Capitolo 28
Slowly
sinking … wasting
Era
un incubo quello, non poteva essere altrimenti. No, certo che no, quella era
solo la naturale conseguenza di una delle tante sere in cui avevo mangiato
pesante. Lo prometto, basta con ali di pollo fritte e patatine per cena … lo
sapevo che prima o poi avrei mandato in malora stomaco, fegato e budella.
A
breve avrei aperto gli occhi ed Allison mi avrebbe portato una tazza di
camomilla a letto per aiutarmi a ripulirmi dalle porcherie della cena ed io
avrei fatto le storie come un bimbo quando gli mettono davanti la medicina
cattiva; datemi tutto ma non la camomilla, è una cosa che proprio odio, da
sempre.
Sì,
sarebbe andata di certo così, doveva andare così, perché non era possibile che
ogni cazzo di volta che provo ad essere felice va a finire tutto in rovina,
come un castello di sabbia sulla battigia di fronte all’alta marea.
Continuavo
ad illudermi, ma sapevo bene che quella era la nuda e cruda verità. Non sarebbe
cambiato nulla; l’unica cosa che poteva evitarmi ciò che mi stava aspettando
era un bello svenimento, ma persino il mio organismo si rifiutava di collaborare,
dandomi una forza per affrontare quegli eventi che sinceramente avrei preferito
non avere. Ma lei si fidava di me, aveva bisogno di me, e se fossi caduto mi
sarei dovuto rialzare, per lei.
Il
taxi si fermò nel bel mezzo di un ingorgo così, quando seppi dal tassista che
l’ospedale era a pochi isolati più avanti, decisi di pagarlo e proseguire a
piedi. Il mio cellulare aveva continuato a vibrare nei miei pantaloni per tutta
la durata del viaggio … non dico rispondere, ma non avevo nemmeno il coraggio di
vedere chi fosse. Troppe domande a cui non potevo né sapevo rispondere, sebbene
per molte di quelle conoscevo già la risposta dentro di me. Se fossero stati i
genitori di Allison cosa avrei detto: avevo ripagato la loro fiducia, la
fiducia di una padre che aveva da poco ritrovato quella figlia tanto amata,
mandando quella povera ragazza dritta in ospedale. Non ero stato capace di
prendermene cura, di proteggerla, di starle vicino ed ora chissà in che stato
era. Mi si pararono davanti le immagini più disparate, una peggio dell’altra, e
non riuscivo a mandarle via. Nella migliore delle ipotesi si era rotta qualche
osso ed aveva qualche livido, nella peggiore … mi rifiutai di pensarci.
Che
poi, cosa c’era tornata a fare nel Bronx? Non era forse il primo posto che lei
avrebbe dovuto evitare, dove le bande si fanno guerra ogni tanto giorno e dove
il suo pappone aveva il suo quartier generale?
Quando
mi trovai all’ingresso del Lebanon Hospital accadde tutto così rapidamente che
non credo di aver veramente vissuto la seguente mezz’ora: qualcuno doveva aver
premuto il tasto fast forward, perché mi ritrovai a vagare senza una meta ben
chiara di reparto in reparto, chiedendo informazioni, venendo sbattuto da una
parte all’altra dell’edificio, aspettando in sale d’attesa in cui nessuno mi
diceva nulla perché andava bene avvisare il fidanzato per dare le brutte
notizie, ma quando si tratta di spiegare la situazione … beh allora non sei
nessuno. Finché qualcuno non si impietosì di me, diciamo pure finché qualcuno
non capì che stavo per fare un casino, avendo già mandato per aria un paio di
barelle non occupate. Mi si parò davanti una donnona alta e leggermente
mascolina, capelli da maschiaccio e bionda, con una cartelletta tra le mani e
uno zaino vecchio e malandato, che riconobbi essere la borsa che Allison
scorrazzava con sé e che era grande quanto una valigia. Era talmente mal
ridotta che di certo non sembrava uscita dal negozio solo dopo l’ultima
svendita di Accessorize.
“Lei
è qui per Allison Riley, giusto?” dalla voce riconobbi la donna con cui avevo
parlato al telefono, l’infermiera Kristie o come cavolo si chiamava. Certo non
era così che me l’ero figurata. Più Candy Candy, meno signorina Trinciabue.
“Dov’è?
Come sta?” mi precipitai e non fui sicuro che l’infermiera comprese appieno quello
che stavo dicendo, o forse le parole nemmeno erano uscite.
