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Autore: Nyappy    06/04/2012    5 recensioni
Fiori. Giganteschi fiori spuntano davanti ai miei occhi, gialli e verdi e rossi e blu.
Sembrano ibiscus, quelli sui pantaloncini da bagno hawaiani.
Tanti ibiscus gialli e verdi e rossi e blu. Formano quasi un mosaico. Bang! Esplodono, s’ingrandiscono e sovrastano gli altri, prima di rimpicciolire ed essere coperti da loro simili.
Oh, ciao, Olsie.
Vedo la mia immagine riflessa, mentre i fiori continuano a nascere e morire come fuochi d’artificio.
So di essere io, eppure non lo sono.

[Accenni di sci-fi, allucinazioni e deliri] [Stile abbastanza sperimentale per i miei standard]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Agrimonia Eupatoria' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Phantasmagoria

Ehi, Olsie. Lo sai cos’ha detto una volta un vecchio poeta?

Non lo voglio sapere.

“La Terra ride nei fiori.”

Lo sai cosa vuol dire morire e rivivere ogni giorno?
Sono sdraiata su un materasso duro e sottile. Riesco a sentire, sotto la schiena, le assi metalliche del lettino. Ho le gambe a pezzi, tutte le ossa mi fanno male.
Ho bisogno di rigirarmi, ma non ci provo nemmeno.
Non riesco a vedere nulla: ho una luce fortissima puntata contro gli occhi, che bruciano quando li sbatto. Sono sveglia da ore.
In sottofondo, il clangore del metallo contro il metallo.
È un suono quasi allegro.
«Paziente numero 254, Olsie Honecker.»
Una macchia scura invade la mia visuale. Riconosco quella voce annoiata: è il professore, che scandisce ogni parola in modo che la registrazione non risulti confusa.
«Giorno 21.»
Sono già passati tutti quei giorni.
Inizio a scorgere la rete di rughe sul suo viso, il naso grosso, il microfono appoggiato alla sua guancia. Dalla cuffia verde spunta un riccio di capelli bianchi.
Buongiorno, professore.
«Iniezione 37.»
Tra un po’ ricomincerà. Prima però voglio chiedergli una cosa, devo chiedergli una cosa.
«Mia…» mi ritrovo già senza fiato.
È come se tutta l’aria mi fosse risucchiata dai polmoni, mi trasformo in un esserino boccheggiante, un pesce che rotea gli occhi e cerca di contorcersi tra le mani del suo oppressore, mentre le scaglie viscide scivolano e catturano i riflessi della luce «…sorella…»
Non va bene. Sta entrando anche qui. Sono da sola contro un’invasione. Non la posso bloccare.
Il professore non mi risponde. Ha sentito la mia domanda? Forse non l’ho nemmeno fatta davvero. Forse mi sto immaginando tutto, di nuovo.
Capita sempre più spesso.
Tra un po’ non riuscirò più a svegliarmi.
Sento la sua presa sul braccio.
È da un po’ che non provo il tocco della pelle umana, ha iniziato ad usare i guanti in lattice. Li odio.
La mia mano penzola in aria. La sento pulsare, come se si stesse fondendo con il cuore. Ogni vena, ogni capillare rimanda il sangue al mio petto, quindi perché no?
Ho ancora un cuore?
L’ago penetra nell’incavo del gomito come se fossi fatta di burro. Non fa male, è una sensazione curiosa. Potrebbe essere peggio, potrei avere la fobia degli aghi.
Allora sarebbe divertente.

Sai, dovresti leggerlo anche tu. C’è una frase che mi è piaciuta tantissimo.

Quale?

“I fiori sembrano fatti per la gioia dell’ordinaria umanità.”

