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Autore: Nike93    05/04/2012    1 recensioni
In quel momento seppi che mi sarei arreso per sempre alla sua volontà, che l’avrei fatto entrare perché lui mi conducesse in Paradiso. Volevo che quell’amore mi accecasse, mi togliesse le forze, mi piegasse in ginocchio, perché solo così avrei saputo che era autentico, che ero vivo.
Era Maxim, ed era mio ed io ero suo.
Non chiedevo altro. Solo di annegare dolcemente, piano piano, in questa certezza.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            Per Fiammetta


Dans un sommeil que charmait ton image
Je rêvais le bonheur, ardent mirage,
Tes yeux étaient plus doux, ta voix pure et sonore,
Tu rayonnais comme un ciel éclairé par l'aurore;

Tu m'appelais et je quittais la terre
Pour m'enfuir avec toi vers la lumière,
Les cieux pour nous entrouvraient leurs nues,
Splendeurs inconnues, lueurs divines entrevues,

Hélas! Hélas! triste réveil des songes
Je t'appelle, ô nuit, rends moi tes mensonges,

Reviens, reviens radieuse,
Reviens ô nuit mystérieuse!
(Gabriel Faurè, « Apres un reve »)



Non so se possa davvero essere degna di venir chiamata “amore”  una forza distruttiva che, invece di portarti ad una vita giusta e serena, travolge tutto quello che hai costruito e lo rade al suolo in un batter d’occhio. Così, senza che tu possa impedirglielo. Senza volerlo impedire.
Amore dovrebbe essere ciò che ti aiuta a mettere in piedi qualcosa di buono, a migliorarti. E’ un concetto molto strano, non tutti saprebbero spiegarlo, soprattutto non nel modo corretto. So di essere l’ultima persona adatta a dare un significato giusto a questa parola, ma so anche di averne saggiato la dolcezza struggente e di essere caduto sotto i suoi dolorosissimi colpi.
E’ un dolore così dolce che, a un tratto, ti accorgi di non poter più farne a meno: e allora smetti di preoccuparti di tutto il resto, della dignità, della razionalità, della tua stessa vita. Io ho lasciato che la forza di un amore sovrumano distruggesse tutte queste cose, e non mi sento ancora in grado di dire che me ne sia pentito. No, non credo ci riuscirò mai. Ora che sento la vita respirare sempre più piano, seguendo il moto leggero dei ricordi più belli, capisco di non essere mai stato così vivo come allora.

L’ho incontrato che ero giovane, l’amore.
Un amore bellissimo, di una bellezza tale che, ancora oggi, mi chiedo se non l’avessi inventata. Il fatto è che, quando lo vidi per la prima volta, tutto il mondo sparì, o, meglio, si trasformò in una miriade di strade convergenti che mi avrebbero portato solo a lui.
Si chiamava Maxim, e sono passati tanti anni dall’ultima volta che l’ho visto, ma ancora di più da quando lo incontrai la prima volta, ad uno di quei ricevimenti che mi annoiavano tanto.
Com’è ironico pensare alla spensieratezza con cui ci conoscemmo, alla leggerezza delle prime settimane trascorse insieme,  alla paura di dare un nome ad un sentimento strano che ci legava in modo tanto forte da scombussolarci! Quello che so per certo è che, quando i nostri sguardi si incontrarono, nessuno dei due stava cercando il grande amore. Nessuno dei due stava cercando niente, ma ci trovammo. E fu un istante lunghissimo.
Fin troppo breve fu, invece, il tempo che passammo insieme. Ma sarò sincero: molti erano gli ostacoli che ci vincolavano dal ricamare progetti per qualcosa che potesse chiamarsi “relazione”. Come il rigido controllo impostomi da mio padre, che si sentiva fallito nel veder crescere il proprio figlio così sconsiderato, così propenso alla tentazione.  O la consapevolezza del non poter avere un futuro insieme: Maxim sarebbe tornato a Parigi dopo due mesi di soggiorno a Londra, e anche se non fosse stato così, cosa avrebbero potuto fare due ragazzi?
O forse fu semplicemente che nessuno dei due, in quei due mesi, ebbe mai il coraggio di pronunciare le parole che magari avrebbero cambiato il corso della nostra storia.
“Ti amo.”
“Resta.”
“Resterò.”
Non osavo neanche sognarle, quelle parole.
Non so come sarebbero andate le cose se non ci fossimo più incontrati. Davvero, non lo so. Forse avrei condotto una vita mediocre e solitaria, o forse le settimane, i mesi, gli anni avrebbero fatto sbiadire quei ricordi fino a che non ne fossi stato finalmente libero, non più capace di rimpiangere i tempi perduti.
Sposai Fanny perché mi sembrò come la luce del sole in fondo a un tunnel, perché sentivo che avrebbe accorciato i tempi di quella dolorosa convalescenza con il suo solo sorriso. Fanny… Con la sua dolcezza, la sua serenità, la sua innocenza. Avevo bisogno che un’anima pura riconducesse la mia sul giusto cammino, allontanandomi dalla perdizione.
Fanny non meritava niente di tutto quello che successe dopo. Forse era troppo pura, troppo innocente per capire, per intuire. Chi lo sa? Magari avrei avuto bisogno di qualcuno che prima sospettasse, poi capisse e mi estirpasse via quel piccolo frammento di vita corrotta… Talmente piccolo che ora mi sembra persino sciocco ricordarlo: dopotutto si trattò di qualche settimana, niente che si sarebbe potuto pensare come inizio di una serie di eventi fuori dalla portata della ragione.
Fanny fu l’inizio di una vita di speranza e di molti silenzi. Non le avrei mai raccontato di aver sognato la mia vita accanto a un uomo, e avevo paura che per quella scheggia che ancora mi feriva potessi cominciare a sanguinare, rivelandole quel punto debole. Se si fosse macchiata anche lei di quel sangue infetto non me lo sarei mai perdonato. Eppure sembrava un pericolo così remoto!
Cominciai a credere di aver trovato davvero la via per la guarigione quando nacque Cal, il nostro primo, bellissimo figlio. A poco a poco mi rendevo conto di cosa significasse veramente vivere per qualcun altro, e arrivai a pensare di non aver vissuto un vero grande amore, con il mio bel Maxim.
O forse non lo pensai affatto, rapito da quel nuovo amore.
Mi sembrava di non essere in grado di ragionare lucidamente, preso com’ero da quel visino tondo che mi guardava con i miei stessi occhi. Era un dolcissimo anestetico, qualcosa che non sapevo avrei provato nuovamente non molto tempo dopo, ma in forma diversa, e per un altro tipo di emozione.
Era una felicità inaspettata, immeritata: lo avrei capito in seguito.
Se solo avessi immaginato, avrei goduto di quella gioia in modo più consapevole, con la fermezza di chi sa di avere un’eternità a disposizione, e non come chi ha paura, inconsapevolmente, che il fragilissimo castello di vetro appena costruito crolli in un attimo.
Fanny mi aveva insegnato l’amore costruito sulla fiducia, sulla speranza di una vita migliore, Cal m’insegnò l’amore disinteressato e pacato per qualcuno che desideri sentir dire, un giorno, “Io sono parte di te, e tu lo sei di me.” Era una sensazione calda, rassicurante, mai immaginata. Semplicemente, c’era questo esserino dal volto tondo e rosato che mi seguiva ovunque e mi guardava con due occhioni adoranti: era un miracolo.
Ma i miracoli sono per chi sa accoglierli e imparare qualcosa.