“Senta
io vengo dal Pronto Soccorso” proseguì lei, non interessandosi minimamente di
me, anzi a dir poco scocciata dall’incombenza di dover parlare con un ragazzo
sclerato, che come unica colpa aveva quella che nessuno gli diceva nulla a
proposito della sua ragazza da almeno mezz’ora. “Queste sono le cose che aveva
con sé la sua ragazza quando l’hanno portata qui. Ora però ci sono queste carte
da firmare, sono per il ricovero. Ce l’ha l’assicurazione, vero?”
“Io
… io non l’ho so” balbettai “però posso, possiamo pagare non preoccupatevi. Lei
è sola qui, ma appena arriveranno i suoi genitori potrete parlare con loro di
queste cose.” Conoscevo tutto di lei, sapevo quante volte al giorno andava in
bagno e quando aveva il ciclo, conoscevo ogni suo vizio ed ogni suo gusto, ma
di una cosa così fondamentale come l’assicurazione sanitaria non avevo la più
pallida idea. “Domani saranno qui …” rassicurai la donna, quando la vidi indisporsi
ulteriormente a quell’imprevisto “e tra un po’ dovrebbe arrivare il suo
avvocato che è il suo tutore; può parlarne con lui se lo ritiene necessario”
“Bene”
fu solo capace di rispondere, mentre rimetteva in ordine la pila di carte che
aveva portato da firmare. Mi persi a controllare la borsa di Allison, ma al suo
interno non mancava nulla di importante a prima vista, il mazzo di chiavi era
ancora lì e il portafogli era ancora ben chiuso nella tasca interna, pieno di
soldi e documenti nuovi di zecca. Non era stata una rapina, dunque, ma il mio
istinto questo lo sapeva bene, prima ancora che fossero delle prove a dirmelo.
Rialzando
la testa mi accorsi che l’infermiera si stava allontanando, ma non poteva
farlo, non prima di avermi detto come stava Allison, dov’era e se avessi o no potuto
vederla. Anche lei però si aggiunse al novero di persone che non sapeva nulla.
“Non
è possibile!” inveii, attirando l’attenzione dell’intero corridoio “è mezz’ora
che sono qui ed io non riesco ancora a sapere nulla della mia ragazza!” “Si
calmi la prego” fu solo capace di dire “non è questo il luogo per certe
scenate” “No, non mi calmo” continuai “non è possibile che nessuno possa dirmi
dov’è o come sta … l’unica cosa che vi interessa sono solo queste cazzo di
carte … ma pulitevici il culo!”
“Senti
ragazzino …” disse l’infermiera, spazientita dalla mia sfuriata, passando dalle
buone maniere formali ad una schiettezza un po’ gretta e poco consona al suo
ruolo “non credere che noi siamo qui a rigirarci i pollici, lo vedi anche tu
quali sono le condizioni in cui lavoriamo … io lavoro all’accettazione, questo
è il mio compito e di più non posso fare. Ora se hai la bontà di stare calmo
per altri dieci minuti, faccio un paio di telefonate e troviamo la tua ragazza
…”
E,
come al solito, ebbi la conferma che le cose si ottengono solo alzando la voce.
In dieci minuti trovai Allison, ricoverata nel reparto di Chirurgia Generale,
il primo reparto dove ero stato mandato, ma dove non mi fecero entrare nemmeno
entrare perché non era orario di visite. Ora invece con un permesso scritto e
la scorta di un vigilante, venni ammesso tra gli sguardi contrariati dei
professoroni in camice bianco e delle vecchie infermiere zitelle ed acide.
Venni
condotto oltre le poche camere, nella grande corsia dove i letti sono divisi da
tende divisorie. Fu allora che finalmente sentii la sua voce, dopo un intero
pomeriggio in cui ero stato senza e dopo aver temuto che non l’avrei più
sentita. Era un mugolio piuttosto, un lamento di dolore, ma tanto era bastato per
togliermi il peggio dalla mente. Quando scostarono la tendina per farmi
entrare, trovai un giovane medico, assistito da un’infermiera, intento a fasciarle
il volto, dove si vedeva una estesa medicazione della guancia sinistra, forse
avevano anche messo i punti. Lei era infastidita, certamente dolorante, ma
almeno era vigile. La bocca era gonfia, con una decisa spaccatura sul labbro
superiore; gli occhi tumefatti e a stento riusciva a tenere aperti, perciò in
un primo momento non si accorse di me, anche a causa della grande lampada che
le era stata puntata addosso dal medico che le stava ricucendo la ferita sulla
guancia e che doveva averla abbagliata.
