficie piatta della mensola accanto al lavandino per poi
estrarre un
piccolo pezzo di vetro, sottilissimo, cominciando a sminuzzare
attentamente la
polverina bianca di fronte a se.
Solo
una volta
-si
riprometteva tutti i giorni- domani
sarò
più forte e riuscirò a farcela senza questa roba.
Ma
ogni
giorno, inevitabilmente, si ritrovava nella stessa situazione, nella
sua stessa
trappola, senza nemmeno accorgersene.
-e
questo è tutto. C’è qualcosa che non ti
è chiaro?-
Jude
scosse la testa allungando la mano per afferrare la divisa –giacca e cappellino- gialla che
l’uomo
grassotto di fronte a lei le stava porgendo per poi indossarla
frettolosamente.
-sicura?-
chiese ancora
-certo-
sistemò
meglio il cappello sulla fronte in modo che non le tirasse i capelli.
Non
c’era poi molto da capire. Doveva prendere le ordinazioni che
i ragazzi
preparavano dietro al bancone e portarle all’indirizzo che
avrebbero scritto
sulla busta. Anche l’ultimo degli idioti avrebbe capito.
-bene,
allora ecco la tua prima consegna- prese una busta dal lungo bancone in
acciaio
e la piazzò tra le braccia della ragazza, che
traballò per un istante sotto
l’improvviso peso.
-ce
la
fai?- chiese l’uomo con espressione dubbiosa
-si,
si,
tutto a posto- si sforzò di sorridere lei afferrando il
manico della busta di
cartone con una mano.
-lì
sopra c’è l’indirizzo, buona fortuna-
borbottò tra i folti baffi castani per
poi tornare dietro al suo bancone, per dedicarsi alle sue mansioni.
Jude
sospirò uscendo dal piccolo negozio, accompagnata dal trillo
del campanello
appeso alla porta. Controllò l’indirizzo
scarabocchiato in maniera più o meno
comprensibile su un lato della busta, prima di avviarsi lungo la strada
che
conduceva a Central Park.
Quel
lavoro era stata una vera e propria manna dal cielo. Quando, qualche
settimana
prima, aveva deciso di lasciare il lavoro al pub sotto casa dove la
sfruttavano
vergognosamente, aveva creduto di non riuscire a trovare un altro
lavoro
part-time che pagasse abbastanza bene per permetterle di mantenersi in
quella
città, ma grazie ad una soffiata di Lauren, che aveva un
amico che lavorava lì,
aveva saputo che il vecchio Frankie aveva bisogno di un’altra
persona che
facesse consegne nelle zone vicino al bar. Secondo Frankie era inutile
sprecare
soldi e benzina per trecento metri quando poteva sfruttare le gambe di
qualche
giovane con forze fresche, come Jude.
Quel
lavoro sarebbe stato stancante, ma Frankie le aveva promesso un buon
salario, e
inoltre le consegne venivano richieste maggiormente negli uffici, per
cui una
volta chiusi questi, alle sei del pomeriggio, Jude poteva anche tornare
a casa.
In questo modo avrebbe avuto anche il tempo di studiare, invece di
farlo di
notte come le era capitato più volte.
Svoltò
a
sinistra e si avvicinò all’ingresso di uno dei
tanti grattacieli che si
imponevano in quella lunga strada per controllare il numero civico. Per
fortuna
non aveva sbagliato via.
Entrò
nell’androne del grattacielo avviandosi verso
l’ascensore, controllò che il
piano fosse segnato sulla busta, accanto all’indirizzo, e
attese pazientemente
per qualche minuto che le porte in acciaio si aprissero di fronte a lei.
Trentacinquesimo
piano.
Alzò
gli
occhi seguendo la luce che si illuminava segnando la sua salita, piano
dopo
piano, mentre batteva ritmicamente con un piede a terra.
Non
ci
vollero più di tre minuti per arrivare al suo piano e quando
le porte di fronte
a lei si aprirono, si ritrovò di fronte ad un enorme
scrivania in mogano.
-Salve-
salutò scorgendo dietro di essa una ragazza sulla trentina
di bell’aspetto.
La
ragazza, con la testa biondo platino china su alcuni fogli che teneva
sotto il
naso, borbottò uno svogliato “Salve”
in risposta, senza alzare minimamente il volto.
Jude
si
avvicinò sperando di catturare la sua attenzione, ma la
ragazza non si
distrasse dalle sue faccende nemmeno per un secondo.
