Le mie fanfiction sono: “Sul
pianeta Vegeta” ( feb. 2002), “Amore immolato” (2002), “Calando la notte”
(sett. 2003), “Salto nel vuoto” (giugno 2005). All’estate 2006 appartengono, in
ordine cronologico: “Ritratto di signora”, “E fu il principio”, “E poi passione”,
“Infine fu l’orgoglio”, “Scherzi del tempo”, “Funny games”, “Per la prima ed
ultima volta”, “Gravity room”(sett. 2006).
Convivendo in… capsule
Balzò a terra dal davanzale ed i piedi produssero sul pavimento lucido un calpestio limaccioso.
Quando si chiuse la finestra alle spalle, le tende smisero di agitarsi e la stanza, lasciata in balia della brezza autunnale per tutto il giorno, ritrovò d’un tratto la quiete, come se il bisbiglio del vento tra i rami degli alberi e lo strascico metallico di alcune lattine sull’asfalto fossero cessati d’incanto.
Ai piedi dell’armadio il vento aveva portato delle
foglie tinte di giallo, come se non bastasse il terriccio che si scrollò da
dosso ed il fango che portava sotto le scarpe.
La sponda del letto cigolò quando si lasciò cadere a
peso morto e si gettò con la schiena all’indietro.
Con un braccio si riparò la vista dalla luce a neon del soffitto, intorno alla quale una cimice verde imprigionata dietro i vetri della finestra era accorsa di richiamo.
La divisa lasciava intravedere in più punti molti
centimetri di pelle, laddove non era il fango a ricoprirla.
Il pendio della montagna contro cui si era andato a
schiantare era letteralmente franato sopra di lui.
Il terreno gli era entrato fin nelle narici e tossì ancora
convulsamente mettendosi su di un fianco.
La radura selvatica nelle lande disabitate in cui andava ad allenarsi ogni giorno aveva una fenditura profonda che si andava allungando man mano che cresceva la sua energia spirituale.
Le rocce circostanti ormai si frantumavano senza
subire traumi diretti, come fossero state fatte di sabbia, al suo solo respiro.
Maledisse il nome di Kakaroth, e lo avrebbe
maledetto ogni giorno, fino al suo ritorno dall’altro mondo, quando con i suoi
stessi occhi lo avrebbe visto ammantarsi d’oro in tutta la sua potenza.
Era soltanto per questo che era rimasto: per vedere
la leggenda, per misurarsi, per sconfiggerlo.
Si mise a sedere, tossì ancora, e poi si alzò
malfermo.
Le lenzuola ora erano insudiciate di fango e dove si
era disteso, all’altezza della spalla, risaltava una chiazza vermiglia.
Si avvicinò allo specchio e si girò per valutare
l’entità della ferita.
Spostò il lembo strappato e vide che essa era
profonda ma non tanto da lasciare sulla cute l’ennesimo sfregio.
Quella che era irrecuperabile era la sua divisa.
Se la sfilò non senza difficoltà, perché con il
sudore aderiva sul corpo come una seconda pelle.
Era quella che aveva indossato su Namecc e non aveva
altro.
L’unico abbigliamento terrestre che aveva accettato
di indossare da tre mesi che era sulla Terra era quel pantalone nero adagiato
sulla sedia, comodo e largo.
Era il pezzo di una tuta leggera che gli era stata
lasciata un giorno sul letto, ma la parte di sopra non l’aveva mai indossata.
Per gli allenamenti occorreva qualcosa di più
resistente.
Forse la terrestre che gli aveva dato alloggio
avrebbe potuto costruirgli una divisa di quello stesso materiale spaziale, se
glielo avesse chiesto.
Linguacciuta e spavalda al suo cospetto fin da
quando l’aveva conosciuta, stranamente non si era mai tirata indietro quando si
trattava di fargli un favore, il tutto di sua spontanea volontà.
