Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Fusterya    08/04/2012    14 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bleeding in Baker Street
- JOHN -

Sono qui solo perché devo prendere delle cose.
Non sono cose importanti, non per me, ma ho trovato un'altra casa da tempo e non posso più pagarne due: Mrs. Hudson deve riaffittare, non può tirare avanti senza quei soldi. Ha aspettato, ha provato a supplicarmi in tutti i modi, ha promesso che mi avrebbe fatto pagare metà dell'affitto, tagliando anche lei delle presunte spese superflue, ma io non posso.
Non posso stare qui. Non più.
I mobili resteranno, non erano né suoi né miei.
Non sono nemmeno tutti di Mrs. Hudson, forse lei non ricorda nemmeno da quali e quanti inquilini si è formato quel caos incontrollato di poltrone, lampade, carte da parati, suppellettili messe insieme per caso ma non proprio senza senso, alla fine.
Io credo di non aver mai notato nemmeno il colore della cucina. Lui, invece, sono sicuro avesse ben registrato ogni più insignificante dettaglio: ogni remoto angolo di questa casa, ogni più insulso soprammobile, sono sicuro avessero la loro perfetta riproduzione nel suo palazzo della mente.
Io non avevo portato niente di mio, non avevo niente quando sono arrivato qui.
Non ho niente adesso che vado via.
Meno di niente.
Davanti al portone esito. Ho ancora la chiave, Mrs. Hudson non l'ha mai voluta indietro fino ad oggi, sperando che cambiassi idea. Guardo su e alla finestra non c'è nessuno.
Come potrebbe?
Una volta stava suonando vicino alla finestra con così tanta foga che, quando ebbe un'intuizione e volle comunicarmela in tempo reale, si girò di scatto e l'archetto mandò il vetro in frantumi.
Ecco, sorrido di nuovo. Durerà pochi secondi.
Giro la chiave nella toppa, contemporaneamente delle dita invisibili mi prendono per lo sterno e stringono forte.
Quella supplica che mesi fa gli ho rivolto davanti alla lapide è decisamente rimasta inascoltata.
Ferma tutto questo. Fermalo.
Non ha potuto.
Non ha voluto.
Apro ed entro. La penombra dell'ingresso e il familiare odore casa, quello proprio e definito che hanno tutte le case, mi investono con dolcezza, come se non volessero ferirmi, e invece mi feriscono.
L'odore, soprattutto.
Un misto di polvere, solventi, profumo di Mrs. Hudson, legno e moquette un po' consumata. Forse anche qualcosa di chimico in sottofondo. Chiudo la porta alle mie spalle e guardo le scale. Se ora ci fosse in sottofondo una musica drammatica, sarebbe una perfetta scena da film. E potrei anche sperare di salire e trovarlo seduto al microscopio.
Ma la risposta può essere una sola.
Salgo con passo stanco, aggiro il pianerottolo di Mrs. Hudson. Lei è via per qualche giorno, ho preferito non incontrarla: mi avrebbe supplicato ancora.
Ma io non posso.
Non.
Posso.
Dicono che le persone si attacchino agli oggetti per mantenere vivo il ricordo di qualcuno; c'è chi conserva intatti gli armadi, stanze che non vengono ripulite, riordinate… in cui non vengono rifatti i letti. Qui c'è una casa intera, invece, ed è troppo per me.
Non voglio cancellarlo, non è questo.
 Anzi, voglio conservare intatto, immacolato il ricordo di quei quasi due anni della nostra vita. Ma conservando anche la mia sanità mentale.
Guarderò cosa c'è da buttar via e domani tornerò con un furgoncino in affitto. Terrò solo poche cose, l'appartamento che ho trovato è davvero molto piccolo.
Arrivo alla nostra porta e la apro senza esitare, devo evitare di riflettere troppo, di soffermarmi sulle cose.

Ore dopo sono ancora qui. Non ho fatto niente di tutto ciò che mi ero ripromesso.