Io non lo so come sia potuto succedere tutto. Davvero, non lo so.
Ho rincontrato Maxim quando ero ormai prossimo a festeggiare l’ottavo anno di matrimonio. Non avrebbe molto senso costruirvi sopra ricami troppo elaborati, o perdersi in spiegazioni stentate: spiegazioni non ce n’erano, non ce ne sono tuttora.
Successe.
Avrebbe potuto succedere trent’anni dopo, o anche prima che mi sposassi. Successe quando io avevo trentadue anni e Cal ne aveva compiuti da poco cinque.
Sembra ironico, vero? Al tempo, non lo fu per niente. Io ero in compagnia di mia moglie e lui di un’altra donna, quando i nostri sguardi si riincrociarono come avevano fatto undici anni prima, ma in modo del tutto diverso. Eravamo sempre noi, eravamo sempre a Londra – non ad un ricevimento, ma a Trafalgar Square, dove Fanny ed io andavamo spesso a passeggiare -, e di nuovo non avremmo mai creduto di poterci trovare, ma questa volta non furono sguardi stupiti e bocche socchiuse in un sospiro spezzato. Fu un battito saltato e un’ombra di panico nei miei occhi, e un lampo appena visibile nei suoi.
Ricordo particolari insignificanti di quel giorno. Il vestito bianco ornato di nastri di velluto blu che indossava la donna che camminava al fianco di Maxim, tenendosi elegantemente al suo braccio. I piccioni che volavano in circolo, quasi sfiorando i tetti dei palazzi. Lo sferragliare distratto delle carrozze…
E’ evidente che fossimo già perversamente attirati dalla tentazione di farci del male, perché, così come sarebbe stato possibile tirare dritto fingendo di non esserci visti, fu, per noi, altrettanto possibile cercarci a vicenda.
E’ inutile, lo spirito avverte la mancanza di qualcosa e, quando ciò accade, corre a cercarlo, vi si aggrappa con tutte le unghie, superando la barriera delle intenzioni e dei buoni propositi. Che fosse per sputarci addosso il rancore accumulato o per riprendere da dove avevamo lasciato, dovevamo rivederci, perché, semplicemente, la nostra storia – qualunque essa sarebbe stata – non si era conclusa.
Al nostro primo incontro da soli, riuscimmo solo a dirci quanto di peggiore serbassimo nell’animo, ad aggredirci con parole che sarebbero state dimenticate, ma cosa importava? Sentivamo questo assurdo bisogno di graffiarci e morderci verbalmente, come ad imprimerci addosso un segno, una ferita bruciante. Ma tornammo a cercarci. Come drogati che cercano sostanze stupefacenti, sapendo dove questo li porterà ma riempiendosene le vene pur di dimenticarlo per qualche ora, noi continuammo a inseguirci al riparo dagli occhi della mia famiglia e della sua fidanzata, cercando ogni volta di ferirci più dolorosamente. Non ricordo che poche parole di tutto quel veleno.
“Tu… conservi ancora qualcosa di quello che eri, ma perché cerchi di soffocarlo? Eri libero… fiero, e adesso… adesso non sei che lo schiavo di te stesso, la maschera di te stesso!”
Mi parlò così, una volta, e mancò poco perché gli saltassi addosso per prenderlo a pugni e chiudere per sempre quegli occhi che, ancora una volta e in modo diverso dal solito, mi tormentavano.
“Perché sei tornato?” gli chiesi io, una volta. “Perché proprio qui?”
“Perché qui c’era qualcosa che mi faceva sentire vivo,” rispose lui.
In quella situazione, non avrei ammesso nemmeno sotto tortura quanto, per anni, mi fosse mancato: dovevo fargli scontare quell’assenza, quel suo non aver considerato cosa sarebbe potuto succedere se fosse rimasto.
Già, ma cosa sarebbe potuto succedere se lui fosse rimasto? Niente… Proprio niente. Forse ci saremmo sposati? Saremmo andati a vivere felici nella nostra valle incantata?
Non c’era nessuna ragione per cui potessi costruirmi castelli in aria, perché pensassi che Maxim fosse tenuto a restare a Londra. Nessuno dei due aveva alcun diritto sull’altro. Eppure la vita ci mise presto di fronte al fatto compiuto.
Un giorno Maxim venne a casa nostra e capitò che io, quel pomeriggio, fossi solo. Accecato da una rabbia rancorosa, scosso da pensieri che non erano miei, gli urlai di sparire una volta per tutte, accusandolo di aver scelto un momento in cui mi sapeva solo in casa mia per chissà quali congetture, e mille altre cose insensate che nemmeno ricordo più.
Lui scuoteva la testa ad ogni mio delirio, guardandomi con quegli occhi che, anni prima, erano stati il mio mondo. Mi afferrò il volto, carezzandomi le labbra con il pollice in maniera quasi febbrile, pesante, ma allo stesso tempo con una delicatezza che non avevo mai del tutto dimenticato.
“Alan,” pronunciò il mio nome così come si recita una preghiera, “dimmi che sei rimasto come ti ho sempre ricordato,” e ancora mi carezzava le labbra, “ti prego,” quasi ringhiava, “ho bisogno di saperlo,” e ancora “ti prego, ti prego…”
Aveva bisogno di saperlo, aveva bisogno di ricordare com’ero quando ci eravamo conosciuti, aveva bisogno di me: la forza con cui questa convinzione esplose dentro di me fu inferiore solo all’irruenza del suo abbraccio, dei baci con cui mi schiuse a forza la bocca, spingendomi all’indietro fino a premermi sulla scrivania con il suo peso, scaraventando a terra tutto quello che vi era poggiato sopra.
Io… io dimenticai chi ero, chi ero diventato, dove mi trovavo, dimenticai che erano passati undici anni dall’ultima volta che ci eravamo trovati così, l’uno sopra l’altro, l’uno dentro l’altro, strozzati da un unico ansito infinito. Ero solo Alan, quell’Alan che Maxim bramava, ed ero arreso al desiderio, represso per anni, per quell’amore impossibile. In quei minuti scanditi solo dal respiro pesante di Maxim – il mio svaniva, non aveva più importanza – tornai ad essere ciò che volevo e che lui voleva, con i capelli scompigliati, senza più l’ombra di quei baffi che, aveva detto Maxim, non avrebbero mai nascosto le mie labbra.
In quei minuti mi sentii felice.
…Ma quei minuti finirono. L’ultimo pesante ansito si spezzò nell’aria in modo così brusco che mi sentii come se su quella scrivania vi fossi appena precipitato, incrinandomi tutte le ossa. Un raggio di luce filtrava dalle tende accostate, e fece brillare la mia fede nuziale.
Mi sollevai di botto, rosso di fatica e di vergogna, e gli urlai di andarsene con tutto il fiato che avevo in gola. Maxim mi guardò come mi aveva guardato la prima volta che mi aveva rivisto dopo quegli undici anni.
Si rivestì in fretta, senza più alzare lo sguardo. E sparì, come gli avevo ordinato.