Di certo lui non aveva fatto nulla per guadagnarsi
ospitalità da quella gente, a parte aver tolto la vita a qualcuno dei loro
conoscenti più stretti e giurare ogni giorno che dopo Kakaroth avrebbe fatto
fuori tutti quanti lo stesso, perciò aveva finito per credere che tanta
gentilezza fosse l’ipocrita premeditazione di ingraziarselo per mettersi in
salvo almeno il proprio sedere.
Senza quella divisa non gli restava altro che
allenarsi con la nuda pelle, tanto dove andava non strisciava più neanche un
verme.
Andò in bagno e si chiuse nella cabina della doccia.
L’acqua lo avrebbe rigenerato: la desiderava come un
assetato nel deserto.
Si sentì solo un gorgoglio nelle tubature ma non
venne giù niente.
“E questo cosa significa…?” imprecò muovendo invano
anche l’altra manopola, quella dell’acqua fredda.
Andò ad accertare se fosse servibile almeno il
lavandino ma il rubinetto produsse lo stesso gorgoglio di vuoto.
Afferrò con rabbia un asciugamano, se lo mise
intorno ai fianchi e lasciò la stanza con una direzione ben precisa.
Senza esitazione spalancò la quarta porta che
affacciava sul corridoio prima della sua:
“Si può sapere perché il mio bagno ha smesso di
funzionare?!”.
Bulma, davanti allo specchio, restò con il pettine
in mano.
Terminata la sua giornata di lavoro nei laboratori
sul retro della casa, aveva fatto un bagno caldo ed indossato il pigiama, uno
di taglio maschile, con una misura in più della sua, che alle generosità della
sue forme non aggiungeva niente, piuttosto la riduceva in una sagoma spiegazzata ed un po’ goffa.
La sorpresa per quell’intrusione durò alcuni battiti
disorientati di ciglia prima di commutare in un’arricciatura irritata delle
labbra:
“Toc… toc…” agitò un pugno nell’aria “si fa così
quando si entra nella camera di una signora, evidentemente da dove vieni le
porte non esistono visto che per entrare e per uscire ti servi solo delle
finestre”.
“Da dove vengo io quelle come te non si chiamavano
signore e la bocca non l’aprivano per parlare…” replicò fermo sulla soglia con
tutto il suo disprezzo.
Bulma si voltò e con noncuranza tornò a spazzolarsi
i capelli davanti allo specchio:
“Fortunatamente io vivo in un posto migliore del
tuo, e tu dovresti non dico… integrarti… perché è assolutamente impensabile che
certi tipi di animali ci riescano, ma almeno imparare alcune regole minime di
convivenza, visto che oltre la coda un po’ di cervello suppongo tu l’abbia”
alle sue spalle vide l’espressione dell’uomo farsi più truculenta.
Si voltò ed incrociò le braccia, disposta finalmente
ad ascoltarlo:
“Allora, di cosa sei venuto a lamentarti?”.
Vegeta disse che era rimasto senz’acqua.
La vide entrare nel suo bagno e da lì sentì che l’acqua
gorgogliava in abbondanza:
“Da me è tutto normale, non so cosa sia potuto
succedere in camera tua , ormai è tardi, domani farò venire un idraulico”.
Vegeta restò ancora lì senza che quel piglio feroce
si riducesse di una grinza.
Si aspettava che ella aggiungesse altro ed invece
l’osservò aprire l’armadio e tirare fuori una coperta che poggiò sul letto,
come se egli fosse stato un fantasma:
“E con questo?! Pensi che possa aspettare fino a
domani ridotto in queste condizioni?!”
“Non sia mai…” storse il naso e se lo tappò “ti
sento fin qui… puoi servirti del mio bagno, c’è tutto quello che serve, fai
pure con comodo, ti lascio da solo… io vado a mettere qualcosa sotto i denti”
gli fece cenno di entrare.
Il saiyan restò un istante diffidente.
Tra insulti reciproci quella terrestre alla fine
riusciva sempre a sorprenderlo per quegli slanci di altruismo improvvisi.