“Lei
è?” mi chiese l’infermiera che era vicino al letto di Allison. “Il suo ragazzo,
Tyler Hawkins” dissi con una punta di fierezza, mostrando il permesso. Non era
il momento di fare gli eroi, ma non potei farne proprio a meno. “Ty…” tremò di
gioia la voce di Allison “Ty …”. “Amore sono qui” mi feci largo in quella
piccola stanzetta di fortuna, sedendomi sul letto, incurante del rimprovero che
a tal proposito mi venne fatto. “Ty…ler” pronunciò a stento Allison, che non ce
la fece proprio a trattenere le lacrime. Le presi le mani tra le mie e notai
che anche le braccia, scoperte per via del camice, erano piene di ematomi e
graffi, quelli più profondi medicati e coperti. “Ho avuto paura … tanta paura”
pianse e la vidi sforzarsi nella speranza di alzare il busto e raggiungermi, ma
non aveva forza nemmeno per compiere un gesto tanto banale. Povero amore mio,
chi è stato tanto animale da trattarti come una bambola di pezza? Chi è quella
carogna … spera solo che non passi sotto le mie mani, perché allora mi
rimarrebbero solo il braccio della morte ed il miglio verde.
“Shhh
… shhh piccola non ti agitare” le sussurrai, avvicinandomi a lei più che
potevo, facendola rimanere in posizione semiseduta e non pesandole sopra.
Volevo passare la mia mano tra i suoi capelli, gesto che amava e sapevo quanto
la rilassasse, ma al posto delle morbide ciocche castane trovai solo una matassa
informe e stopposa, insudiciata dalla polvere e da sangue raggrumato. Non osai
immaginare cosa ci fosse nella parte di corpo coperta, se quella che si
figurava ai miei occhi era solo la punta dell’iceberg.
“Io
… io devo dirti … spiegarti come …”
“Ora
devi stare solo calma e pensare a rimetterti, quando starai meglio ne
riparleremo” la tranquillizzai. Ci sarebbe stato tempo per tutto, l’importante
era sapere che ora era al sicuro e che sarebbe stata bene.
“Signor
Hawkins” l’infermiera che era in stanza con noi fino a poco prima venne alle
mie spalle, appoggiando una mano sulla mia schiena, facendomi voltare. Io mi
alzai e mi rivolsi verso di lei: “Mi chiami Tyler”; avrà avuto l’età di mia
madre, non mi sembrava corretto farmi trattare come un uomo di mezza età.
“Tyler” continuò lei, visibilmente più a suo agio “qui fuori ci sono un paio di
persone che vorrebbero parlarti …”.
“Allison
sono qui fuori, non vado via” mi girai verso la mia ragazza, accucciandomi su
di lei leggermente per lasciarle un bacio sulla fronte. “Le dia uno sguardo”
chiesi, implorante, all’infermiera che annuì dolcemente. Finalmente qualcuno
con un po’ di cuore.
Prima
di uscire verso la corsa mi voltai un’ultima volta: “Quando potrò parlare con
un medico?” chiesi alla donna. “Una decina di minuti e sarà a tua disposizione,
deve finire il giro di medicazioni”. Le sorrisi e uscii.
Individuai
immediatamente le due persone che mi stavano aspettando: erano due poliziotti,
in borghese, ma con il distintivo ben in vista. Ero già stato avvertito che la
polizia fosse stata allertata e ne ero ben contento. Loro avrebbero dovuto
proteggerla fin dall’inizio, avrebbero dovuto capirlo che un soggetto come lei
poteva correre dei rischi ad andare in giro da sola dopo aver fatto nomi e
cognomi e dato un volto a criminali reiterati. Al contrario, invece, non
avevano smesso per un secondo di tranquillizzarci e così anche il più scettico
tra noi a riguardo, cioè il sottoscritto, si persuase che Allison avrebbe
potuto e dovuto godersi una ritrovata tranquillità. Oltretutto erano passati
diversi mesi dalla sua denuncia e le indagini proseguivano spedite, e per
quanto ne sapevamo sarebbero state concluse entro la fine dell’estate, con
arresti e ampia risonanza da parte della carta stampata e dei network televisivi.
Ma soprattutto molto altre schiave sarebbero state liberate dalle loro catene.
Il
più anziano tra i due, bianco, mi venne incontro e mi strinse la mano,
presentandosi. Il suo collega se ne stava in disparte, guardandosi attorno con
fare circospetto, e doveva essere uno di quelli che non lascia il proprio
lavoro neanche varcata la soglia di casa. “Sono il sergente Neil Craig e lui è
il mio collega, l’agente Thompson. Leo!” richiamò all’ordine il gorilla alto e
nerboruto accanto a lui che, a forza di stare troppo di vedetta, si era
distratto un attimo. Era però un gigante buono: mi strinse anche lui la mano,
affabile.
“Il
personale dell’ospedale ci ha detto che la ragazza aveva con sé una borsa e che
ve l’hanno riconsegnata … ha per caso notato se manca qualcosa?”