Come definirla, se non follia?
Ne sono consapevole: quella storia fu, fin dall’inizio, definita da contorni completamente folli. La nostra pazzia risiedeva principalmente nel non voler rendersi conto delle conseguenze che ogni singola azione avrebbe portato, e nel convincersi puntualmente di “non poter fare altrimenti”. E’ una frase che avremmo pronunciato spesso, in seguito.
Ci reincontrammo perché non poteva essere altrimenti… Il nostro amore esplose perché, al tempo, era stato taciuto, ed ora non poteva succedere altrimenti… Io e Maxim corremmo fino all’apice della reciproca felicità, tenendoci per mano, e con altrettanta irruenza presto precipitammo giù, perché non poteva essere altrimenti, non poteva mai essere altrimenti. Ora che il tempo, pur non avendomi ancora reso cinico, conduce tuttavia la mia mente a ragionare con lucidità, mettendo a tacere i sentimenti più irruenti, mi rendo conto che è questo, allo stesso tempo, il più grande beneficio e la più grande disgrazia dell’essere umano: quello di scegliere i momenti sbagliati in cui agire di testa propria, e delegare tutto il resto della propria vita al “volere del destino”. Non è coraggioso né corretto, eppure lo rende vivo, cosciente del proprio passato – anche se, magari, nel momento in cui il passato ha ormai corrotto inevitabilmente il presente.
E fu in quell’iniziale sprazzo di follia che tentai di cancellare con un solo colpo di spugna tutto quello che era successo e, insieme, tutto quello che non era stato ancora detto. Forse, se non avessi ritrovato il fazzoletto di Maxim, avrei trovato un momento in più per ragionare con calma.
Ma certo, il fazzoletto. Lo avevo dimenticato. Eppure costituì uno di quegli ideali perni da cui ripartì la mia storia – per mio volere, non lo nego. Dopo che Maxim ebbe lasciato la mia casa, quel giorno, e dopo che ebbi finito di ricompormi – più nell’orgoglio che nella persona, ammetto – la mia attenzione fu attirata da un rettangolino di stoffa bianca, scivolato sotto la scrivania. Quando lo raccolsi, credo, cominciai a tremare: su quel fazzoletto erano ricamate le mie iniziali, anche se da tempo non mi apparteneva più. Undici anni prima, infatti, lo avevo chiuso tra le dita di un giovanissimo Maxim in partenza per Parigi, regalando ad entrambi l’illusione che, magari, un giorno sarebbe servito a ritrovarci. Nessuno  dei due era disposto a crederci.
“E’ profumato, mi aiuta a prevenire le allergie,” gli avevo detto, per colmare un silenzio troppo pesante. Lui l’aveva stretto al petto per un istante, mi aveva guardato in un modo che ebbe quasi il potere di farmi credere che sarebbe rimasto, ma poi mi aveva abbracciato come si abbraccia qualcuno che sai che non rivedrai più, o come si abbraccia un amore che sai essere appena concluso.
Aveva conservato il suo profumo, ora mescolato ad un’essenza muschiata che avevo creduto di non ricordare più, ma che adesso impregnava ogni centimetro della mia pelle: Maxim lo aveva conservato per tutto quel tempo, e ora gli era caduto. In casa mia.
Lo portai al viso e vi premetti naso e labbra, quasi come se volessi soffocarmi in quel miscuglio di odori. Avevo addosso il profumo di Maxim e quello di Fanny, e non riuscivo più a distinguere il mio.