Percorse con i piedi nudi la moquette in direzione
del bagno e quando le ebbe rivolto la schiena si sentì dire:
“Ma la tua spalla sta sanguinando” il sangue colando
aveva finito per inzuppare l’orlo dell’asciugamano che gli cingeva i fianchi
“lascia che gli dia un’occhiata, vado a prendere del disinfettante”
“Non ho bisogno di niente!” e le chiuse la porta
diritto in faccia.
Bulma sospirò rassegnata, ma sulle labbra senza
rossetto sbocciò un sorriso ugualmente compiaciuto: l’immagine del principe dei
saiyan con addosso solo un asciugamano aveva già azzerato tutto quello che di
spiacevole si erano detti pochi attimi prima: aveva sentito nelle viscere un
inspiegabile guizzo conturbante quando egli era apparso d’improvviso, sudato,
sporco, arrabbiato e… senza vestiti.
Non era possibile provare qualcosa di simile e
tenere sopra la scrivania quel calendario con i giorni trascorsi calcati di
rosso vivo: un mese mancava all’invocazione del dio drago e Iamcha, il suo
fidanzato, sarebbe ritornato in vita insieme a tutti gli altri.
* * *
Il bagno di Bulma aveva le pareti rivestite di marmo
rosaceo e in un angolo padroneggiava una vasca dalla forma semicircolare.
C’era ancora la condensa sui vetri della finestra e
si sentiva l’aroma muschiato del bagnoschiuma.
Vegeta optò, senza pensarci due volte, per la doccia
costruita nel muro opposto.
Non si era mai servito di una vasca di lusso in vita
sua, solo lavaggi sbrigativi per lavare via il sangue dei nemici, se non era
già guizzata ad assaporarlo la sua lingua ignominiosa.
L’acqua che si raccolse ai suoi piedi si tinse di
rosso insieme alla schiuma del sapone.
Nelle tubature finirono la polvere, il fango, il
lerciume dei suoi pensieri.
Quando mise i piedi sul tappetino di gomma fuori la
doccia, l’acqua sul suo corpo vaporizzò per un incremento lieve dell’aura.
Dopo che la terrestre aveva lasciato la stanza,
Vegeta era ritornato indietro per recuperare alcune cose personali.
Strofinò lo specchio appannato, si accertò che la
ferita sulla spalla avesse smesso di sanguinare, poi raccolse della schiuma da
barba in una mano e la passò sulle mascelle spigolose e volitive.
Lo fece con lentezza, come indolente era stata la doccia
a cui si era abbandonato, dimenticando che la toilette di cui si stava servendo
non era quella di suo uso personale, tanta era la stanchezza accumulata e la
speranza di rigenerarsi attraverso quel momento intimo e privato.
Il fatto che la porta del bagno fosse chiusa a
chiave lo aveva indotto infine a rilassarsi e a prendersela con comodo, come
appunto era stato invitato a fare.
Mentre la lama del rasoio scivolava con cautela
lungo il mento, la sua attenzione fu attirata da un mucchio di abiti gettati a
terra in un angolo, non lontano dai suoi piedi.
Bulma era uscita dal bagno senza preoccuparsi di
sistemare quello che si era tolta da dosso, abituata prima ad ungersi di creme
idratanti e a sciogliere i nodi dei capelli.
Lo sguardo si spostò più in alto.
Al posto di
un asciugamano pendeva un coordinato intimo di pizzo nero.
Vegeta restò con la lametta sospesa a pochi
centimetri dal volto ed il sopracciglio corrugato.
Certo che le donne che aveva conosciuto lui, sotto i
vestiti, non nascondevano niente di simile.
Allungò il braccio istintivamente e tastò sotto i
polpastrelli la stoffa ricamata.
Non aveva mai considerato quella terrestre da questo
punto di vista, come un potenziale oggetto del desiderio, e non a caso la prima
volta che l’aveva vista su Namecc le aveva dato meno anni di quanti in realtà
ne avesse.
Gli era sembrata solo una ragazzina di cui
sbarazzarsi e niente di più.
