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Autore: Karyon    12/04/2012    3 recensioni
Christian sorrise «Per tutto il tempo che vorrai» replicò, prima di tornare a baciarla, mentre spostava la tela nel mucchio di tanti quadrati gemelli, specchi di uno spettacolo che doveva andare avanti.
Per sempre.

Ha partecipato al "The winner is...?" di Dark Aeris.
Post-film.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Contest “The winner is…” di Dark Aeris.
 
Autore: Karyon. 
Titolo della storia: Rêve.
Fandom: Moulin Rouge. 
Rating: Arancione.
Genere: Malinconico, triste, sentimentale, introspettivo. 
Avvertimenti: One shot, sequel, lemon. 
Note dell'autore: E’ seriamente pessima, ma ho il dubbio che l’ispirazione sia scomparsa strada facendo, visto la difficoltà di terminarla. I’m sorry.
La storia si svolge circa due anni dopo la morte di Satine e lo stato di depressione che ha colpito Christian subito dopo, quando ha scritto il romanzo che racconta la loro storia. Ho immaginato un Moulin Rouge un po’ in decadenza, dopo gli anni d’oro dei Bohémiens, con tutte le conseguenze che competono: Toulouse è morto (nella realtà è davvero morto nel  Settembre del 1901); Zidler andato via per debiti e un mondo che si è sgretolato pian piano, breve e intenso come sono sempre questi movimenti. Denise è, ovviamente, una mia invenzione: l’ho immaginata artista anch’essa, però alla luce del sole, già più viva e meno distruttiva dei maudit dell’epoca precedente. Per risollevare Christian, ho immaginato ci fosse bisogno di… vita.
Purtroppo credo sia una storia seriamente noiosa, ma non sono riuscita a fare di meglio, essendo tuuuutta incentrata sull’introspezione.
Ci tengo a dire che i posti che ho descritto li ho vissuti davvero per mesi (ah, Parigi…) e l’aria è davvero ancora quella: arte, passione, vita che scorre veloce, luci e… il Moulin Rouge! Che sembra davvero sbiadire nel giorno, come se esso – e tutta la vita che gli brulica intorno – vivesse solo di notte.
 
 
Rêve
 

« I giorni sono diventati settimane, le settimane mesi e poi, un giorno come gli altri, sono andato alla mia macchina per scrivere, mi sono seduto, e ho scritto la nostra storia. Una storia che parla di un tempo, di un luogo, di persone, ma soprattutto una storia che parla d'amore. Un amore che vivrà per sempre.
Fine ».
Christian
 
Paris, 1902

 

Prima ancora che il sole sorgesse vi era sempre un’aria brulicante di vivacità a Pigalle, come se la notte non fosse mai intervenuta a sedare la vita che da sempre scorreva tra le stradine scombinate di Montmartre.