Ad ogni singolo evento di questa storia, continuo a chiedermi “come sarebbe stato se”. Un po’ come se l’avessi scritta, e certo adesso la sto scrivendo, anche se ormai i ricordi sono impressi a fuoco e non è più possibile cambiarli.
Non credo che, avendone la possibilità, lo farei.
Però è inevitabile chiedersi cosa sarebbe successo se, pochi giorni dopo, non mi fossi recato all’albergo dove soggiornavano Maxim e la sua fidanzata, per riportargli il fazzoletto. Non sapevo perché lo stessi facendo, ma da tempo non ho più dubbi in proposito: era il mio modo di dirgli “questo oggetto ti appartiene, io ti appartengo”. Non gli stavo solo riportando il fazzoletto: gli stavo riportando me stesso.
Quell’albergo dove, da giovanissimi, avevamo consumato i nostri pomeriggi proibiti, adesso ospitava Maxim e la sua fidanzata. Inconsapevolmente lo vedevo come una sorta di affronto, ed ero lì per chiarire il concetto che non era posto per lei, quello. Lui mi aveva fatto innamorare, mi aveva fatto soffrire, e ora doveva aiutarmi a ricomporre i pezzi della mia vita, doveva essere lui a completarla: non lo pensavo, non gliel’avrei mai detto, ma era così.
Chiesi alla hall dove si trovasse la stanza del signor Doufur. Era la stanza 25… come allora. E, come allora, in quella camera lui mi aspettava, solo.
“Ci hai ripensato, alla fine…” Sorrise appena nel constatarlo, forse non credeva che l’avrei fatto. Sorrisi di rimando, intimidito dall’infinito lasso di tempo che ci separava dall’ultima volta che ci eravamo trovati lì. Era diverso.
Gli resi il fazzoletto, che lui si era accorto di aver perduto – non pensava che fosse successo proprio in casa mia, disse, aveva quasi abbandonato la speranza di ritrovarlo.
“Speravo di rivedere te, invece…” disse poi, dopo un attimo di esitazione. Nell’imbarazzo più assoluto, mi strinsi nelle spalle, sorridendo. “…speravo di rivedere questo  sorriso,” aggiunse, avanzando appena per sfiorarmi il volto. Mi sentii attraversare da una scossa violentissima e, nonostante l’esiguità di gesti compiuti e parole pronunciate, la prima frase che affiorò alle mie labbra fu un febbrile “N-non possiamo, Maxim.”
“Non avremmo potuto neanche allora,” mormorò lui, come se tutto ciò che ora c’era intorno a noi – mia moglie, mio figlio, la sua fidanzata – fosse scomparso. “…ma io lo voglio, Alan. E… so che lo vuoi anche tu.” Deglutii, pronto a smentirlo, ma incapace di proferire sillaba. “Se non è così… allora guardami negli occhi e dimmi che non vuoi più vedermi. Oppure resta… Resta qui con me.”
Avrò forse sbagliato, chi lo sa?, ma quella mi suonò come nient’altro che una supplica accorata, persino i suoi occhi mi parvero lucidi d’emozione. Tutto il mio essere fu attraversato da un languore caldo, da un’improvvisa debolezza di spirito. Dovetti aggrapparmi a lui.
E anche Maxim si aggrappò a me. Non fu con violenza che mi schiuse le labbra. Non fu con dolore che me le lasciai schiudere e poi richiudere dalle sue, umide e bollenti. Riuscii a malapena a percepire la sensazione della sua mano premuta sulla mia nuca e della giacca che scivolava via dalle spalle.
E poi… caldo.