Inizia.
La voce di mia sorella echeggia ancora nella mia mente. Chissà perché mi sono venuti in mente questi due frammenti di ricordi. Stupide citazioni, Keller infarciva ogni sua frase degli autori che leggeva.
Non ha mai sviluppato un pensiero originale, quella pigrona.
Buio.
Buio tiepido e bello, vuol dire che le allucinazioni inizieranno tra un po’. Vuol dire che vogliono registrarle.
Sono i miei attimi di riposo. Non sono né di qua, né di là. I miei minuti di limbo. Il mio Paradiso, la mia pace.
Chissà chi diventerò, questa volta. Chissà che farò e chi incontrerò.
Chissà quanto durerò prima di consumarmi. Non so se anche gli altri sanno che è tutto un sogno.
Keller direbbe “so di non sapere”.
«Ah!» soffoco. Sto soffocando. Aria! Sto morendo! Aria! La gola, non arriva aria alla go–
Fiori. Giganteschi fiori spuntano davanti ai miei occhi, gialli e verdi e rossi e blu.
Sembrano ibiscus, quelli sui pantaloncini da bagno hawaiani.
Tanti ibiscus gialli e verdi e rossi e blu. Formano quasi un mosaico. Bang! Esplodono, s’ingrandiscono e sovrastano gli altri, prima di rimpicciolire ed essere coperti da loro simili.
Oh, ciao, Olsie.
Vedo la mia immagine riflessa, mentre i fiori continuano a nascere e morire come fuochi d’artificio.
So di essere io, eppure non lo sono.
Nella realtà non ho questi bei capelli biondi, non ho la frangia né due code basse sulla nuca. Non appena sono entrata mi hanno rasato la testa.
Quella non è la mia faccia. Non ho il viso a cuore, con le labbra carnose e gli occhi enormi. Quella davanti a me è una ragazza carina, ma non sono io. O meglio, sarebbe carina se avesse iridi e pupille.
Cos’è quell’enorme mantello marrone che le nasconde il corpo? Non va bene.
Non me ne frega nulla di chi sia la piccola cieca, né di cosa voglia, ma se stanno registrano la mia attività cerebrale mi faranno agire in qualche modo.
Devo voltarmi. La ragazza si alza sulle punte dei piedi – indossa delle scarpe da ginnastica nere, simili a quelle di Keller – e lo fa per me.
Ha una ricrescita scura davvero deliziosa, giusto un millimetro a malapena visibile nella riga dei capelli. Non dovrei essere in grado di notare certi dettagli, ma dato che lei è frutto della mia mente, capisco perché posso farlo.
Siamo ancora al buio e solo la sua figura è illuminata. E sono io.
Un ibiscus rosso mi esplode davanti agli occhi e li chiudo per istinto – ho le mani strette attorno alla sua gola, con le dita che affondano nella sua pelle morbida.
Le sto schiacciando la carotide, eppure non sto soffocando a mia volta. Non sono più lei. Perché la sto uccidendo?

Mi sono dimenticata quello che volevo dire.

Almeno sulla morte puoi avere una tua opinione?

Ma io ho le mie opinioni, solo… mi mancano le parole per esprimerle.

Ho ucciso Keller.
La scena davanti ai miei occhi cambia. Devo rivivere quei ricordi, ancora?
Apro la portiera metallizzata dell’auto, facendo attenzione alle unghie. Sono lunghe e smaltate di rosa acceso, con dei fiori neri. Sono – erano – un regalo di mia sorella.
Gli interni grigi sanno di polvere ed il volante di pelle nera sembra quasi severo. So già come andrà a finire.
I finestrini sono abbassati. Mi ritrovo con la macchina già accesa, in folle.
Keller, con un cerchietto blu tra i capelli, è vicina al cancello. So che c’è, eppure non riesco a vederla. I dettagli emergono dal buio, un collage di chiazze luminose.
Altre immagini si sovrappongono: i suoi lunghi capelli castani che le coprono completamente la schiena, le mani di Mikkel che ci giocano e le stringono la vita.
Le lunghe dita di Keller m’invitano a seguirla, perché il viale è deserto e posso provare ad accendere la macchina e guidare in rettilineo.
Vedo proprio quello, le sue dita che si muovono come un ventaglio, che mi chiamano e si avvicinano. Anche le sue unghie sono lunghe e belle, smaltate di blu. Niente decorazioni per lei.
Le sento mentre mi accarezzano la gola – prendo velocità con l’auto.
«Cosa stai facendo?» so che mi sta urlando questo, ma non ricordo più la sua voce «Non puoi andare così velo–»
Il tonfo secco, ma la corsa procede. Qual è il pedale del freno, quale dell’acceleratore? Ne premo uno a caso, mentre batto con l’altro sul tappetino un ritmo che mi è venuto in mente.
Keller è sbalzata in avanti, con le mani che artigliano l’aria e gli occhi, i suoi occhi azzurri spalancati e così grandi che mi hanno fatta sorridere.
Poi le ruote scavano nella carne. Mi piacerebbe vederlo, il sangue che schizza in aria – se è schizzato in aria. Le unghie che si frantumano assieme alle ossa, come schegge di vetro ad ornare l’asfalto. E i suoi bei capelli? Ora sono tutti rovinati.
Ho ucciso Keller ed è stato un incidente. Non sono pentita di averlo fatto. Ogni giorno nei notiziari vengono citati interi reparti militari costituiti da cadaveri rianimati.
Anche Keller è stata rianimata, lo so.
È sempre stata la preferita dei miei genitori, lei in blu ed io in rosa.
Lei che leggeva ed io che la criticavo.
Torna il buio. Un libro svolazza nel nulla. La copertina blu scuro si contorce tra i fruscii delle pagine. Carta sulla carta. Sembra immerso in una luce di perla.