Sono entrato e mi sono guardato attorno, era tutto al suo posto, come se non fossimo mai andati via. Neanche Mrs. Hudson pare abbia mai avuto il coraggio di mettervi mano.
C'erano ancora delle tazze sporche di thé su un tavolino nel soggiorno, credo risalissero a quel giorno. Una era sua, ma quale?
Il divano coi cuscini scomposti, quello con l’immagine dell’Union Jack appoggiato a dun bracciolo, un po' schiacciato al centro... se lo avessi preso, forse ci avrei trovato dei capelli neri. Era là che si sdraiava per qualche minuto quando il suo grosso cervello carnivoro gli aveva consumato tutte le energie.
C'è la sua vestaglia blu a righini sulla spalliera di una sedia. Vorrei prenderla e annusarla, ma mi sento patetico e non lo faccio.
Di cosa potrebbe odorare dopo tutti questi mesi, se non di vecchio?
Carte, libri ovunque, giornali. L'attrezzatura scientifica. Tutto intatto e coperto di polvere. Non vado nelle stanze da letto, la mia è rimasta così, ho portato via solo dei vestiti in un borsone.
La sua non voglio vederla.
Mi siedo nella poltrona. Prima nella mia, quella lisa e gigantesca.
Guardo la sua, grande e nera, avvolgente e spigolosa, confortevole di seduta, scomodissima di spalliera: una sorta di gemella inanimata.
Mi alzo e mi siedo là, voglio guardarmi attorno dalla sua angolazione, dal suo punto di vista.
Il silenzio assoluto non si addice a questa casa.
Domani prenderò solo il violino e questa poltrona, nient’altro. Ma per adesso sto qui ancora un po'. Altri 10 minuti.
Lo prometto.

Ormai è sera inoltrata, è buio.
Sto al buio e voglio starci.
Ogni tanto i fari delle auto che passano in strada disegnano archi di luce sul soffitto, ma è tutto.
Non penso a niente, non faccio la carrellata dei ricordi… non serve, ogni istante mi compaiono negli occhi del flash di tutto ciò che ci è successo.
Respiro lentissimamente, come faccio da quel giorno, per cercare di tenere giù quello che potrebbe uccidermi.
Quella cosa là.
Cerco di tenerla sotto, di renderla impotente, come quando ti insegnano da soldati a gettare per terra il nemico e a tenerlo sottomesso, immobilizzato a terra con il tuo ginocchio sul suo collo.
Prima o poi le forze mi mancheranno, ne sono consapevole: i muscoli non avranno più energia, nè la mia respirazione lenta e controllata servirà a niente.
Quella cosa solleverà l’oscena testa in una frazione di secondo e mi strapperà via la carne.
Per adesso, reggo.
Sto pensando proprio a questo e salto letteralmente in aria quando squilla il cellulare, all'improvviso.
Avevo persino dimenticato di averlo, lo cerco nella giacca per farlo smettere, voglio silenzio, silenzio, sile…
Molly.
Non rispondo, guardo il display che illumina la stanza a quasi giorno e il nome di Molly Hooper lampeggiare nella schermata. Perché dovrebbe chiamarmi Molly? Oggi?
"Molly, ciao". Il mio è un sospiro, forse.
Anche lei esita, balbetta. La sua voce non è mai stata il suo punto di forza.
"John? Sei tu?"
"Non ci vediamo dal… da allora… come stai?"
Lei non risponde. Sta ansimando.
"John…."
"Molly, sono qui, io ti sento. Tu mi senti bene? Mi devo spostare?"
"John, sei a casa?"
"Casa? No… non sono a casa mia…sono..."
"Sei a casa a Baker Street?"
Credo di star facendo una delle mie facce da Sherlock.
"Io… sì. Sono qui…come fai a…"
"John, devo parlarti, ti raggiungo. Sono qui vicino." Lo dice a valanga, come se avesse fatto un grosso sforzo.
Mi sembra trafelata.