Restammo abbracciati in quel letto caldo per quella che mi parve un’eternità, avidi di toccarci, sentirci, smaniosi di ripescare il tempo crudele che era scivolato via e di trasformarlo in una sequenza di attimi felici. E poi via a raccontare tutto quello che era successo in quegli anni di lontananza, riempiti solo da pensieri fugaci di quelli che erano stati i nostri antichi incontri.
Era fidanzato da poco, mi disse, da qualche settimana, anche se lui ed Anne – questo il nome della donna – si conoscevano da un paio d’anni. Non aveva mai considerato realmente di sposarla, erano stati i genitori di entrambi ad accelerare il tutto. “E adesso dovrò sistemare le cose,” aggiunse, sospirando, “non voglio mentirle, o tenerla costretta con me quando so che non potrò darle nulla.”
Non mi chiese perché mi fossi sposato: forse intuiva che non avrei saputo rispondergli. Lo intuiva dal mio sguardo vacuo dopo la sua ultima stretta possente e l’ultimo bacio infuocato, dalla mia mollezza, dall’evidenza del mio essermi perso in lui. Finalmente mi sentivo libero, non avevo più bisogno di chiedermi se stessi facendo la cosa giusta, perché, ecco, stavo bene. Non me ne importava niente di considerare le conseguenze di ciò che stava succedendo, ero semplicemente dove dovevo essere, tra le braccia di Maxim, adagiato al suo petto, accompagnato dai battiti lenti del suo cuore e cullato dal lieve movimento delle sue dita sulla mia schiena.  
Mi parlò di Parigi – desiderava che io la vedessi, un giorno. In particolare, avrebbe voluto mostrarmi dei quadri, il lavoro di un gruppo d’avanguardia totalmente folle. Le sue parole di quel giorno sono tra le più indelebili nella mia memoria, perché mi fecero comprendere l’innegabilità di quello che provavamo l’uno per l’altro.
“Quei quadri mi ricordano… te,” mormorò, sfiorandomi il viso con una carezza impalpabile. “Sono sfaccettati e frammentari, ma allo stesso tempo limpidi… Le chiamano impressioni di realtà. Da qualunque angolo si guardino, riservano sempre una sorpresa, un particolare non visto. E poi…” Sorrise, cercando le mie mani e intrecciando le dita. “Ecco, comunicano serenità. Ti… ti fanno credere nell’esistenza di un Paradiso.”
Dio, la sua voce, e la sua espressione, mentre già pronunciava parole che sarebbero bastate, da sole, a mandarmi in confusione. Non l’avevo mai neanche sognata, una persona che mi parlasse in quel modo.
“Davvero io… sono tutto questo, per te?” fu l’unica domanda che affiorò alle mie labbra.
“Sei molto di più…” rispose.
Auguro ad ogni persona di trovare qualcuno capace di scatenare sentimenti come quelli che Maxim scatenò in me, perché non c’è niente di più dolce, davvero, dell’essere teneramente succubi di qualcuno per il quale noi rappresentiamo un angolo di Paradiso. In quel momento seppi che mi sarei arreso per sempre alla sua volontà, che l’avrei fatto entrare perché lui mi conducesse in Paradiso. Volevo che quell’amore mi accecasse, mi togliesse le forze, mi piegasse in ginocchio, perché solo così avrei saputo che era autentico, che ero vivo.
Era Maxim, ed era mio ed io ero suo.
Non chiedevo altro. Solo di annegare dolcemente, piano piano, in questa certezza.
Cominciai a vivere una vita degna di un romanzo di Jane Austen: sì, proprio una di quelle storielle che non ho mai sopportato, tutte amori impossibili, tradimenti, menzogne e colpi di scena poco credibili. Di amori impossibili ne avevo addirittura due, con la convinzione idiota di poter gestire le cose mantenendo la mia dignità, quando non feci altro che sferrarvi continuamente colpi violenti, fino ad affossarla del tutto. Una parte di me era ovviamente sollevata dal fatto che Fanny non si accorgesse di nulla, l’altra, sintomo della malattia che mi avrebbe roso l’anima, non se ne capacitava e quasi pregava che sorgesse in lei anche il minimo sospetto, pur di non dover vivere di bugie. Del resto, come avrebbe potuto accorgersi di qualcosa? Mi intrufolavo come un ladro nell’albergo di Maxim in orari rispettabilissimi – la sua fidanzata era ripartita per Parigi, ma noi non ne parlammo più – e, per il resto, aspettavo. Aspettavo il mio momento di gloria con lui, lontani da Londra e dalla mia famiglia, liberi di fare qualunque cosa, di amarci.
Non volevo ammettere a me stesso che l’unica cosa giusta da fare, se anche avessi deciso di darmi in eterno a questo amore fatto tutto di sogni e speranze, fosse di essere sincero con mia moglie. L’idea di respingere Maxim una volta per tutte, per tornare con la mia famiglia, non mi passava nemmeno per la testa: sapevo che questo avrebbe dato inizio alla mia vita come marito indegno e padre snaturato, cosa che mia moglie e mio figlio non meritavano. Quella piccola, folle parte di me pregava Fanny con lo sguardo, “Ti supplico,” le diceva, “chiedimi se ti amo ancora.”
Sì, la amavo ancora, e amavo Cal ancora di più. Cal mi aveva insegnato  l’amore disinteressato e pacato per qualcuno che desideri sentir dire, un giorno, “Io sono parte di te, e tu lo sei di me,” ma con Maxim capii l’amore violento e impetuoso verso chi senti già come una parte di te. Una parte di te che qualcuno vuole strapparti via. Il mio amore per Fanny era fatto di tenerezza, di riconoscenza, di tranquilla devozione. Non v’era nulla di quella passione disperata che mi univa a Maxim, del mio assentarmi quando lui mi stringeva, della sensazione di dolce, silenziosa morte interiore di quando mi univo a lui. Ma era amore.
Ero perfettamente consapevole del fatto che avrei perso Cal prima ancora di perdere Fanny, se Maxim fosse diventato la mia scelta. Non potevo permetterlo. Potevo solo consumare i miei giorni uno di seguito all’altro, aspettando che succedesse qualcosa – qualcosa che avrebbe potuto essere anche il nulla. Io non potevo fare nient’altro.
Poi successe ciò che sarebbe davvero degno di un romanzetto della Austen.
“Alan, sono incinta,” disse Fanny. Non ricordo neanche se fosse sera o primo mattino.
Era raggiante, un piccolo sole.
“Così il piccolo avrà un fratellino o una sorellina…”
La abbracciai forte, così forte che sembrava stessi già stringendo anche il bimbo che sarebbe arrivato. Aveva senso il mio provare gioia, se avevo scelto Maxim?
Non avevo scelto Maxim. Non avevo scelto niente e nessuno. Presuntuoso nel mio volermi tenere tutto, intimorito dalla prospettiva di ferire qualcuno, terrorizzato dalla possibilità di perdere tutti, strinsi a me Fanny per l’intera notte, rinnovatamente consapevole di non poterla lasciare.
Questa notizia diede il via ad uno strano meccanismo, o forse, a pensarci bene, alle più logiche reazioni da parte di tutti noi. Fanny era felice come la prima volta che avevamo concepito un figlio, e questa felicità era così profonda e straniante da renderla incapace di provare sospetti o notare in me strani comportamenti.
Non potevo non dirlo a Maxim. Ne fu sconvolto, incredulo, inferocito: da una parte accampavo stupide scuse – “Se l’avessi immaginato…” cosa? – e dall’altra io stesso mi rendevo conto che era troppo tardi, che stavo conducendo la nostra storia verso un punto di non ritorno. Era già capitato che litigassimo furiosamente, rivolgendoci le accuse più tremende, sempre per quel nostro folle volerci marchiare a fuoco vicendevolmente. Ma era successo quasi sempre per stupide rivendicazioni di quello che era stato il passato e che non era potuto essere il futuro, mai per la realizzazione di una svolta così forte. Ci insultammo, ci odiammo e poi ci amammo, come succedeva sempre quando traboccavamo di sentimenti troppo intensi, non più nostri: Maxim gridava che era colpa mia, che facevo di tutto per rendere le cose più difficili, io urlavo che era colpa sua, che avrebbe dovuto pensarci prima, e che ora non poteva più incolparmi di nulla. Scappava uno schiaffo, una porta sbattuta, e poi eravamo di nuovo avvinghiati, a infliggerci dell’altro dolore, un dolore meraviglioso e dolcissimo, ormai diventato la nostra droga.
Ero stanco – così stanco del peso di questo amore che sembrava poter essere vissuto solo tra paure, rivendicazioni e notti insonni. E uno dei miei gesti più vili segnò l’inizio di uno dei periodi più belli della mia vita – una manciata di settimane vissute nel Paradiso, se tale poteva definirsi l’oblio più totale.
Fanny decise di passare due o tre settimane con Cal presso i suoi genitori, prima che la gravidanza cominciasse a ostacolarla nei movimenti. Inoltre, l’aria di campagna le avrebbe certamente fatto bene. Non mi chiese nemmeno di andare con lei, sapeva bene che il lavoro non me lo consentiva, mi disse solo che le avrebbe fatto piacere se avessi avuto la possibilità di andare a trovarli, per un finesettimana.
Non aspettai neanche un giorno dopo averne parlato. Dissi a Maxim che sarei stato solo per un paio di settimane. E che avevo una villetta nell’Hertfordshire, disabitata da tempo…
Dio, fu così subdolo e meschino che ancora me ne vergogno. Ne approfittai senza quasi chiedermi cosa diavolo stessi facendo. Ma la gioia negli occhi e nel sorriso di Maxim mi rigenerò, facendomi dimenticare le mie colpe.
E la gioia di quei giorni… La gioia di quei giorni. Non riuscirò mai a descriverla, anzi, sono certo che nemmeno i ricordi arriveranno mai a toccare quella felicità.
Era come se fossimo regrediti all’età di quindici anni: constatare che gli interni della villa erano in condizioni pietose, considerato che erano più di dieci anni che nessuno vi entrava, non ci scoraggiò minimamente. Anzi, questo accentuò l’impressione di essere in vacanza, fuori dal mondo, e ci divertimmo da matti, i primi giorni, tra i colpi di tosse causati dalla polvere e i brividi improvvisi generati dagli spifferi: era solo un’altra scusa per abbracciarci forte e sentire di nuovo caldo.
Niente di più.
Il primo finesettimana rispettai il mio impegno, e andai a trovare Cal e Fanny, e così fu anche quello successivo: il mio comportarmi da marito e padre modello sarebbe apparso preoccupante a chiunque mi avesse visto conoscendo la situazione in cui mi trovavo.
Ma chi se ne importava? Fatte le valigie, tornavo dal mio amore, il mio bellissimo amore, che sembrava esser rimasto immobile per giorni ad aspettarmi, tanta era gioia che gli si dipingeva in viso quando tornavo. Al mio ritorno dal secondo finesettimana passato fuori città, mi fece trovare un pacchetto incartato: non esagero se dico che mi emozionai come un bambino, quando me lo porse con un sorriso dolcissimo.
“E’ tempo di ricambiare il regalo,” disse, giocoso. Da quando aveva creduto di aver perso il fazzoletto, lo conservava con gelosissima attenzione. “Niente cerimoniali, però,” aggiunse ridacchiando, vedendo la curiosità e lo stupore dipinti sul mio volto, “aprilo e basta.” E non me lo feci ripetere due volte: cominciai a scartarlo non appena me lo mise in mano. Mi ritrovai a stringere un cofanetto in legno intagliato. “So bene che meriti molto di più…” mormorò, mentre io lo aprivo.
All’interno trovai un orologio da taschino in oro puro, che mi lasciò senza fiato. Ma fu niente in confronto a ciò che provai quando aprii il coperchio e vi trovai dentro una frase incisa. Ogni ora, ogni minuto, ogni istante scandito da queste lancette ha accompagnato un momento che avrei fermato in eterno. Tuo, per sempre, Maxim.
Non mi sarei neanche accorto di aver cominciato a piangere se non avessi alzato lo sguardo su di lui, dopo aver letto l’iscrizione. “Quando… quando avevamo vent’anni il tempo non esisteva nemmeno, vero?” riuscii appena a sussurrare.
“E’ vero…” Maxim mi prese le mani fra le proprie, calde e gentili, chiudendomele sul preziosissimo regalo. “…ma io non ho ancora rinunciato a fermarlo, amore mio.”
In quel momento sentii qualcosa di diverso dalla pura felicità: sentii che ormai appartenevo totalmente a quell’uomo, che non avrei potuto neanche più mantenermi in salute se lui non mi fosse stato accanto. Il mio cuore non batteva per lui, lui era il mio cuore, era la mia aria, era il mio sangue, era il mio tempo.
Era tutto me stesso. Senza di lui, io non sarei esistito più.
Lo baciavo convulsamente, piangendo e ridendo, e ci abbracciavamo, stropicciandoci i vestiti, mai stanchi di ripeterci a vicenda “Ti amo, ti amo, ti amo”.
Maxim mi strinse la mano che teneva l’orologio e me la premette sul petto. “Giurami che lo terrai sempre con te,” mi pregò, “qualunque cosa accada.”
“…Ma cosa dovrebbe accadere?” singhiozzai, sorridendogli e baciandolo ancora. “Te lo giuro…” mormorai sulla sua pelle, umida delle mie lacrime.
Mi sembrava davvero impossibile che potesse succederci qualcosa: tutto era già successo, ero perso nel mondo che avevo sempre desiderato. Come se quella sorta di dimensione onirica fosse destinata a schiacciare il tempo e le lancette di quell’orologio servissero solo a ricordarmi che, d’ora in poi, ogni minuto sarebbe stato uguale a tutti gli altri: minuti infiniti di irreale felicità.
Non sapevo che quella felicità avrebbe cominciato ad avviarsi al declino. Mi sentivo troppo leggero per avvertire la minaccia del peso che presto ci avrebbe schiacciati tutti.