Potresti evitare di andare in giro in reggiseno quando c’è Mikkel in casa, sai?

Perché? E’ lui l’ospite, è lui che si deve adattare.

Quanto ti odio quando fai così.

Parole. Ho ucciso per delle parole.
Sollevo le mani davanti al viso e le vedo: strisciano sulla mia pelle, tra le mie vene, entrano ed escono dalla mia carne. Mi trapassano senza dolore, perché sono solo parole ed al corpo non possono fare nulla.
Successioni senza logica di lettere.

Fnsåihlgb quanto sei bella vcuhgerhnvinro

Ti odio ti amo lo farai per me? nvwhguirejhgøe

Ma non fanno male.
«Paziente numero 254, Olsie Honecker.»
Di nuovo le parole ben scandite del professore. Vuol dire che è già finita?
«Giorno 21. Iniezione 37.»
Più breve del solito. Quando me ne fanno tante contemporaneamente, rimango per ore in quel mondo.
Sento di nuovo il materasso sottile e duro sotto la mia schiena. Ho ancora le mani? Non riesco a muoverle. Non le sento più.
«Risultati deludenti. Paziente prossima al collasso.»
Lo sapevo. Quand’ero ancora fuori di qui ho sentito di gente che è durata una settimana, massimo due. Non tre come me.
Chissà perché sono così resistente.
«Ora di socialità.»
Oh, questa è una sorpresa. Non mi danno un’ora di socialità da dieci giorni.

* * *

Da quant’è che non vedo uno specchio? Giusto, ventuno giorni.
Come sono conciata? Lo posso vedere negli altri. Ogni volta che mi viene data un’ora di socialità vedo nuove facce.
La carrozzella su cui sono seduta è morbida, ma è comunque una sofferenza. Le mie ossa sembrano trapassate da miliardi di aghi che fanno leva per spezzare.
Voglio avanzare. Sento una leggera scossa al dito medio e le ruote si muovono, portandomi al centro di quella stanza bianca e luminosa.
Le pareti sono completamente spoglie, il nostro sguardo non potrebbe apprezzare le decorazioni.
Questo è il mondo reale, solo qui posso immaginare la mia condizione fisica.
C’è una ragazza su una carrozzella vicino a me, con i capelli rasati di fresco e gli occhi spalancati. Ha una garza bianca sulla guancia e continua ad arricciare il naso. Più vicine le iniezioni sono al cervello, più fanno danni.
Però il suo viso è ancora pieno, il suo colorito è ancora sano.
Devo sforzare gli occhi, devo concentrarmi su qualcun altro.
Ecco un ragazzo. Ha il viso scavato e la pelle è così bianca e tirata da sembrare carta. Mi sembra di averlo già visto – dieci giorni fa dev’essere stato bellissimo. Gli occhi sono incavati nel viso e le occhiaie sono così profonde da essere blu.
Blu, come il colore preferito di Keller.
Chissà cos’ha combinato, lui, per essere rinchiuso qui. Ha un’espressione vacua e morta. Dentro siamo già tutti morti, anche se non importa a nessuno.
Me per prima.
Come tutti, il ragazzo indossa un camice verde pallido. Un colore che dovrebbe rasserenare ed invece è così finto da fare davvero paura.
Tic, tic.
Inizia a battere l’indice sul bracciolo imbottito della carrozzella. Il suono si sente a malapena.
Tic, tic-tic, tic.
Assomiglia al mio ritmo, quello che battevo con il piede mentre la macchina mangiava il corpo di Keller. Mio. Mia sorella.
«Paziente numero 512, Anton Bach.» una voce femminile squillante mi fa sussultare.
L’ora di socialità è terminata per quel Bach.
Sento il pestare dei tacchi alle mie spalle che si avvicina. L’infermiera è una bella donna, con delle gambe lunghe e dei ricci corti. Non ho mai avuto il piacere di avere delle belle gambe.
Avanza verso il ragazzo di prima, poi si volta verso destra e si porta dietro ad un ragazzo così emaciato che… quello non può essere un viso.