Sono davvero basito.  Forse è nei guai… ma come fa a sapere che…
"Molly, ti è successo qualcosa?"
"Devo assolutamente parlarti… arrivo lì, sono a cinque minuti"
"Ok… ok, sono qui, ti aspetto… Molly…"
Ma lei ha già chiuso.
Resto qualche istante a farmi mille domande, sono stranito, curioso… ma d'altro canto lei sarà presto qui e potrò chiederle come ha fatto a sapere… come diavolo ha fatto, se sono qui da almeno 3 ore e non ci sono mai venuto prima in tutto questo tempo? Mai?
Mi ha cercato altrove, prima?
Perché non chiamarmi, semplicemente, per chiedermi dove fossi?
“Tu lo avresti già capito” - gli dico.
Mi alzo in tutta fretta, accendo le luci, mi stiro un po' la giacca con le mani, provo ad andare in cucina per vedere se posso mettere su un po' di thè, fuori fa freddo, ma il bollitore è incrostato di calcare, le tazze sono tutte sporche e dal rubinetto esce acqua di un colore rossastro mai visto prima. Forse non è il caso.
Incrocio le braccia e aspetto, appoggiato al lavandino.
Il campanello suona simultaneamente.
Allora non era a cinque minuti, era qui sotto… Molly, ma che diavolo…???
Premo il bottone di apertura e sento che corre su per le scale, corre, corre. Molly che corre… la timida, prudente, silenziosa Molly…
Arriva su rumorosa, compare sulla porta trafelata e scomposta. E' pallida, spettinata.
Le vado incontro perplesso.
"Molly. Che è successo? Qualcuno ti segue? "
"John" ansima cercando di riprendere fiato "devo dirti qualcosa… qualcosa che devi sapere da me prima che tu lo sappia… in un altro modo"
"Entra, siediti" cerco di prenderla per un braccio e accompagnarla più all'interno dell'appartamento, ma lei si divincola.
"No, devo fare presto, John… io non so come farlo…"
La guardo adesso sì, preoccupato, molto.
"Qualcuno vuole farti del male? Come mai eri qui sotto? Come sapevi che io ero qui?"
"Perché c'è qualcun altro che sta venendo qui, deciso a dirti qualcosa! John…."
"Chi?"
"John, ascoltami" mi prende gli avambracci, me li arpiona letteralmente con le dita fredde, stringe forte, i suoi occhi sono supplichevoli "devi… devi essere ragionevole, devi… prima di qualunque reazione, devi ascoltare, mi devi credere. Sei disposto a credermi sulla parola?"
"… Molly, certo, ma cosa…?"
"Forse è meglio che ti siedi tu" fa per tirarmi verso la poltrona ma io resisto, lei cambia idea "ok, non c'è tempo..."
Mi ripianta in faccia quegli occhi spaventati, umidi... sta per piangere.
"John, tu lo sai come è fatto, di cosa è capace… lo sai?"
Vorrei parlare ma il mio cervello balbetta.
C'è qualcosa che non torna nei verbi che sta usando.
Resto in silenzio, lei respira rumorosamente, ha delle perline di sudore sulla fronte e sul labbro superiore, noto.
Poi riesco appena a sussurrare.
"Sherlock?".
"Ha voluto proteggerti, lo sai questo?"
"Sì"
"E non l'ha fatto solo… quel giorno… con quella cosa… lo ha fatto anche dopo."
Dopo? Dopo… come?
"Dopo? Dopo…come? Cosa?"
Ora lei sta cercando le parole, le sue labbra tremano.
La prendo io per gli avambracci, adesso.
"Molly… come? Ha lasciato qualcosa per me? Ha scritto… ha registrato qualcosa che non so? Ha fatto qualcosa che non so prima di quella… stronzata???"
"John, devi restare calmo e concentrato, o dopo sarà peggio" prova a contenermi, ma ormai è tardi, c'è qualcosa che non so.
C’E’ QUALCOSA CHE NON SO.