Così, mentre il cielo si tingeva di un rosa stanco screziato d’oro, i rimasugli di vita notturna defluivano verso l’interno, nascondendosi alla quotidianità parigina dei palazzi perbene.
Christian si calcò meglio il cappello sui lunghi capelli castani e inspirò a pieni polmoni l’odore fragrante che si spandeva per i vicoli; quell’ora del mattino era perfetta per un mucchio di ragioni diverse, prima tra tutte quella di poter assistere all’apertura delle prime boulangeries, dove l’odore del pane fresco si mescolava a quello dei croissants appena sfornati. E tuttavia non era l’unica motivazione per la quale amava passeggiare prima che il sole alto incombesse a limitare un “mondo” dall’altro: il chiacchiericcio strascicato e superfluo degli ultimi avventori della notte, il picchiettio di tacchi sulle banchine sgombre, volti insonnoliti di chi si ritirava nel sopore e di quelli appena svegli, pronti a vivere sul palco di un giorno appena giunto… Christian credeva che non avrebbe mai più fatto parte di quel luogo lì, quello che viveva alla luce del sole senza che nulla dovesse essere nascosto, né le voluttà di una cortigiana troppo procace né i balletti sconci e cangianti di uno spettacolo di cabaret.
Dicevano che l’epoca dei bohémiensera terminata, dicevano che era ora di ritornare alla normalità – al riparo da tutte quelle indecenze da burlesque e sciocchezze da artista spiantato.
Eppure, ancora allora, usciva quando la notte era ormai profonda e tornava a casa prima che il sole sorgesse, con lo sguardo a ricercare cortigiane, pittori, vagabondi e uomini di malaffare, nella speranza di ritrovare – saltando di volto in volto – le ultime briciole di un mondo che aveva amato e che gli si era sgretolato lentamente tra le mani.
Era con un’impercettibile pausa che rallentava il passo davanti al Moulin Rouge, che di giorno era stagliato fiocamente contro quell’azzurro così denso, quasi invisibile agli occhi dei passanti indaffarati. Non vi entrava da due anni, giorni interi sgranati con la calma della disperazione; da quando Harold Zidler era fuggito via, alla ricerca di fortuna verso altri lidi e le “cagne di diamante” erano state rimpiazzate da nuove e più giovani ballerine.
Non conosceva perfettamente tutta la storia, ma le voci che si rincorrevano tra i fumi dell’alcool: parlavano di debiti, guerre tra bande e inganni; dopo il successo dello Spettacolo Spettacolare erano stati in molti a scialacquare i loro soldi nella speranza di far fortuna con gli investimenti, ma Satine… la sua Satine era già morta e lo spettacolo non poteva continuare, non quella volta.
Lei era stata lo Sparkling Diamond del Moulin Rouge e, con lei, il suo splendore era andato scemando di mese in mese, fino a quando era diventato semplicemente troppo per essere sostenuto; sia per i vari duchi che ci sperperavano, sia per le cortigiane che ci speravano, che per Zidler che si consumava nell’attesa.
«Vado via prima di morirci» avrebbe detto a qualche avventore, senza trucco, senza ghigno e senza tortuosi piani architettati a menadito. Il Grande Mattatore non era più lui e il sipario era calato per sempre.
Christian sospirò, alzando il capo a guardare lo spicchio di cielo tra le pale spente del mulino rosso sangue che infestava ancora le sue notti.
Non era proprio dolore ormai, ma una strana sensazione, come un pizzicore persistente sotto la pelle. Tuttavia era riuscito a vivere, in qualche modo, lontano dalla notte – abbastanza da riuscire a ritornarvi poi, respirando quella stessa aria di pochi anni prima senza farsi sedurre.
La sua anima non parlava più di verità, bellezza e tutti quegli altri utopistici quanto perfetti ideali bohémien, ma li ricordava bene, al limite tra il sogno e l’illusione.
Mentre, per quanto riguardava l’amore… Christian aveva sempre creduto che l’amore fosse una sorta di spirito che s’impadroniva di qualsiasi cosa, dei muscoli e della mente, del cuore e della pelle, incatenando due persone.
Il suo spirito era Satine e lo sarebbe stato per sempre.
Non credeva, non aveva mai creduto che potesse accadere di nuovo.
Quello che aveva provato per lei, quello cui loro erano riusciti a dare vita – rubando tempo al tempo solo per un altro giorno insieme – non poteva essere ricreato, eppure…