Da quando dimorava sotto il suo stesso tetto, ella
era diventata la terrestre che gli aveva dato vitto ed alloggio gratis, la
scienziata amica di Kakaroth che sapeva usare le sfere del drago e calcolava i
giorni che mancavano al loro ripristino con cadenza quotidiana, la bisbetica
con cui scontrarsi e scambiare battute velenose.
Niente altro.
Delle donne Vegeta sapeva quel che bastava: un paio
di gambe tra cui sistemarsi solo quando certi bisogni, spinti all’estremo della
sopportazione, costringevano a fare come gli animali.
Ora, Bulma era una donna che usava un bagnoschiuma
di aroma diverso da quello che era stato dato a lui, più schiumoso e vellutato
a contatto con la pelle, che sulla mensola vicino allo specchio aveva esposto
delle boccette di profumo di dimensioni varie ed un barattolo di crema
dall’effetto rassodante, indossava merletti seducenti di colore nero, ed oltre
i vestiti a terra, aveva dimenticato vicino al rubinetto del lavandino un
assorbente accartocciato con l’orlo sporco di mestruo.
Bulma Brief adesso era anche questo.
Ma il suo nome non lo aveva imparato ancora,
sembrava lo facesse per dispetto, quantunque gli fosse stato scandito a sillabe
non una ma molte volte.
Non aveva ragione di rammentarsene, tanto sarebbe
morta insieme a tutti gli altri, allorquando, sconfitto Kakaroth, avrebbe
cancellato la Terra dalle mappe spaziali.
O forse, per la soddisfazione della vittoria si
sarebbe potuto anche mostrare magnanimo ed allora l’avrebbe risparmiata insieme
a tutti gli altri abitanti, ma anche in questo caso il suo nome continuava a
non interessargli perché sarebbe andato via per sempre ed ella nei suoi ricordi
non sarebbe stata più di un misero granello di sabbia, uguale e piccolo come
tutti gli altri.
Tutto questo osservò il principe dei saiyan, senza
scomporsi.
Si sciacquò il viso con acqua fredda e si guardò
intorno alla ricerca dei suoi pantaloni, quelli comodi e larghi, che aveva
portato dalla sua stanza insieme al rasoio e alla schiuma da barba.
Si ricordò di averlo lasciato sul letto della
terrestre nel momento in cui era ritornato, quando l’almanacco sopra la
scrivania, contrassegnato da tante croci di colore rosso, aveva richiamato la
sua attenzione e si era messo a sfogliarlo per accertarsi che coincidesse con i
suoi calcoli mentali, essendo il calendario terrestre sfasato di alcuni mesi
rispetto a quello cui era abituato.
Aprì con disinvoltura la porta del bagno, senza
preoccuparsi di coprirsi, giusto un attimo per infilarsi l’indumento, ma
davanti si ritrovò proprio lei.
* * *
Bulma aveva ingaggiato una lotta a suon di
pantofole:
“Dannazione! Esci subito fuori! Chi ti ha dato il
permesso di girartene indisturbato in casa mia?!”.
Non poteva tollerare che un intruso qualunque si
prendesse gioco di lei.
“Guarda che non voglio farti del male!”.
Scommetteva che stesse facendo i suoi comodi in
quella stanza già da un bel pezzo di tempo.
Corse d’un tratto ad aprire la finestra e subito la
richiuse.
La cimice verde che produceva un fruscio secco sotto
la luce a neon fu libera finalmente di volarsene via.
Bulma recuperò la pantofola e la rimise al piede.
La soddisfazione per non essere ricorsa all’arma
estrema con quell’insetto maleodorante durò il tempo di spostare lo sguardo sul
letto insudiciato di Vegeta.
Per un istante pensò che un animale di dimensioni
più grandi fosse penetrato in quella stanza e si fosse ruzzolato sulle
lenzuola.
Ma un animale non lasciava sul pavimento impronte di
scarpe né una divisa ridotta a brandelli, a meno che non avesse una coda recisa
e venisse da un altro pianeta.