Cosa hai lasciato per me, Sherlock?
"Dopo cosa, Molly, cosa?"
"Ti ha protetto, ti ha protetto fino ad oggi! Sempre.. io non so come dirlo…."
"Molly, dillo e basta! Come mi avrebbe protetto fino ad oggi? Da cosa? E come?”
"Da sé stesso!" sbotta lei… e piange. "Da sé stesso, per non farti altro male… e poi ha deciso che non poteva più… poi ha deciso che era troppo, oggi… ma secondo me…"
"Ha deciso??? Ha deciso???"
Sto gridando? Sono io?
"HA DECISO QUANDO, MOLLY???? Che stai dicendo, Cristo! Che cazzo stai dicendo? Oggi?"
"John, non farmelo dire, arrivaci da solo, se ci arrivi da solo è meno terribile… non farmelo dire…" piange sconsolata, appoggia la fronte sulla mia spalla destra
"è colpa mia, non avrei dovuto dargli retta… l'ho aiutato io in quella cosa, è colpa mia… e avrei voluto dirtelo mesi fa come era andata veramente, per non vederti cadere a pezzi…. e anche lui cadeva a pezzi, ma me lo ha sempre impedito… diceva che era meglio così, doveva rimettere insieme le cose, prima… ricomporre tutto, aggiustare tutto come prima… e solo dopo… oddio…. oddio"
"Come… come è andata…. VERAMENTE?" ansimo.
Ansimo come un levriero dopo una corsa.
Mi manca il fiato.
"Cristo, io l'ho visto cadere, Molly!!! Che cazzo stai dicendo!" urlo e mi allontano, la respingo come se fosse infetta.
Lei singhiozza.
Io comincio a sentire dei pezzi che si incastrano nella mia mente.
Stridono e sbattono tra loro, come se non potessero mai e poi mai trovare una configurazione… e invece si incastrano.
Come è andata veramente… la riabilitazione… le inconfutabili prove che non fosse un truffatore, che Moriarty fosse davvero Moriarty… la campagna sui giornali… l'arresto di Kitty Riley…
I tardivi funerali di stato, appena due mesi fa.
Io in prima fila.
Il primo ministro che diceva solennemente "Glielo dobbiamo, tutto il Paese glielo deve"
Il principe Carlo in piedi ad un banco.
Il cuore mi sta strozzando la gola, mi prendo la testa tra le mani.
Ho capito solo adesso.
Ho capito.
Ho... capito?
"È vivo? è vivo… è vivo???? E' vivo, Molly?"
Lei piange e non riesce a parlare, ha le mani sulla faccia, vedo solo che annuisce con la testa… annuisce.
Annuisce.
"Oh, Gesù…" sento le ginocchia che si piegano. Come quell'altra volta, sul marciapiede.
Ma io devo sentirlo dire, devo sentire le parole precise.
Io l'ho visto cadere, l'ho toccato, gli ho preso la mano, ho visto suoi occhi spalancati… due vetri opachi, ho annusato il suo sangue…. gli ho sentito il polso... sono un medico, cristo santo!
Cristo santo… cristo santo…
"E' VIVO, MOLLY? DIMMELO!"
"SI'!" urla anche lei "e sono stata io… l'ho aiutato io…. dio, John…perdonami…."
"Come…. " Ho la testa tra le mani.
Me le porto sulla bocca senza voce.
"…."
"Volevo dirtelo prima… da mesi… ma non me lo ha lasciato fare"
"Perché…" barcollo verso la mia poltrona.
Cosa sta succedendo? Mi sento mancare fisicamente.
La pressione del mio sangue è crollata di colpo, se non mi siedo cadrò.
Ricado pesantemente sui cuscini.
Mi guardo attorno come se stessi annegando... guardo lei.
"Perché non te lo ha lasciato fare? Dov'è… dov'è Sherlock?"
Non posso credere alle mie stesse parole.
Dov'è Sherlock? Ora? Al presente?