Non si era mai accorto, impegnato com’era a non scivolare nel baratro, di quello che stava accadendo dentro e intorno a lui; come se la sua vita fosse ritornata mentre lui era da un’altra parte, un nuovo vento era arrivato a soffiare sui suoi desideri sopiti, ricordandogli solo allora che era ancora vivo.
Viveva e il sangue scorreva in lui, così come scorreva la voglia di ritornare a respirare, dopo anni passati in apnea.
Ed era Denise.
Non si era accorto, non subito, del modo in cui i suoi stessi occhi scivolavano sulle forme longilinee, da giunco ondeggiante al vento. Non si era accorto di come le sue stesse mani si muovevano, inquiete, al cospetto delle dita affusolate e bianche come latte sempre intente a far scivolare la matita su un foglio bianco.
Denise era giorno, era luce catturata con i suoi lunghi e sciolti capelli castano-dorato, così diverso dal rosso cupo acconciato per messinscene e lustrini; Denise guardava al Moulin Rouge come un’artista critico guardava alla sua opera, controllandola e modellandola con la sua volontà e non una pedina smarrita, mangiata dal caos di un destino sempre sopra le righe.
Lei gli faceva credere di poter rubare tutto il tempo del mondo per tutta la vita, senza che questa richiedesse un sacrificio in cambio.
In qualche modo, lei era la normalità che mancava nella sua vita, diventata routine dove Satine non avrebbe mai potuto, invischiata nel destino perfetto e tragico che si portava addosso.
Christian ci aveva messo due anni per capirlo, ma alla fine non avrebbe potuto essere che così, perché le storie straordinarie vivono nella realtà giusto il tempo di diventare ideali irraggiungibili.
E quando facevano l’amore – in una stanza piccola, arroccata su Place de Tertre – riusciva a mantenere la tranquillità di un fiume che scorreva, ben lontana dalla gelosia sfrenata causata dal Duca, dalla paura di essere scoperti o dallo stress di dover fingere ogni dannata volta… fino a poco tempo prima, Christian avrebbe trovato quella calma quasi esasperante, noiosa come poteva esserlo una vita senza misteri.
Denise gli aveva insegnato una quiete che non conosceva, ascoltando in silenzio la pioggia che batteva sui vetri opachi senza alcun pensiero al mondo se non stare insieme. Anche con Satine aveva assaporato ogni istante come fosse l’ultimo, eppure non lo facevano con la leggerezza dei bohémiens o la passione degli artisti: erano stati semplicemente due amanti che bruciavano di passione nel buio di una stanza, pronti a spegnersi alla prima folata d’aria fresca.
Pensava spesso a tutto quello, senza riuscire a frenare l’oscuro istinto che lo portava a paragonare le due porzioni più significative della sua vita. Era sbagliato e dannoso, lo sapeva, nonché ingiusto considerando il baratro in cui lui stesso si era gettato dopo la morte della sua adorata Satine.
Però non poteva farne a meno: la sua vita presente si progettava sulla base di riconferme passate e future, per cercare indizi di buona condotta ed equilibrio; lo stesso che gli era mancato per tanto tempo.
Quando aprì la piccola porta dipinta di rosso cupo e salì velocemente le strette scalinate del basso palazzo bianco, ritrovò il sorriso dell’attesa, quello di chi non aveva nulla da nascondere né da dividere con chiunque altro.
«Rêve» chiamò, scostando la tendina ad anelli azzurri che divideva in due parti l’unica stanza dell’appartamento. Dopo tutti quegli anni, riusciva ancora a sentire il nodo che stringeva lo stomaco all’idea che anche lei, come Satine, fosse scomparsa; lo stesso incubo – riavvolto per notti e notti – non poteva che segnarlo profondamente, ma almeno ora riusciva a non precipitarsi in strada urlando a squarciagola il nome di… Satine, o Denise, a turno.
Gli intensi occhi azzurri ormai sbiaditi dal tempo si guardarono intorno, prima di acquetarsi sull’unico angolo buio della stanza: un letto dalla forma strana – una sorta di quadrato largo e corto – giaceva tra un separé scuro dipinto a mano, che limitava il getto del sole alle finestre senza tende, e un grosso armadio spalancato e farcito di qualsiasi cosa. Giusto al centro, un fagotto di coperte rosso-arancio, esplosione di colori accesi a cui non era del tutto abituato.
Chrisitan sorrise «Rêve, svegliati…» ripeté, assaporando la parola lungo il palato: doveva ancora del tutto abituarsi alla lingua francese – così delicata e impalpabile rispetto al più stoico inglese –