Cosa ti piace di me?

Tutto.

Non è vero. Sono piena di difetti – e non dire che sono quelli a rendermi unica, perché non è vero.

Chissà quanto manca allo scadere della mia ora di socialità. Era divertente quando potevo ancora parlare, ma ora mi escono solo rantoli. E le persone di oggi non sembrano simpatiche o in vena di conversazione.
Anton, cos’hai fatto per essere rinchiuso qui? Hai ucciso tuo fratello? Hai mangiato la tua sorellina? Hai impiccato il tuo cane invocando una religione fuorilegge?
E tu, ragazza che arriccia il naso, cos’hai fatto? Hai vendicato da sola la violenza che hai subito? Hai fatto il bagno nel sangue dei tuoi genitori? Hai abortito?
Sposto gli occhi sul bel ragazzo che continua, con quel ritmo leggero, a ricordarmi della sua presenza. Cos’hai fatto, piccolo percussionista, per diventare un nemico dell’Igiene Pubblica?
Hai cantato di quanto desideri la libertà, di quanto lo Stato ti opprime? Hai fumato sigarette di contrabbando, senza pagare le tasse del monopolio? Hai torturato un omosessuale che ti fissava con troppa insistenza?
Odio ed al contempo amo l’ora di socialità. Amo vedere la gente, facce diverse da quelle del professore. Odio non poter chiedere loro di cosa si sono macchiati per finire qua dentro.
Il crimine è come una macchia che sporca i nostri bei camici verdini.
È simile al sangue, prima scarlatto, che poi si rapprende e si secca ed è difficile da lavar via.
Un po’ mi fa rabbia. Che razza di socialità è, non parlare? Ma non riesco nemmeno a protestare. Voglio andare in un angolo ad osservare bene tutti. Un’altra scossa leggera alla mia mano e la carrozzella si muove, obbedendo ai miei desideri.