Sta succedendo davvero? Non mi avranno mica drogato?
"Diceva che oggi era il giorno giusto, ti ha seguito, ti ha visto venire qui, non potevi dar via la casa….questo gli ha dato il segnale: ho dovuto impedire che ti si presentasse davanti come se niente fosse, era quello il suo piano… non so cosa gli abbia impedito di fermarti per strada ore fa... allora è venuto da me, era confuso... poi è voluto tornare qui e io non riuscivo più a trattenerlo"
Molly piange ancora.
O mio dio. Fatico a respirare, mi sta venendo un attacco di panico.
Non sono felice, sono terrorizzato.
Terrorizzato che sia una mia allucinazione.
"Non riesco… oddio…"
"John, respira, ventila…. respira lentamente" Mi viene vicino, si accovaccia accanto a me, mi accarezza una spalla.
"Perché non te lo ha lasciato… fare? Non resp… oh…dio… dov'è?"
"Voleva sistemare tutto. Rimettere tutto al suo posto… poi non ne ha avuto più il coraggio, fino ad oggi"
"Dov'è? Adesso? Chi altro lo sa… non riesco…"
"Mycroft"
"Ah!" rido, più che altro è un rantolo.
La riabilitazione pubblica. Era ovvio.
"Lestrade?"
"No. Nessun altro."
"Come… come avete fatto? Come avete fatto? Come? Come, Molly".
Il mio respiro è troppo veloce, non riesco a controllarlo, l'aria che entra nei polmoni non basta, ho la vista annebbiata.
comeavetefatto? comeavetefatto? comeavetefatto?
Io ero lì. Io ero lì.
Ma ora che importa? Cosa può importare, adesso?
Mi sento sospeso su un cavo a 300 metri da terra.
E' solo adesso che capisco la portata di quello che mi si è rivelato.
Posso vederlo. Posso toccarlo.
Figlio di puttana!
La sua voce. Voglio sentirgli dire il mio nome.
"Dov'è?" fisso Molly e, da come trasalisce, credo di avere gli occhi del pazzo.
"Voglio vederlo… dov'è?"
"In strada" risponde lei dolcemente, finalmente più calma "è qui sotto… siamo venuti insieme, è dall'inizio del quartiere che gli corro dietro, voleva salire e… non so… fare cosa. Fare cucù. Come se niente fosse. Avresti avuto un infarto, qualcuno doveva preparati, prima."
Perdo di nuovo qualche battito cardiaco.
E' qui sotto.
A tre, quattro metri lineari da me.
Mi alzo di scatto, lei mi trattiene per un braccio.
"Se mi mostro alla finestra, salirà: è il nostro accordo"
Sento uno scricchiolio nel legno alle nostre spalle e non ho il tempo di dire a Molly che è troppo tardi, che non c'è bisogno che lei si mostri alla finestra.
Mi giro piano, lo guardo stagliarsi sulla soglia della porta come se non fosse mai accaduto niente.
Era morto cinque minuti fa, era morto da quasi 11 mesi, e adesso è vivo.
Come nei libri, come nei film.
E' vestito di nero, come sempre. Il cappotto è nuovo.
Perché sto notando questa cosa adesso?
"John" dice lentamente, solenne. Io chiudo gli occhi. Quando li riaprirò non sarà più là, sto immaginando tutto.
Anche se sento ancora la mano di Molly sull'avambraccio.
Li riapro ed è lì.
L'espressione contrita, come quando lo rimproveravo per aver fatto una gaffe di cui non si sarebbe mai reso conto senza di me.
Gli occhi trasparenti.
Non posso proprio muovermi, parlare.
Le labbra si aprono… rimangono mute.
Si avvicina, forse vorrebbe corrermi incontro ma si controlla, lo vedo da come contrae le dita in due pugni nervosi; in qualche secondo appena riesco a far scorrere i miei occhi su tutta la sua figura, dall'alto in basso, dal volto pallido alle scarpe scure, e poi di nuovo su, fino a che me lo ritrovo davanti, gli occhi cristallini piantati nei miei.