tuttavia non poteva esimersi dall’usarlo il più possibile, perché quella era la lingua “con cui parlava l’amore”; così lo infilava dove poteva, persino nei nomignoli che donava alle persone che incontrava.
Denise era, piuttosto scontatamente doveva ammetterlo, Rêve. Sogno.
A parte la dolcezza del suono, l’idea proveniva da significati più profondi; tutta la sua persona era un sogno: sia per lui, che sembrava essersi risvegliato da una tranche durata due anni, sia per lei stessa che scriveva sempre di quell’argomento fantastico.
Oltre che nei suoi racconti, quasi tutti i quadri disseminati per la stanza, appesi alle pareti e alle grosse finestre parlavano di ombre cupe ed evanescenti, colori accesi apparsi dal nulla, visi che erano come maschere d’immaginazione.
Un sogno, tutto quello, eppure una realtà decisa e salda per lui.
I suoi pensieri furono sparpagliati velocemente al vento con un mugugno suadente simile a quello di un gatto; Denise spuntò fuori dalla coltre di lenzuola con un cespuglio nocciola attorno al viso e una camicia patchwork lunga fino a metà coscia.
Christian sorrise istintivamente tanto era quotidiana, ormai, quella scena «Buongiorno LittlePrincess» esordì, con un mezzo sorriso che lei ricambiò quasi ciecamente.
«B-buongiorno, English Man» replicò lei con uno sbadiglio, molto meno poeticamente.
Era una vera frana con i soprannomi e, soprattutto, molto più pratica di quanto lui fosse mai stato.
Un contrappeso perfetto per la sua bilancia.
«Sai, sto per completare un nuovo sogno…» stava dicendo lei, mentre afferrava una tela al lato del letto e intingeva un pennello sottile nell’acqua colorata: la striscia rossa impressa sul bianco si sciolse, scolorendo delicatamente in una pozza nera.
Christian le saltò accanto, a gambe incrociate e inclinando la testa di lato «Cos’è?»
Denise sospirò, poi si girò a guardare dalla finestra «Confusione, rumore, musica e… rosso» spiegò con voce assente, allungandosi ad afferrare la tazza di caffè posta sul davanzale basso e vicino.
«Oh».
Lui era abituato agli enigmi che circondavano i suoi quadri, che sfumavano nella nebbia quasi quanto i sogni contorti e fumosi che faceva ogni notte. Quella volta, però, un campanello d’allarme frantumò l’ordinaria serenità con cui accoglieva i suoi voli pindarici, sempre al limite tra giorno e notte. Quel sogno, quella volta, lo conosceva: un mulino dai contorni dubbi si stagliava sul cielo nero e senza luna, tagliato di netto da una scia rossa, rossa e appena sfumata verso un primo piano di fiamme; fiamme rosse, come capelli.
Christian d’improvviso, nella stanza calda e inondata di sole, ebbe freddo.
«Cos’è?» Domandò solo, senza impedire che il tremore gli sporcasse la voce.
Denise si girò a guardarlo, gli occhi che avevano preso una strana sfumatura color del grano, indecifrabili.
«Perché hai sognato del fuoco?» Chiese di nuovo, quasi stupidamente, con un sorriso che non sentiva.
Denise tornò a guardare la tela incompleta «Non credo siano fiamme, sembrano più… capelli» replicò più tranquillamente di quello che davvero provava.
Satine.
In fin dei conti, entrambi sapevano di cosa stavano parlando tra le righe. Fu come se l’intera stanza venisse divorata dalle fiamme, scoppiate improvvisamente senza preavviso alcuno.
«Perché?»
Perché hai sognato i suoi capelli? Perché hai sognato quel rosso cupo e sfavillante? Perché hai sognato lo Sparkling Diamond?
Tuttavia non disse nulla di tutto quello e non ce n’era davvero bisogno.
Denise si ravviò i lunghi capelli sulla schiena affusolata e ci pensò solo un attimo «Tu… le appartieni… ancora» rispose, soppesando ogni parola senza però imprimere particolare forza.
Era una sua qualità: parlare per lasciare un segno senza darlo davvero a vedere.
Christian supponeva fosse l’intrinseca leggerezza di ogni artista.
«No».
Una nota secca e veloce, affiorata alle labbra prima che la mente potesse formulare alcunché; ed era la verità, si sorpresa a pensare: lui e Satine si amavano ancora, da qualche parte su un altro mondo, ma quella realtà e quella vita erano per lei e lei soltanto. La sua pittrice che, in un sogno, era entrata in contatto con un’illusione del passato che viveva solo nelle notti insonni.
Quasi un’ironica capriola del destino.
Quel pensiero lo portò inspiegabilmente a ridacchiare, attirandosi un’occhiata neutra e piuttosto inquietante.
«Non è un mio sogno. È il tuo. “Satine”… lo sussurravi stanotte, a fior di labbra. Quasi sembrava
vento».
 