* * *

L’ago questa volta penetra nella mia gola. Non è più rischioso, così? È anche più vicino al cervello – ma dopotutto, devo morire. Sono prossima al collasso, anche se sono quella che è durata di più, qui, credo.
Però avrei voluto conoscere il nome di quel ragazzo, solo perché mi ha fatto sentire un suono diverso dal mio solito respiro e dal cuore che ruba spazio agli altri organi.
Stupido cuore.
«Paziente numero 254, Olsie Honecker. Ultimo desiderio?»
Ti odio, professore. Come posso, con i polmoni accartocciati che mi ritrovo, parlare? E se anche le mie corde vocali non si fossero polverizzate, come potresti riuscire a capirmi?
«Voglio…» voglio che lui capisca queste mie parole, lui che è solo una macchia scura davanti a quella luce che mi acceca e non mi fa dormire «Conoscere…»
Perché l’ora di socialità garantitaci dallo Stato è una truffa.
«Tutti… i…»
Mi manca l’aria. Sono stupida, a morire più velocemente. Keller me l’ha sempre detto.
«Crimini… degli altri.»
Una frase di senso compiuto. Spero che la capisca.
Dio, ti prego, fa’ che la capisca. Mi ritrovo a pregarlo solo quando ne ho bisogno, anche se è fuorilegge. Ormai qui sono abituati a far passare queste cose – anche perché abbiamo già ricevuto la pena capitale. Cosa ci può essere di peggiore? I nostri ultimi desideri devono essere regolarmente registrati per essere validi. Comprensibili a voce, noi che non possiamo più parlare.
«Paziente numero 254, Olsie Honecker. Ultimo desiderio consentito.»
Sì.
Sì, sì, sì!
…no. Vuol dire che invece del limbo, prima della mia ultima allucinazione, avrò la voce del professore ad elencarmi i crimini commessi da tutti i pazienti?
«Paziente numero 254, Olsie Honecker. Omicidio colposo.»
Ma quella non è la voce del professore; è femminile e stentorea, quasi robotica. Così sono la paziente qui da più tempo… ancora per poco.
Paziente… non sarebbe il termine più adatto.
La mia testa cade, come se avessero sottratto il piano d’appoggio. L’effetto graduale dell’iniezione sta accelerando.
I miei occhi si chiudono a forza, anche se le palpebre sono perforate da quella luce violenta. Sto per morire tra le allucinazioni.
Ho ucciso Keller e ne sto pagando le conseguenze. E dire che ho addirittura votato perché i condannati venissero utilizzati come cavie per la scienza… e voterei ancora.
Sono stati incubi e sogni, incubi e sogni, incubi e sogni.
Ho i piedi appoggiati su qualcosa di solido, ma non posso guardare il mio corpo. Cosa ci sarebbe da vedere, poi? Un mucchio di ossa, nervi tremanti e pelle all’estremo, però mi sarebbe piaciuto avere delle belle gambe.
Stoffa tesa.
È dello stesso rosa pallido del vestito dell’infermiera di prima. Tesa da due mani giganti, con delle unghie corte e mangiucchiate. Mi hanno sempre dato fastidio.
«Paziente numero 378, Lars Olsen. Sabotaggio ed intercettazione.»
Siamo tutti rinchiusi qua, noi giovani nemici dello Stato. Oppositori politici ed omicidi.
Il telo rosa si lacera e libera una cascata, una massa d’acqua schiumosa che si abbatte con violenza contro di me – eppure non fa male. Non mi piega né spezza. Forse quelle sono tutte prove, forse non sto morendo davvero.
Sarebbe stupido morire per un’iniezione appena più vicina al cervello del solito, no? Appena più vicina al cuore. Stupido cuore, non lo capirò mai. L’organo più egoista di tutti.
Era acqua, diventa sangue. Scuro e caldo e denso. Che noia. Il mio ultimo incubo prima di morire è di una tale banalità.
Un tripudio di pizzo. Merletti, orli ricamati e perle. Una cascata di trine – questo mi piace. Mi sono sempre piaciute le gonne di pizzo da indossare con le calze a righe e le scarpe da ginnastica. Keller mi diceva sempre che mi mancava il gusto, ma Keller è morta.
Però adesso la sto seguendo. La ritroverò? Cosa c’è dopo la morte? Sto per morire.
La seta ed il broccato sono ruvidi contro il mio corpo. Le perle rotonde sono fresche, invece, prima del pizzicore, simile al solletico, dei ricami. Sono inghiottita da una cascata di classe, ma mentre inizio a mulinare le braccia per liberarmi – ahia, inizia a fare male – vedo che tutto è denso come la pittura ad olio. Sembra che stia quasi nuotando nei dettagli, mentre li mescolo, perché ora si sono trasformati in qualcosa di morbido che non pizzica più.
Poi le vedo, le farfalle. Orde e sciami di farfalle azzurre, con le ali fatte di scaglie come i corpi dei pesci, e come le scaglie dei pesci sono iridescenti e sembrano intagliate nell’opale.
Cosa fanno? Dove vanno? Si dirigono verso di me?
«Paziente numero 390, Emil Laursen. Ricettazione.»
Avevo un amico di nome Emil. Le farfalle si diradano per lasciare il posto ad uno specchio ovale. Mi piace la cornice, è un drago di argento invecchiato, con la lunga coda nera che si attorciglia e s’incastona nel vetro. Perché i draghi non esistono? Perché non esistono le loro corna, i loro musi allungati, le zanne, gli artigli spessi e minacciosi?
Degli artigli possono essere minacciosi? No. Anche i cani hanno gli artigli.
La superficie vuota dello specchio d’increspa, come se una goccia fosse caduta ad infrangere la sua calma piatta. Le farfalle riprendono a svolazzare nel buio, mentre il vetro liquido cola con lentezza sul piccolo drago, immobile e stoico.
Non mi ero accorta avesse gli occhi chiusi. Aprili, ti prego. Voglio provare paura. Voglio provare qualcosa, qualsiasi cosa, non solo il desiderio.
Lui piega la testa, la immerge nel vetro denso e attraverso quella patina azzurra mi offre il profilo di scaglie – ed apre un occhio ed è un caleidoscopio.
Blu e verde e nero, forme geometriche si mescolano e si sovrappongono, come fiori spigolosi o decorazioni astratte, triangoli e cerchi e quadrati e rettangoli che si combinano.
Pentagoni ed esaedri e poi? Poi ruotano mentre l’indaco si fonde con il viola ed il blu notte, mentre lo smeraldo si scurisce e si vena di bianco.
«Paziente numero 391, Kris Holm. Violenza sessuale, omicidio, ideologia religiosa.»
Ma vedo quelle forme attraverso un vetro, attraverso due buchi. So di avere in mano un tubo zigrinato, in plastica. Cosa sto indossando? Cala il buio, come un sipario.
Scale, centinaia di gradini che come vermi spuntano dal nulla e salgono in obliquo. Ho addosso una maschera antigas. Respirare però non è più difficile del solito – dovrebbe esserlo, no?
Sto morendo, dopotutto. E se tutto questo fosse un sogno? Ma è un sogno.
E se anche la vera realtà, l’ora di collettività, la luce, il professore e Keller fossero un sogno? Se lo Stato fosse un sogno, se non avessi votato, se adesso fossi in un carcere normale… chissà quale sarebbe stata la mia punizione. Forse sarei uscita dopo un po’ di anni?
Vedo dei numeri che scorrono, luminosi, sulle lenti della maschera.