Appena un po' arrossati agli angoli interni.
Sento l'odore familiare.
E non riesco ancora a parlare.
Avverto la presa di Molly allentarsi, esce dal nostro spazio, mi lascia da solo.
"John" ripete lui.
La sua voce mi rimbomba dentro come un'eco ancestrale, guardo in alto oltre la sua spalla e penso "forse sono morto anche io… oggi pomeriggio su questa poltrona".
Che pensiero cretino.
Mi abbraccia, forte. Affondo il viso sul collo del cappotto nuovo, investito dall'odore mi è mancato così tanto.
Vorrebbe che lo abbracciassi anch’io, lo capisco da come stringe.
Sento dolore, disperazione.
Ma le mie braccia rimangono lunghe sui miei fianchi.
Mi respira sulla spalla.
"John. Mi dispiace. Perdonami".
Lui che non sapeva usare questo tipo di parole, lui che non amava essere toccato da nessuno.
"Perdonami".
"Sherlock". Il mio è appena un sussurro.
"Sherlock" ripeto.
Lui stringe più forte. Finalmente alzo le braccia e lo abbraccio anch’io, con tutta la forza che ho.
Sono sempre stato un uomo riservato, in una maniera diversa ma nello stesso tempo simile alla sua.
Io, quello falsamente cauto, ingannevolmente moderato.
Apparentemente controllato.
John, tu sei il mio freno a mano, mi diceva. Tu mi dai degli argini.
Il mio argine si rompe adesso.
Singhiozzo come un bambino di pochi anni, un bambino che qualcuno ha perso e qualcun altro ha ritrovato.
Lui mi tiene come se stessi cadendo. Come se io cadessi al posto suo da quel tetto e lui stesse venendo con me.
Giù, insieme.
"Sherlock…"
"Lo so, John… mi dispiace"
Non voglio chiedere niente, né come abbia fatto né perché, non adesso.
In altri momenti pericolosi, drammatici…oh, quanti ne avevamo passati insieme!, uno dei due avrebbe fatto una battuta qualunque e l'altro l'avrebbe colta al volo.
Avremmo riso.
In un libro qualunque scritto su noi due ci sarebbe stata dell'ironia, anche in un frangente disperato, ma adesso non era possibile.
Semplicemente dovevo piangere in quel modo, come non avevo fatto in 11 mesi di lutto, nemmeno quando ero da solo e nessuno poteva vedermi: ero sopraffatto e basta.
Indifeso.
Inerme.
Mi lascia il tempo di sfogarmi, non so quanto passa, ma mi rendo conto che, quando distolgo la faccia, il suo cappotto è bagnato fradicio.
Allento le braccia, lui allenta le sue, ci guardiamo. Ha gli occhi umidi anche lui. Per la prima volta in vita mia, lo vedo con il volto bagnato, il naso rosso.
Vorrei dire qualcosa che spezzi tutto questo... dolore con uno schiocco secco, qualcosa che faccia ricomparire per magia- sì, esattamente una magia come quella che si è compiuta adesso- la nostra vita di prima.
Vorrei che la polvere si sollevasse da tutti questi oggetti, che la sua vestaglia avesse di nuovo un odore, che la vita riprendesse esattamente da dove eravamo rimasti.
Ma ora il dolore, quello pesante e viscoso, quello che si è rintanato dentro di me come un parassita e mi si è appiccicato alle pareti dello stomaco, si muove e mi dà un brutto colpo di coda.
“E adesso te ne puoi anche andare” gli dico fissandolo in quegli occhi arrossati che sembrano pozzanghere dopo un brutto temporale.
Lui volge lo sguardo in terra, poi di nuovo a me.