 
 

«I sogni sono risposte a domande che non siamo ancora in grado di formulare».
X-Files
 
«Il sogno di uno solo è l'illusione, l'apparenza; il sogno di due è già la verità, la realtà. Che cos'è il mondo reale se non il sogno di tutti, il sogno comune?»
Miguel de Unamuno

 
 
 
Un nuovo ansito si sciolse nel boato che annunciò l’arrivo di un nuovo fulmine a squarciare la notte scura e senza luna.
Denise muoveva il corpo sinuoso con lentezza, i lunghi capelli che le ondeggiavano sulle spalle magre fino a scivolare sul suo viso accaldato. Christian amava guardarla sopra di lui, i seni piccoli e tondi che tremolavano, i fianchi snelli che si muovevano ritmicamente… aveva un corpo morbido, ma con linee e curve decise, e un viso magnifico. Mai si sarebbe stancato di guardarlo.
Fu a un certo punto, quando un lampo rischiarò la stanza – inondando di blu i loro corpi nudi, protetti dal solo lenzuolo variopinto – che lei aprì gli occhi per fissarlo; gli leggevano dentro, ogni volta, come se dovessero scavargli nel profondo, schiudendo al mondo qualsiasi segreto la sua anima celasse. E quando arrivavano al culmine dell’estasi, insieme e senza allontanare lo sguardo, era un po’ come morire lentamente l’uno nell’altro.
«Ci pensi? Pensi qualche volta al Moulin Rouge, a Zidler, a Toulouse o a qualcun’altra delle grandiose avventure che mi hai raccontato?» Le domandò lei una volta, mentre giacevano pigramente tra le lenzuola sfatte.
Christian sorrise, poi si girò su un fianco a baciarle il collo «Ti manca la notte di tanto in tanto?»
Chiunque vivesse o avesse vissuto a Montmartre, conosceva quella sensazione: di essere sfuggiti per un soffio alle tenebre più oscure; tuttavia, per quanto si facesse o per quanto tempo scivolasse tra le dita, esse non si diradavano mai del tutto e qualche piccolo “pezzo di notte” restava a macchiarti l’anima per sempre. Così era stato per tutti i pittori maudit come Toulouse, per le cortigiane come Satine, i “mangiafuoco” come Zidler o gli artisti di strada come Denise.
«La notte ogni tanto ti ammalia» replicò lei, senza riferirsi a nulla di particolare.
«Già… ma non scalda. Non come il sole» fece eco Christian, circondandola con le braccia. «Je t’aime…» sussurrò, in un francese stentato.
Denise trattenne il respiro per un attimo, poi riaprì gli occhi a guardare la tempesta che scoppiava di fronte a loro: non considerò fosse la prima volta che pronunciava quelle parole solo ed esclusivamente per lei, non si rese conto che gliele disse in francese, la lingua che stava       faticando a imparare per farle piacere… davanti a lei vedeva solo fulmini, lampi e rosso.
«E i sogni?» Mormorò di rimando, la voce che si perdeva nella tormenta.
Christian scrollò la testa e tornò a baciarle un orecchio «Guarda i tuoi quadri… sono come finestre sui mondi più disparati, quelli che la tua anima ha vissuto molte vite addietro. Però restano lì: sono specchi di tante parti di te che non vuoi rinnegare, ma non vuoi rivivere di nuovo» le spiegò, costringendola dolcemente a girarsi per guardarlo. «Denise, Satine è solo un frammento del passato che ho amato, ma non voglio rivivere. Lei ha fatto in modo che io fossi così, ora, con te. E voglio starci qui, se tu vuoi, per tutto il tempo che il destino ci riserva».
La ragazza lo squadrò, alzando una mano a sfilare lungo la linea della mascella delicata, su fino ai capelli lunghi e inscuriti dal tempo.
I sogni sono una particella di quello che siamo stati e siamo diventati, qualcuno glielo aveva detto una volta. Era per quella capacità di plasmare presente e futuro che si era interessata ai sogni, cominciando a dipingerli e a descriverli.
Solo a volte capitava che ne venisse rapita.
Denise tornò a guardare la tela dove rosso e nero si mescolavano in un caos che le aveva, per un istante, fatto smarrire la verità che da sempre conosceva.
Poi sorrise «Mi chiami ancora Rêve,vero?» Chiese titubante, mordendosi le labbra.
Christian sorrise «Per tutto il tempo che vorrai» replicò, prima di tornare a baciarla, mentre spostava la tela nel mucchio di tanti quadrati gemelli, specchi di uno spettacolo che doveva andare avanti.
Per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                                                                            
   
 
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