La mia doppia vita ricominciò con il ritorno della mia famiglia. Coccolavo Fanny, giocavo con Cal, attendevo il nuovo bambino e scrivevo a Maxim ogni giorno in cui non potevamo incontrarci. Quando tornavamo ad abbracciarci, giocavamo ad essere ancora nella villetta, facendo finta che i rumori della strada somigliassero al verso delle cicale e dei grilli. Ogni tanto ci incontravamo di sfuggita, dove capitava. A volte persino a casa mia, sotto il grande terrazzo, quando tutti riposavano, appena finito il pranzo.
“Vieni da me adesso,” mi pregò una volta Maxim. Sapevamo entrambi che non era possibile (Fanny era ormai entrata nel sesto mese di gravidanza ed aveva già qualche difficoltà a muoversi), era solo un modo come un altro per dirci, ancora e ancora, quanto ci desiderassimo.
“Tesoro, non posso,” mormorai, tra un bacio e l’altro, “non ora… Non posso lasciare Fanny da sola…” E restavamo ancora lì a sfiorarci, a sussurrare parole tenere, coccolati dal silenzio surreale che ci circondava. Ci saremmo visti il giorno dopo, lo sapevamo, ma lo promettemmo, perché avevamo bisogno di tradurlo in parole, in realtà. Ci salutammo, i pensieri già proiettati al domani.
Quando risalii a casa, mi affacciai in camera da letto per assicurarmi che Fanny non avesse bisogno di me, ma non la trovai lì. Solo vagamente preoccupato, la cercai per poi trovarla sul terrazzo, appoggiata al balcone, affacciata verso lo spiazzo che conduceva al portone d’entrata. Era immobile.
Non potei nemmeno pronunciare il suo nome: appena le sfiorai una spalla, lei scattò come se l’avessi punta, sbottando con un acuto “Non mi toccare!”
La mia prima reazione fu di confusione più assoluta: non collegavo questa frase a niente che potesse essere successo sotto i suoi occhi. Non mi sfiorava nemmeno, l’idea più logica e più tremenda, e cioè che lei si trovasse sul terrazzo già da diversi minuti. Non aveva senso.
Finalmente si girò verso di me, ma la riconobbi a stento: aveva uno sguardo che non le avevo visto mai, nervoso, distortamente ironico. “Lo so, ti avevo promesso che sarei rimasta a letto,” disse, con una risatina strana, “ma, ecco, ho dovuto alzarmi, perché il bambino scalciava.”
Non proferii parola.
“Il tuo bambino, Alan, il nostro bambino!” urlò lei, stringendo i pugni. Quando ci guardammo, fu come se si fossero guardati due estranei. Lei cercava in me una spiegazione, io cercavo di rendermi conto dell’improvvisa realtà di quello che per mesi era stato il mio più grande incubo e la mia prima aspettativa. Fanny si coprì il viso con le mani, scuotendo la testa. “Che schifo,” mormorava appena, “mio Dio, che schifo…” E ancora, “Che… che uomo sei, Alan? Guardati allo specchio, dimmi che razza di uomo sei!”
Mi trascinò davanti allo specchio del salotto, in lacrime, ma furiosa come una leonessa alla quale avessero rapito un cucciolo. “Cosa vedi, eh? Un uomo torturato dalla moglie? Un uomo ripugnato dalla moglie?!”
Non risposi. E lei ricominciò a gridare. “Allora perché? Perché, maledizione?!”
Era quella, la domanda che non ero mai neanche riuscito a pormi. E adesso… adesso non c’era nemmeno più bisogno di farlo.
Solo una cosa ricordo, dell’immediato dopo: il modo in cui mi separai da Cal.
Chiunque potrebbe obiettare che, se davvero non sopportavo l’idea di lasciare mio figlio e la possibilità di non veder nemmeno nascere il nuovo arrivato, avrei semplicemente dovuto giurare a Fanny che non avrei mai più rivisto Maxim, e poi mantenere la promessa. Ma con quale faccia avrei potuto farlo? In che modo avrei assistito al meticoloso crollo di tutto ciò che avevo?
Ebbi appena il tempo di riempire una valigia con qualche abito. Non riuscivo nemmeno a sentire il pianto leggero di Fanny, ora seduta sul divano del salotto, il volto affondato tra le mani. Singhiozzava piano, senza mai alzare lo sguardo, probabilmente terrorizzata dalla prospettiva di vedere in faccia me, il suo disgraziato marito, il sodomita. Cal, fortunatamente, non aveva sentito la discussione di poco prima, ma adesso mi guardava con gli occhi colmi di confusione e spavento. “Papà, che stai facendo?” mormorò.
Avrei voluto che Cal avesse l’età giusta ed io la forza necessaria per spiegargli tutto quello che aveva il diritto di sapere. Ma, abbracciandolo, gli dissi la cosa più idiota e falsa che potessi tirare fuori in quel momento: “Non preoccuparti, tesoro, papà torna presto.”
Papà torna presto.
“Papà deve andare via, e sarebbe meglio se non tornasse più,” avrei dovuto dirgli. Sarebbe stato più crudele, ma anche più sincero, da parte mia.