“Mi aspettavo che non l’avresti presa bene” mormora “Prenditi tutto il tempo che vuoi, davvero... io capisco”
“No...” quasi mi viene da ridere, ma una mezza risata così grottesca io non l’ho mai sentita “no, tu non capisci. Tu non hai la minima idea di quello che mi hai fatto.”
Mi guarda disperato.
Disperato.
Ha le labbra strette, livide. Le sue iridi azzurre... verdi... ma che colore è? Dio, lo avevo quasi dimenticato, quel colore... mi fissano cercando di aggrapparsi alle mie.
Mi sta dicendo che sta per saltare di nuovo.
Ma io stasera non lo fermerò.
Mi muovo e gli passo davanti, vado verso la porta e mi sembra di sanguinare.
Ho gli occhi stretti perché non riesco a fermare queste lacrime maledette.
“John... John, ti prego!”
Mi fermo davanti a Molly, che mi guarda affranta e mi fa cenno di no con la testa, ma io non posso.
Io e lei ci guardiamo e mi sembra tutto quasi comico. Una soap opera di bassa lega.
“John... per favore” Sherlock mi chiama da dietro le spalle.
La sua voce è incrinata.
Io non smetto di guardare Molly.
Ho desiderato questo momento a costo della mia vita, avrei voluto morire mille volte per vivere questo istante anche solo per venti, trenta secondi, e ora che il destino ha deciso di regalarmelo, io non lo voglio.
Non lo voglio.
“Non ho mai contato niente per te” dico a Molly, ma non è per lei. Ho la voce roca, mi devo schiarire la gola.
“Non ho mai significato niente. Adesso lo so.”
“Non è vero” si difende “questo è ingiusto... non è vero, John!”
Molly mi stringe le mani, forte. Si sporge con delicatezza verso di me e mi dà un leggero bacio sulla guancia.
“Perdonalo” dice in un soffio “non sai ancora tante cose”.
Poi mi lascia e corre via, non saluta neanche lui. La vedo scendere per le scale un po’ scoordinatamente, vedo che si asciuga la faccia con la manica dell’impermeabile, poi sparisce dietro la curva della prima rampa.
Faccio un passo anch’io.
“John... non è vero, ho dovuto, aspetta...” mi implora.
Sherlock che implora.
“E’ stata l’ultima che mi hai fatto, Sherlock. Moriarty aveva ragione. Un animale domestico, niente di più.”
Non ce la faccio più a parlare.
Mi giro a guardarlo l’ultima volta.
E’ fermo in mezzo alla stanza, piange in silenzio ma come un bambino, i pugni stretti lungo i fianchi e testa abbassata.  
E io mi sento esattamente come quel giorno su quel marciapiede.
Avverto quella stessa orribile sensazione di definitivo, ma io ho bisogno di salvare la mia, di vita.
O quello che ne resta.
“Sono contento che tu sia vivo” gli dico piano “E’ bellissimo sapere che sei vivo, ma devi esserlo lontano da me. Se ho mai significato qualcosa... non devi farti vedere mai più.”
“No, non lo farò” si riscuote, si raddrizza nelle spalle, mi guarda con quello sguardo che conosco bene, quello di quando ha deciso qualcosa.
E quel qualcosa, in un modo o nell’altro, sarà.
“Non finché non avrai sentito tutto quello che c’è da sentire, non avrai saputo tutto quello che c’è da sapere, ti avviso.”
Si passa il dorso della mano velocemente sotto gli occhi, tira su col naso.
Mi scappa un sorriso amaro.
Dio, è meraviglioso guardarlo. Vedere che è lì.
Ma in questo momento, semplicemente, non posso.
“Avrei voluto sapere solo una cosa, ed è proprio quella che non mi hai detto in tutto questo tempo. Avrei...” mi si spezza di nuovo la voce “avrei voluto sapere che ero tuo amico e che ti fidavi di me. Non avrei dovuto essere parte di una delle tue... macchinazioni, mai. Mai, Sherlock.”
“Saresti morto! Ti avrebbe ucciso!” mi risponde disperatamente “Cosa avrei fatto se fossi morto, John?”
