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Autore: _Velvet_    12/04/2012    0 recensioni
"La gente è così priva di senso, a volte. Seguono il gregge, il capogruppo senza nemmeno pensarci. Credono bianco, ma il giorno dopo il capo dice che tutto è stato sempre nero, hanno sempre creduto nel nero.
E loro lo accettano così, senza nemmeno pensarci.
Non lo trovi... spaventoso?"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 10, Side B.
Manchester, 22 giungo 1978
 
Capisci che una persona ti è mancata da quanto sei disposta a cancellare ogni errore solo per poterla riavere vicino. Io non ci misi che un secondo per dimenticare la rabbia e il risentimento nei confronti di Ian, avevo troppo bisogno di lui per dar peso a sentimenti quasi ingiustificati.
Per me i suoi baci erano più dolci del miele, più caldi del whiskey, erano tutto ciò di cui avevo bisogno.
-Christiane, grazie per avermi ritrovato. Ma cosa ti ho fatto passare?
-Tante cose, Ian. Ero sul punto di mollare troppe volte. E poi, insomma, ce l’ho fatta, non ci sarei mai riuscita da sola però.
-Raccontami com’è andata, se vuoi.
Aggiungere una condizione, tipico suo. Non mi voleva obbligare, non voleva sensi di colpa, aveva già abbastanza dei suoi.
 Non sapevo se ne avessi voglia, non volevo aggiungere la mole della mia coscienza ferita alla sua. Poi però pensai a quanto male faceva il risentimento muto, le occhiate cariche di rimpianti che avrei potuto lanciarli; non ne avrebbe potuto capire il senso, ci sarebbe ricaduto.
-E sia. Bene, ti racconterò tutto, sai che voglio solo essere sincera. Fermami se i fa troppo male.
 
Cominciai a raccontargli tutto, di come avevo mandato all’aria i miei buoni propositi di resistere a me stessa, di come avevo iniziato ad annegare la mia totale inettitudine nell’alcol. E gli raccontai di Lucy Star e della sua luce ferita, gli raccontai di come mi aveva aiutato portandomi nel suo mondo di squallore e facendomi bere quanto volevo; gli raccontai del fidanzato di Lucy, l’inarrivabile David e di come mi avesse promesso che mi avrebbe aiutato a ritrovarlo. Gli raccontai dei bar che chiudevano alle cinque da cui uscivamo ubriache ma felici, delle panchine di metallo su cui dormivamo, del mondo che avevo scoperto. Gli descrissi la puzza dei gabinetti pubblici, la luce cadente dei neon, i lampioni che mi ferivano lo sguardo e il nero che mi offriva conforto.
E poi gli dissi del sollievo con cui lo avevo rivisto da Peter, di quella situazione così pura che avevo provato nel vederlo aprire gli occhi, del sollievo di aver potuto vedere che era rimasto lo stesso nonostante tutto.
 Ma soprattutto gli raccontai di come mi fosse mancato, di come ogni sera avessi sperato di svegliarmi tra le sue braccia, di come volessi scacciare ogni cosa come un brutto sogno e di come puntualmente mi svegliavo sempre più disillusa. Gli raccontai di quella mattina in cui mi ero svegliata senza di lui, di quanto avessi pianto con la sua lettera in mano, quanto avessi amato quell’anello che mi aveva lasciato. E gli narrai la rabbia che provavo per lui, il risentimento che avevo covato; gli chiesi con che coraggio mi aveva lasciata sola.
E gli parlai di come finalmente tutto si fosse risolto, di come avremmo vissuto superando le nostre debolezze, debolezze da vincere con la nostra unica arma: il controllo. Gli ricordai che lo avrei amato per sempre, che nulla ci avrebbe più separato. Per quanto in basso volesse spingersi, io sarei scesa con lui.
 