Naturalmente andai a rifugiarmi da Maxim, mio ultimo nido. Si incolpò ripetutamente per quello che era successo; non avrebbe dovuto essere così incosciente, diceva. E io continuavo a ripetergli che eravamo sempre stati incoscienti, che non poteva addossarsi la responsabilità di quel piccolo evento che, da solo, aveva generato la catastrofe.
“Sarebbe successo comunque…” dicevo. Solo che non ero mai stato in grado di prevedere come sarebbero andate le cose, in quel caso. Non potevo certo aspettarmi di risalire dal fondo che pensavo di aver già abbondantemente toccato, ma nemmeno che anche quel fondo sarebbe crollato, facendoci precipitare ancora più in basso. E la colpa fu solo nostra.
Così come dicevo a Maxim di non incolparsi, io stesso non riuscivo ad incolparlo. Mi era rimasto solo lui: Fanny non mi avrebbe mai perdonato, non mi avrebbe mai permesso di vedere i miei figli. Non avrei visto nascere il nostro secondo bambino, non avrei mai neanche avuto la faccia di ripresentarmi da mio padre, con cui i miei rapporti si erano pressoché interrotti da quando si erano manifestate le mie inclinazioni giovanili.
Maxim era davvero il mio ultimo porto, e mi attaccai spasmodicamente a lui, ogni giorno di più, senza nemmeno rendermene conto. Mi lasciai risucchiare dalla mia stessa vita, lentamente, inesorabilmente, senza reagire.
Lui cercava di proteggermi dai miei fantasmi, oh, se non mi teneva stretto, la notte, per scacciare via gli incubi maligni…! Quegli incubi si ripresentavano al mattino e distorcevano la realtà, mostrandomi solo il totale fallimento della mia esistenza, della mia famiglia tradita, dell’amore che non ero libero di vivere serenamente.
“Sono qui, cucciolo mio,” sussurrava, quando non riuscivo a prender sonno, “dormi…”
Dormi…
…Ma io no, non riuscivo a dormire. Non riuscivo a ragionare lucidamente, a considerare una sola possibilità che non fosse quella di restare per sempre nascosto in una camera d’albergo, lasciando che Maxim, cullandomi fra le sue braccia, allontanasse i brutti pensieri. Era la mia unica via d’uscita, l’unica cosa che assomigliasse alla salvezza, e avevo il terrore di perdere anche lui, che Fanny ci denunciasse, magari, separandoci per sempre.
Un giorno sbottammo, non ricordo nemmeno perché. Uno stupido screzio si trasformò in uno dei nostri vecchi litigi, forse solo per sfogare il malessere causato da quell’oppressione. Maxim gridò che non ne poteva più, io gli gridai di andarsene. E lui se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle.
Quel rumore secco fu come una scossa elettrica che accese in me la miccia della pazzia, già pronta ad esplodere da molto tempo. In pochissimi secondi successero troppe cose insieme: fui preso dal panico, mi maledissi per averlo cacciato, pensai che non sarebbe più tornato, ecco, non l’avrei mai più rivisto, neanche lui, oh no, oh no, lo avevo perduto, Dio, no, no… Accecato, delirante, misi sottosopra la stanza in cerca delle pillole di sonnifero che ogni tanto placavano i miei sonni agitati: erano nel cassetto dello scrittoio, come prima, ma io non lo ricordavo, non capivo più niente…
Credo di averne mandate giù una decina, se non di più. Mi fermai solo per le convulsioni violente che mi assalirono, irrigidendomi le dita al punto che la boccetta mi sfuggì di mano e rotolò in un angolo. Caddi sul pavimento, tremando come un epilettico, mentre già sentivo la vita scivolarmi via di dosso, l’anima abbandonare quel corpo indegno di provare altre emozioni.
Maxim arrivò quando ormai il mondo aveva perso forma e significato. Ora lo so, so che si rese conto in tempo di avermi lasciato preda della mia povera follia, e che solo per questo riuscì a salvarmi. Sul momento sentivo solo a scatti le sue grida, e non riuscivo a capire cosa significassero. Non sentivo nemmeno le pillole risalire su per la gola, quando lui mi trascinò in bagno e lottò in tutti i modi per farmi vomitare. “Sputa, sputa tutto!” urlava, come se io potessi capirlo ed eseguire l’ordine. “Sputa tutto!” urlava, e intanto piangeva, piangeva come un bambino piccolo, mentre quelle strette sullo stomaco si trasformavano in abbracci disperati e febbrili.
“Dio, ma perché…?” singhiozzava, “perché…” Come Fanny. Come, un giorno, anche Cal. Ero io l’unico a non esserselo mai chiesto. “Non doveva andare così, non doveva…”
Maxim continuava a parlarmi, a rassicurarmi, a baciarmi. Così immagino, così ricordo a brevissimi sprazzi. “Sono qui con te, amore mio, non preoccuparti…” avrà forse mormorato.
Io non c’ero.
Ero spento, morto, andato. Se parlavo, deliravo. Se aprivo gli occhi, non vedevo nulla.
Il mio corpo era ormai un involucro vuoto, senza più nessuna emozione da provare e nessun sentimento da regalare. Quello non era più amore.
Maxim lo aveva già capito, e si struggeva sul mio corpo inerte, sul mio volto senza espressione, tormentato dalla domanda che non aveva più spazio nella mia mente svuotata: come avremmo mai potuto ricominciare a vivere?