Capisco profondamente la sua frustrazione ma sento che la cosa non cambia nulla, per me.
“E’ sempre la stessa storia... riguarda sempre te.”
Mi giro di nuovo, adesso devo proprio andarmene.
Devo... assorbire.
Devo processare.
Devo dormire.
Non lo so.
“Ok, ok, allora sii arrabbiato, insultami...” mi viene vicino, vorrebbe forse prendermi per le braccia, scuotermi, si vede chiaramente che è fuori di sè “fai tutto quello che devi fare, ma non pensare neanche per un attimo di dirmi seriamente che non devo più cercarti”.
Resto in silenzio.
“Non lo fare.” Mi supplica.
Respiro profondamente.
Non mi sento bene.
Pensavo che avrei fatto mille cose, che l’avrei preso a pugni, che avrei urlato... invece mi sento svuotato, privo di ogni volontà.
Voglio solo continuare a piangere, da solo.
Devo ricacciare dentro il mio lutto, il mio terribile stato di abbandono.
“Mi hai abbandonato quando sei morto e mi hai abbandonato quando hai scelto di non dirmi che eri vivo. E’ troppo da sopportare.” gli confesso.
Dalla sua faccia, comprendo che per lui dev’essere una verità devastante.
Resta zitto, non riesce a ribattere niente. Mi fissa imbambolato.
Credo che stia finalmente realizzando, con una lentezza davvero inusuale per lui, quanto male abbia fatto e quanto un essere umano sia capace di essere ferito.
E io sono felice che stia soffrendo.
“Ti volevo bene” affondo senza pietà “te ne voglio. Eri... sei il mio migliore amico. Ma adesso stammi lontano.”
Poi mi giro davvero e mi incammino verso le scale.
“Adesso?” sento l’eco della sua voce malferma “Hai detto adesso. Va bene, adesso lo farò, ma solo adesso, John. Ascolta quello che dico.”
So che intende proprio questo.
E che non mi libererò mai di lui, per quanto io in questo momento lo desideri con tutte le forze... per puro istinto di sopravvivenza.
Mentre scendo le scale aumento l’andatura, verso la fine mi metto quasi a correre, lui non mi insegue, resta lì da solo con la sua angoscia come ho fatto io in questi ultimi mesi.
Mi sento strappare la carne dallo stomaco.
Mi avvio a passo veloce nella strada buia, fa un freddo cane, cerco di asciugarmi gli occhi come posso, ma non si asciugano, proprio non ce la fanno.
Cosa ho fatto?
E’ tornato, e io l’ho respinto.
E quando arrivo quasi di corsa all’angolo della strada, lo giro e mi fermo per appoggiarmi al muro, senza forze. Ho il fiatone, non riesco a contenere tutta questa emozione.
Non sono lucido.
Cosa ho fatto?
Ed ecco che sento il cellulare vibrare nella tasca, appena due ronzii contro la mia anca sinistra.
Lo tiro fuori con le dita ghiacciate e cerco di guadare il display attraverso gli occhi appannati, ma già so chi è il mittente.
- Non ti darò tregua - SH.  
Mi viene da ridere, sembra una minaccia da arcinemico.
Poi il dolore mi sopraffà un’altra volta.
Come hai potuto farmelo, Sherlock?
Come hai potuto abbandonarmi così?
Ridurmi all’ombra di me stesso?
Non rispondo, rimetto il cellulare in tasca e mi incammino di nuovo.
Rido e piango, la gente che mi incrocia penserà che sono malato.
La mia vita è di nuovo sfigurata, deformata, sull’orlo della follia, e io ci sto annegando ancora dentro, un’altra volta, per colpa di Sherlock Holmes.
Sono furioso.
Distrutto.
Assolutamente deciso.
Ma dentro di me - nel profondo- io lo so che alla fine, fosse anche tra mille anni, l’avrà vinta lui.
Come succede ogni fottuta volta.
  
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