-sto
cercando l’ufficio di…- alzò la busta
all’altezza del volto per controllare il
nome –Claire&Co-
-a
sinistra- rispose distrattamente
-gentilissima-
sibilò sarcastica Jude per poi avviarsi lungo il corridoio a
sinistra della
scrivania.
Trovare
la stanza che le interessava, non fu difficile visto che era presente
una sola
grande porta di ferro alla fine del corridoio scarsamente illuminato.
Man mano
che si avvicinava sentiva un rumore assordante provenire
dall’interno della
stanza e la cosa la insospettì facendole credere di aver
sbagliato. Frankie le
aveva detto che le loro consegne riguardavano gli uffici, ma dal
baccano che
sentiva provenire da lì dentro, non credeva ci fossero
persone intente a fare
il proprio lavoro.
Che
tipo
di ufficio era, quello?
Abbassò
la maniglia e si decise a dare una sbirciatina dentro,
l’indirizzo era quello,
non poteva aver sbagliato.
Quando
la porta si aprì avanti a lei, Jude rimase impalata a
fissare l’interno della
stanza, chiedendosi se non fosse finita proprio in paradiso.
-oh
mio
Dio- sussurrò mentre con occhi avidi passava a rassegna ogni
centimetro del
corpo mezzo nudo del ragazzo che passò a mezzo metro da lei.
Quello
non era un ufficio, almeno non come lo immaginava lei.
L’immensa sala –sarà
stato almeno mezzo piano di
quell’enorme grattacielo- era stata allestita con
teloni bianchi sul lato
sinistro, mentre sul destro c’erano tanti stand stracolmi di
vestiti e gente
che correva avanti e indietro. Era finita su un set fotografico.
Quello
che colpì Jude però non era di certo il fotografo
che scattava come impazzito
foto a raffica ad una ragazza dal lunghi capelli biondi e dal fisico
slanciato
e fin troppo magro, e nemmeno l’elevato numero di gente che
correva avanti e
indietro urlando o parlando ad un auricolare, no. Quello che
colpì Jude e
catturò completamente la sua attenzione, fu la fila di
ragazzi in intimo che
aspettavano pazienti vicino agli stand che qualcuno gli dicesse cosa
indossare.
Jude
non
era una di quelle ragazze maliziose che rivolgevano sguardi ammalianti
ad ogni
essere che avesse un apparato respiratorio funzionante e due testicoli,
di
solito era Lauren quella che si perdeva in commenti poco velati, ma ora
era
impossibile per lei impedire alle sue ovaie di incendiarsi
completamente,
chiedendo pietà. Era impossibile restare impassibili di
fronte a fisici tanto
scolpiti che sembravano di pietra.
Doveva
consegnare quella maledetta busta e scappare via di li, prima che
qualcuno
l’avesse sorpresa a sbavare indecorosamente.
Richiuse
la porta alle sue spalle appiattendosi quanto più possibile
vicino al muro,
doveva trovare qualcuno che aveva l’aspetto di un
responsabile, o qualcosa del
genere, sicuramente doveva consegnare a lui quella busta.
Si
voltò
a destra, dove un paio di ragazze sedute su delle sedie di plastica
erano
intente a fissare la loro immagine all’enorme specchio di
fronte a loro, mentre
due ragazzi sulla trentina, dietro di loro, erano impegnati ad
acconciare i
lunghi capelli biondi in morbidi boccoli.
Distolse
lo sguardo alla ricerca di quello che cercava, ma fu interrotta da un
improvviso rumore alle sue spalle.
Sobbalzò
voltandosi alla sua sinistra, dove la porta che lei stessa aveva
varcato
qualche istante prima, era stata nuovamente aperta, questa volta da un
ragazzo.
Un ragazzo decisamente bello.
-ANDY!
Avevi detto quindici minuti, ne sono passati trenta!-
sobbalzò nuovamente nel
sentire qualcuno che si avvicinava sbraitando, e si appiattì
ancora più vicino
al muro, facendo un passo per allontanarsi dalla porta.