Lui però aveva molto da dire.
Mi descrisse il dolore che aveva provato nello scrivere la lettera d’addio, della frustrazione di non trovare parole adatte all’abbandono della sua metà perfetta, del buio in cui si immergeva con l’eroina. Parlò del controllo che se ne andava, abbandonandolo come il calore abbandona un corpo in una serata d’inverno passata all’aperto; di come capii subito che dove non c’era controllo c’era l’Ian drogato, una parte della sua personalità che era sempre esistita nascondendosi sotto uno strato di misero autocontrollo. Mi descrisse lo squallore di rivedersi negli occhi degli altri bucomani come lui, il rimpianto per quello che era forse il più grande errore della sua vita, i sensi di colpa che accompagnavano ogni iniezione.
Mi tracciò la sua sfiducia un futuro luminoso, dell’impossibilità di essere del tutto felice, ma anche la sua volontà a non lasciarmi mai andare.
Tornò indietro al dolore puro che provava mentre mi vedeva sempre più spenta e al rimorso che provava nei miei confronti, per aver permesso che mi riducessi così.
Mi raccontò della sua voglia di rivedermi in ogni angolo della città, della speranza che come un angelo lo riportassi verso la ragione; della droga tagliata male e della prima crisi convulsiva, di Peter che lo aveva salvato, dei libri che aveva letto senza capirne il senso globale ma solo le frustrazioni di chi li aveva scritti.
Mi raffigurò la disintossicazione fatta in casa, del dolore fisico che aveva sofferto allontanandosi dalla droga.
 
Alla fine del racconto era stremato. Rimanemmo mezz’ora stretti l’uno all’altra, senza nemmeno la forza di muoverci.
Avevamo paura di quello che sarebbe potuto accadere, di quello che avremmo potuto farci. Sapevamo che la nostra pace non sarebbe durata a lungo, che presto o tardi qualche elemento sarebbe venuto per turbarci.
Ma vivendo solo per non fare accadere cose negative, non avremmo vissuto del tutto: se il nostro destino era soffrire, avremmo sofferto insieme. Il male che ci saremmo fatti non sembrava una prospettiva crudele, ma realista. Era un male inevitabile, era come la prospettiva della pioggia nella calda estate: lontana, distante, quasi impensabile; però prima o poi la pioggia sarebbe arrivata, portando via il sole e accorciando le giornate. Ma per noi ora era estate, l’autunno lontano. La pioggia non ci faceva paura, ora avevamo il sole e tanto ci bastava. Sì, le nuvole sarebbero arrivate ad oscurarci, ma non ora. Godiamo del presente come un dono prezioso, da guadagnare con la fatica, la sofferenza, un dono che avremmo conservato non guardando né in avanti né indietro. Di nuovo saremmo tornati a vivere giorno per giorno senza badare al futuro, l’unico metodo che ci garantiva un’isola sicura dalle prossime sofferenze.
 
Tornai a pensare a Lucy Star, la stella ferita. Per lei era sempre autunno, non ci sarebbe mai stato il sole perché lei poteva farne a meno. A pensarci bene, non lo voleva nemmeno il sole, non voleva che arrivasse l’estate. La luce l’avrebbe costretta ad uscire dal suo mondo sotterraneo, ad affrontare l’esterno, avrebbe minato la sua precaria sicurezza.
Capii che le volevo un gran bene, che eravamo due creature simili. Dopotutto Lucy Star era una bambina, con i suoi grandi occhi da cerbiatta e la luce dei sui capelli. Ed lei c’era stata quando nessuno c’era, nemmeno io.
Era affetto quello che provavo per lei, volevo rivederla. Chissà come stava, con quale droga si sballava e dipingeva di colori una vita grigia. Chissà quanto avrebbe tirato avanti prima di distruggersi il cervello e rinunciare a pensare.
 
Il mio sguardo corse al viso addormentato di Ian, così pacifico, senza affanni. Ci immaginai come una coppia di corvi che volavano nel cielo sereno. Volavamo e volavamo finché non sentivamo l’energia abbandonarci, finché non ci posavamo sul ramo più alto di un albero e lì morivamo in silenzio, senza lamenti.
Dietro di noi solo il cielo, sotto solo un ramo sottile. Davanti a noi il nulla più puro, il nulla del riposo eterno.
Era un pensiero confortante, rassicurante.
Mi addormentai di nuovo appoggiando la fronte al collo di Ian e, per la prima volta, non sognai fiamme, morte, distruzione. Sognai prati fioriti, cerbiatti e il sole, sì, finalmente tornai a  sognare il sole.
   
 
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