Sradicò le lenzuola dal letto come fossero state
erba maligna.
Altro che principe!
Quel saiyan non aveva niente di regale nei
comportamenti!
Non aveva idea di cosa fosse sparecchiare una tavola
o quanto meno mantenere un letto pulito e rassettato.
Era sicura che se non fosse entrata a dare
un’occhiata al suo bagno si sarebbe infilato tranquillamente tra quelle coltri
imbrattate di fango e di sangue.
E poi ci teneva pure a farsi la doccia!
Aprì l’armadio ed un senso di desolazione l’investì
in pieno.
Le grucce sistemate in linea si confondevano con il
pannello interno del guardaroba.
Non c’era niente che appartenesse a lui, che
risaltasse su quelle stampelle come nel resto della stanza.
Solo una divisa ridotta a brandelli ed un paio di
stivaletti gettati in un angolo.
Nessun oggetto personale, un ricordo dell’infanzia e
della sua patria, oppure un cimelio, fosse anche venuto da un pianeta lontano e
depredato.
Non aveva niente.
Il passato riviveva solo nei suoi pensieri e si
manifestava nell’odio e nel cinismo che non erano più gli stessi di un tempo,
ma si erano acuiti nella nuova ed inammissibile consapevolezza di possedere dei
limiti.
Di lui continuava a sapere molto poco.
La convivenza non aveva migliorato il suo carattere
misantropo e selvatico.
Bulma aveva capito che neanche una vita intera, pur
trascorsa sotto quello stesso tetto, avrebbe potuto scalfirlo.
Vegeta ritornava a sera solo per avere un pasto
decente ed un letto in cui dormire.
I namecciani che alloggiavano nell’accampamento
costruito in giardino si erano meravigliati molto di sapere che il temuto
saiyan era più vicino a loro di quanto credessero, perché della sua presenza
non avevano avuto neanche il sentore più lieve.
Bulma non aveva dato ospitalità a Vegeta per
mettersi in salvo il sedere, come pensava il saiyan, ma perché aveva una
predisposizione innata per il pericolo, perché era matta, esibizionista, sfrontata,
una sciocca a pensare di poter trarre qualcosa di buono da lui.
Questo avrebbero pensato di lei i suoi amici
ritornati in vita, a meno che nell’aldilà non si fossero guadagnati un posto in
prima fila sulle vicende terrene.
Il pensiero che i morti potessero addirittura
leggere nei meandri della coscienza la rendeva in qualche modo inquieta.
Era certa che solo Goku non si sarebbe scandalizzato
per la sua audacia, perché era un tipo ottimista e ad ogni nemico aveva sempre
concesso una seconda possibilità.
Solo dal fondo trasse alcune coperte pulite,
riservate già a quella stanza e all’ospite che ne avrebbe usufruito a
prescindere dall’attuale occupante.
Foderò il letto con le lenzuola dal profumo di
lavanda ed aggiunse una trapunta dai disegni geometrici.
Al lavaggio della biancheria sporca avrebbero
pensato i robot delle pulizie l’indomani.
Per il momento si limitò a raccoglierla storcendo il
naso, ed andò a cestinarla nell’apposito contenitore in bagno.
Qui si ricordò della ragione per cui era entrata in
quella stanza.
Mosse la manopola dell’acqua e scoprì che questa
fuoriusciva regolarmente.
Fece spallucce e se andò via: era un ingegnere, mica
un idraulico!
Quando fece ritorno nella sua camera vide che la
porta della toilette era ancora chiusa, ma da dietro non proveniva alcun
rumore.
Forse Vegeta era andato già via e non si erano
incrociati.
Lo sperava vivamente perché aveva voglia soltanto di
mettersi sotto le coperte e trovare una posizione comoda che alleviasse quelle
contrazioni dolorose che aveva al basso ventre.
Si avvicinò per bussare alla porta quando questa si
spalancò all’improvviso.
Si coprì gli occhi con entrambe le mani:
“Dannazione, donna!” gli sentì dire da dietro
l’uscio prontamente accostato “e tu eri quella che voleva insegnarmi le buone
maniere per entrare in una stanza?!”.