Jude
studiò il ragazzo che si avvicinava a quello appena
arrivato, sperando che lui
non la notasse, non che fosse una cosa molto difficile per lei non
farsi notare
in mezzo a tutte quelle stangone perfette, effettivamente. Il ragazzo
aveva la
carnagione scura e i lineamenti molto più marcati rispetto
all’altro. Le labbra
carnose, le folte sopracciglia, quel leggero filo di barba e lo sguardo
malizioso gli davano quell’aria da sex simbol a cui ogni uomo
aspirava. I
capelli scuri erano spettinati e gli occhi scuri nascondevano un velo
di
preoccupazione.
L’altro,
quello a cui stava sbraitando contro, era completamente diverso. La
pelle di
porcellana era lattea e i lineamenti erano così delicati che
rendevano il suo
profilo perfetto, gli occhi a mandorla leggermente arrossati sembravano
vuoti e
poco interessati alle urla dell’amico.
-sei
riuscito a tenerli occupati?- chiese, senza particolare interesse o
preoccupazione nel tono della voce
Il
moro
fece per rispondere, ma un uomo con una maglietta slabbrata e un paio
di jeans
tanto aderenti da bloccargli la circolazione fece la sua comparsa,
facendolo
zittire. Dalla cartellina che teneva tra le mani Jude pensò
che poteva essere
l’uomo che cercava, ma non fece in tempo ad aprire la bocca
che questo prese ad
inveire contro il ragazzo.
-Andrew!
Sei di nuovo in ritardo!-
Andrew
-così si chiamava il ragazzo appena
entrato-
restò in silenzio, senza nemmeno provare a giustificare il
suo ritardo o
scusarsi. Quel silenzio parve stizzire ancora di più
l’uomo.
-Vai
immediatamente a cambiarti! E se fai anche solo cinque minuti di
ritardo
domani, sei licenziato!- urlò ancora, per poi girare sui
tacchi e tornare sui
suoi passi.
Il
moro
scosse la testa nella direzione di Andrew.
-ti
conviene muovere le chiappe d’oro amico- gli
suggerì prima di andarsene
Jude
rimase immobile, mentre fissava il ragazzo stretto in una felpa verde
muschio
che si strofinava gli occhi con le dita, con aria stanca.
C’era
qualcosa di strano in quel ragazzo, qualcosa che aveva colpito Jude nel
momento
stesso in cui era entrato. Non aveva quasi parlato, non aveva detto
nulla di
strano o particolare, eppure c’era qualcosa in lui, nel suo
sguardo spento,
qualcosa che…
Il
ragazzo, evidentemente, si sentì osservato e di colpo
alzò lo sguardo verso
Jude, che venne scoperta in flagrante. La ragazza fece per distogliere
lo
sguardo, ma ormai era troppo tardi per far finta di niente.
-che
diavolo hai da guardare tu?- sbottò il ragazzo, facendola
sussultare
Jude
avrebbe volentieri aperto un varco a testate tra le mattonelle e ci
sarebbe sprofondata
dentro. Scoperta mentre fissava un ragazzo, che cosa imbarazzante.
-niente-
balbettò senza riuscire a distogliere lo sguardo, suo
malgrado –cercavo
qualcuno a cui consegnare questo- rispose flebilmente alzando la busta
-beh?
Ti
sembro qualcuno che si occupa di queste cose?- sbottò
Jude
si
accigliò chiedendosi perché quel ragazzo che
nemmeno la conosceva aveva avuto
quella reazione nei suoi confronti. Non sapeva come funzionava in
quell’ambiente, ma dalle sue parti la prima cosa che le
avevano insegnato era
l’educazione. Cosa che evidentemente era completamente
assente in quel ragazzo.
-non
c’è
bisognò di essere così scortesi-
controbatté cercando di mantenere la calma
–stavo solo…-
-non
mi
interessa cosa stavi facendo- la interruppe bruscamente lui
–togliti dai piedi
ora-
E
la
sorpassò sfiorando la sua spalla e lasciandola con un enorme
punto
interrogativo sulla faccia.
Che
razza di maleducato.
* *
*
Ok,
non
sono del tutto convinta di quello che sto facendo e sono quasi sicura
che me ne
pentirò. In questo fandom ci sono decine di autrici
bravissime e mi viene
voglia di correre a nascondermi nel primo angolo più vicino.
Questo
primo capitolo è una sorta di prova, se vi
piacerà la continuerò, altrimenti
eviterò di rendermi ridicola continuando a postarla.
Bene,
detto questo sappiate che accetterò qualsiasi tipo di
recensione, soprattutto
critica! Quindi non trattenetemi dal dirmi cosa ne pensate.
A
presto(spero).