Meno di due settimane dopo, nascesti tu. Il nome che porti, Allison, non lo aveva scelto nessuno di noi: non so perché tua madre decise di chiamarti così. Ma a quel tempo non ero in grado di apprezzare la bellezza del tuo nome, né la dolcezza dei tuoi occhi innocenti.
Il mondo era per me una grande macchia sbiadita, come se quei sonniferi avessero intaccato non solo il mio organismo, ma il mio stesso sentire.
Non ero più in grado di donare amore, e nessuno era in grado di donarne a me. Fu per questo che Maxim decise di tornare a Parigi, e di non portarmi con sé né guardarsi più indietro. Quando mi fece capire questa sua intenzione, per poco non ebbi voglia di tentare di nuovo il suicidio. Ma poi, a poco a poco, riuscii a capirlo, a sentirlo. Maxim mi prese con dolcezza e decisione per riportarmi sulla strada della ragione, paziente, fiducioso che avrei ripreso a camminare con le mie gambe. Era necessario che trovassimo la forza di staccarci, mi fece capire, prima che arrivasse qualcuno a distruggerci definitivamente. Eravamo feriti a sufficienza, stanchi e senza prospettive, e quello che era stato il nostro amore non era ormai altro che una malattia corrosiva e pericolosa, da cui nessuno di noi sarebbe riuscito a guarire l’altro. Io ero la sua malattia, e lui la mia. Solo che io non ero ancora in grado di comprenderlo né di accettarlo.
Maxim non se ne andò finché  non mi sentì promettere che avrei cercato di farcela, di sopravvivere. “Vivrai,” mormorò, “e io vivrò con te…” Mi prese una mano e se la premette sul cuore. “Ti terrò sempre qui dentro…”
Era quella la nostra via d’uscita, l’unica possibile. L’amore, la devozione, la riconoscenza non sarebbero mai morti, ma adesso era necessario che imparassimo a farceli bastare, senza più cercarci.
Mi baciò il viso, le mani, le labbra. Mi guardò, e io vidi l’amore. Capii che mi sarebbe bastato per sempre. Che mi aveva riempito fino a farmi traboccare, e che adesso era tempo di fare pace con me stesso e di trovare un posticino sicuro e tranquillo per il suo ricordo. Era l’unico modo per continuare ad amarci smettendo di farci male a vicenda. E lo accettammo, tacitamente, piangendo lacrime amare, ma lo accettammo: e fu come mettere un sigillo eterno a tutto ciò che ci aveva legato.

Questa è la storia che non sono riuscito a raccontarti per intero, figlia mia adorata, ma che so che capirai, perché hai un cuore forte e traboccante di passione. L’ho scoperto troppo tardi, ma l’ho scoperto.
Sono arrivato tardi in troppe tappe, purtroppo, ma adesso mi basta sapere che vi sono giunto per sentirmi in pace con me stesso.
Sono anni, ormai, che non vedo più Fanny, e non penso che le farebbe piacere. Ma mi rassicura sapere che è andata avanti grazie ai suoi due meravigliosi figli, dei quali ancora non mi perdonerei la lontananza se non sapessi che hanno portato tanto conforto nella vita di una donna che lo meritava pienamente.
Cal. Cal non mi ha mai perdonato. Era troppo grande per non capire, troppo piccolo per accettare. Magari un giorno sarai tu a raccontargli questa storia, Allie? Non so se riuscirai a farlo smettere di odiarmi, ma spero almeno che potrai fargli capire che suo padre l’ha sempre amato sopra ogni altra cosa. Non importa che mi perdoni, davvero. Gli voglio bene e  questo amore mi riempirà il cuore anche dopo la morte: non chiedo di meglio.
Con mio padre, tuo nonno, sono riuscito a riprendere i rapporti dopo la fine di questa storia. Ero completamente privo di difese, quando sono andato a cercarlo, avevo ancora bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi fisicamente. Lui mi capì e mi aiutò ad attenuare il dolore, non chiedendomi nulla che non volessi raccontargli. Gli sono grato e lo ricordo con lo stesso amore di quando ero bambino.
Non ho più incontrato Maxim. Non ci siamo scritti, non ho mai chiesto sue notizie a terzi. Il mio unico vezzo è stato quello di mettere una sua fotografia nell’orologio che mi aveva regalato e che ti mostrai quando venisti a trovarmi, per ricordare il suo volto giovane e fresco, come mi aveva fatto innamorare. Non importa che ora lo ricordi adulto e grave nella sua passione. Quello che c’è stato tra noi non si potrà mai cambiare, né vorrò mai dimenticarlo. E’ stata una lezione di vita fin troppo forte, per me; mi ha fatto saggiare la dolcezza e il dolore dell’esistenza, mi ha insegnato ad essere così come sono ora, come, anni fa, non avrei saputo essere.
Adesso mi sento sereno, Allie. Non ti chiedo di custodire questa storia, perché so che lo farai comunque. So che la serberai dentro di te e che ne trarrai qualunque insegnamento tu voglia trovarvi. E, anche se così non dovesse essere, saprò di non aver vissuto invano.
Forse è questo il momento in cui un uomo riesce finalmente a gettare uno sguardo lucido sulla propria vita: quando questa si spegne pian piano, e non per sua volontà. Sai, mi sembra di essermi svegliato dopo un sogno.
O forse il sogno sta proprio per iniziare…
Ti voglio bene, piccola mia, ricordalo sempre. Il tuo                                               

                                                                                                            papà









Note: I personaggi di questa storia sono inventati, di proprietà mia e di _Mrs Gray. Postaggio tardivo (e mutilato XD) del regalo di compleanno per la mia lovely Donna <3
Il banner e il disegno usato sono di mia proprietà.
  
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