Venne fuori con l’asciugamano cinto ai fianchi, uno
pulito che aveva afferrato al volo dall’armadietto vicino alla vasca.
“Guarda che io sono semplicemente entrata nella mia
stanza, sei stato tu ad aprire in modo sprovveduto la porta” replicò con piglio
divertito “non ti facevo così pudico… sai… quando mi hai vista ti sei fatto
tutto rosso…”.
Vegeta, che aveva raggiunto il letto dove stavano i
suoi pantaloni, digrignò torvamente.
Prima o poi gliel’avrebbe tagliata quella lingua
insolente e le avrebbe cancellato quel sorriso sfacciato.
“Mi hai soltanto colto di sorpresa” lasciò cadere
l’asciugamano e si sedette con noncuranza sul letto.
Lo fece per farle dispetto.
Bulma gli voltò le spalle con uno scatto fulmineo:
“Sei indecente… un cafone… non imparerai mai cosa
vuol dire l’educazione!” mormorò paonazza.
Se prima non aveva avuto il tempo di intravedere
niente, ora quell’ombra scura tra le sue gambe massicce l’aveva gettata nel
panico più totale.
“Che c’è di strano?” sogghignò mentre si infilava i
pantaloni “non dirmi che non ne hai mai visto uno…”
“Questi non sono affari tuoi!” puntualizzò senza
osare ancora voltarsi.
Aveva incrociato le braccia e fu come se un vento
freddo fosse entrato all’improvviso nella stanza e creasse reazioni
contrastanti con il sangue che le era schizzato al cervello.
Si vergognò da morire.
Vegeta percepì il tremore della sua schiena, il suo
respiro irregolare.
Mentre si avvicinava alle sue spalle poteva sentire
perfino l’odore del sangue che stillava di nascosto nel suo centro.
Per un istante gli tornò alla mente quella stoffa di
pizzo nero che aveva avuto tra le dita.
L’oltrepassò, fece ritorno nel bagno e recuperò le
proprie cose.
Quando venne fuori, lei non si era mossa di un
centimetro, con le braccia incrociate e la faccia girata rigidamente a fissare
qualsiasi cosa che non fosse lui.
Si apprestò ad uscire senza aggiungere altro, come
se niente fosse accaduto, niente avesse pensato o desiderato di lei.
Bulma non lo lasciò andare via senza aver prima
aggiunto con recuperata irriverenza:
“Sono stata da te ed il tuo bagno funzionava
perfettamente, la prossima volta vedi di non inventare scuse per venire a
passare del tempo in camera mia…”.
Lui rise con sdegno e cattiveria:
“Sei completamente fuori di testa…” e si chiuse la
porta alle spalle con un tonfo sonoro.
Bulma emise un sospiro ma non fu di sollievo.
Fissò il calendario sopra la scrivania ed andò a
calcare col pennarello rosso un altro giorno che passava.
Pensò che tra un mese Iamcha sarebbe ritornato.
Si morsicò le unghie con nervosismo.
Piuttosto che essere felice dell’evento si
preoccupava che allo scadere di quei giorni Vegeta potesse andarsene via
per sempre.
Forse era veramente fuori di testa!
Prima di coricarsi definitivamente, con passo
rassegnato, rientrò un’ultima volta in bagno e si accorse con sommo imbarazzo
di tutto quello che aveva lasciato in giro: vestiti, pizzi e tanto di
assorbente sporco in prima vista.
“Perché
capitano sempre a me…?!” ed andò ad infilare la testa sotto al cuscino.
FINE
Per chi non l’avesse già fatto e volesse un racconto
più approfondito su questa prima fase della storia tra Bulma e Vegeta, invito a
leggere: “E fu il principio”, “E poi passione”, “Infine fu l’orgoglio”.
Non garantisco niente… il tempo è tiranno… ma non è
escluso che possano aggiungersi nuove “capsule” di convivenza. Ciao!