87tr 547590utn jf9ut40

Numeri e lettere senza senso.

U8973f nkces’0 perché non sono come te? 8rhf89huøivc

Keller me lo diceva sempre che qualcosa non andava, ma non mi diceva mai cosa. Aveva paura – non di me. Di cosa, allora? Non lo so. Ce l’ho sulla punta della lingua, eppure non riesco a dirlo.
Sì, perché lo voglio dire. Voglio morire parlando. Cantando. Mi piaceva cantare.
«Paziente numero 432, Agnete Bay. Infanticidio.»
Anche se sono stonata. Lo sono ancora, anche se non ho più la voce? O forse lo sono di più.
Questa ragazza ha ucciso un bambino. Riesco quasi a vedermela, bella come la bionda dell’iniezione di prima, con gli occhi ciechi invasi di sangue ed una gambotta piccola e grassa in mano, strappata al fratello. O al figlio? La sua pancia si gonfia, mentre il suo adorabile vestitino in seta rosa si stringe.
Attenta, bella ragazza cieca, stai per esplodere.
Mi sono sempre piaciute le esplosioni. Sempre piaciute.
Quand’è che muoio? O forse sono già morta e questa è la mia punizione. Forse questo è l’Inferno, rivivere le mie allucinazioni per il resto dell’eternità.
Quindi una persona buona, rivivendo di continuo la sua vita buona, inizia ad averla in odio? Tutti all’Inferno, tutti dannati.
Olsie, questa è la fine. Il corpo della ragazza si sta gonfiando sempre di più. Ha fatto cadere la gamba e si sta trasformando in una palla umana, con quattro corti arti grassocci.
Come un atomo, il protone ed i quattro elettroni. Come si chiamava quella configurazione?

È una madre che ha ucciso il proprio figlio, un po’ come lo Stato che ha ucciso me, ha ucciso lei, ha ucciso gli oppositori ed Emil e la ragazza con il naso arricciato.
«Paziente numero 434, Mia Gade. Terrorismo.»
E dire che ho votato a favore degli esperimenti sui condannati…
«Paziente numero 435, Erik Lyng. Cospirazione, complotto, fomentazione di guerra civile.»
E dire che ancora in questo momento sono felice che Keller se ne sia andata prima di me…


La citazione iniziale è di E. E. Cummings, la seconda di J. Ruskin, la terza di Socrate.
Questa storia è abbastanza nonsense. Ho deciso di provare ad esplorare il mondo allucinato di una condannata a morte in un ipotetica distopia danese. Solo perché i nomi danesi mi piacciono, sì :) anche se in realtà un senso c'è e ho cercato di trattare diversi temi. Tra il dire ed il fare c'è di mezzo il mare, però, tanto per fare come Keller.
   
 
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