“No”
risposi “ho dato uno sguardo ma pare non mancare nulla. Le chiavi di casa ci
sono e così il portafogli. Non erano i soldi ad interessarli. Oltretutto io ed
Allison non navighiamo nell’oro. Lei ha appena trovato lavoro e finora faceva
la babysitter, io lavoro in una libreria part time e studio. A casa nostra non
c’è niente che possa interessare dei ladri …”
Non
parlai del fatto che Allison in realtà avesse la residenza con mia madre, la
cui casa avrebbe fatto particolarmente gola a dei ladri, perché sapevo
benissimo che non era stata una rapina finita male, ma dietro c’era qualcosa di
ben più grave. Una minaccia forse, un avvertimento a stare al proprio posto da
parte di qualcuno, il suo vecchio boss probabilmente, che sentiva la terra
tremare sotto i suoi piedi.
“I
sanitari ci hanno detto che l’hanno trovata sul ciglio della strada. Che è
arrivata una segnalazione anonima e sono corsi” spiegò il gorilla. “Pare fosse
riversa in una pozza di sangue … i vestiti strappati e scalza. Quando siamo stati
allertati abbiamo subito pensato che fosse una prostituta o una povera ragazza
violentata … qui capitano spesso casi del genere”. Chiusi gli occhi per un
attimo e quasi mi sentii mancare, al pensiero di quello che aveva potuto
passare in quegli attimi. Si sarà sentita sola, indifesa come mai e il pensiero
che io non abbia potuto evitarle tutto quello mi rodeva dentro, mi bruciava
come fuoco liquido nello stomaco. Avevo voglia di spaccare tutto, prendere quei
porci che le avevano fatto del male e guardarli in faccia, sputargli e
castrarli, perché chi tratta così le donne che uomo è? Che campa a fare?
“Dunque
mi sembra che la rapina sia da escludere” disse il capo “… sa se c’è qualcuno
che potesse avercela con lei? Un … chiamiamolo così … amore non corrisposto … non
so …”
“Senta”
lo fermai, prima che quei suoi voli pindarici andassero troppo oltre “pensavo
che conoscendo il nome della mia ragazza sarebbe arrivato subito alla
conclusione più ovvia e non avrei certo dovuto spiegarglielo io”. Mi feci più
vicino che potevo, abbassando il volume della voce quasi a parlare in un
sibilo. “Allison era coinvolta in un giro di prostituzione minorile in un
locale a South-West Bronx, è stata lei stessa a denunciare la faccenda alla
centrale di Brooklyn e a far partire le indagini. Immagino a questo punto che
il vostro dipartimento non fosse coinvolto …”
“Aspetti
un momento …” mi fermò il sergente “ Allison Riley … Allison Riley. Giusto, ma
certo! Come ho fatto a non pensarci prima …”. Sembrava aver avuto
un’illuminazione divina. “Probabilmente non c’ho pensato prima perché il
semplice fatto che nei nostri atti il suo nome compare solo con le iniziali,
per motivi di privacy, A.R. capisce?” Annui. Certo mi risultava strano pensare
che su delle carte la privacy venisse rispettata e che poi nessuno si era
preoccupato di controllare che Allison fosse al sicuro in giro per le strade di
New York.
“Beh
credo di non aver bisogno di altro. Ora devo solo parlare con la signorina,
solo lei può dirci chi era ad aggredirla e se i nostri sospetti sono fondati” i miei sospetti caro sergente, che se non
era per me … ma me ne stetti zitto, non mi andava di finire ai ferri per
una parola di troppo.
“Lasciatela
riposare” li pregai “è distrutta, non credo che sopporterebbe un interrogatorio
proprio ora”. “Si tratta di un paio di domande …” insistette l’agente Thompson.
“No!” lo rimproverò il sergente Craig “torneremo domani, non si preoccupi. Ora
vorrei controllare alcune cose … arrivederci signor Hawkins, si tenga a
disposizione” “Naturalmente, arrivederci!” li salutai e me ne tornai da
Allison. Per un attimo però, mentre percorrevo il corridoio, provai la
spiacevole sensazione di sentirmi osservato. Sarà stato per lo sguardo furtivo
dell’agente Thompson che mi aveva squadrato per tutto il tempo, sarà stato lo
stato di ansia che mi portavo appresso da quando avevo messo piede in
quell’ospedale, la bruttissima sensazione che non era finito un bel niente. Mi
guardai intorno e vidi un uomo appoggiato ad una parete, che parlava ad un
telefono fisso, e che però continuava a fissarmi, incurante del fatto che io me
ne fossi accorto; mi sembrava una faccia conosciuta, un uomo di mezza età alto
alto con la testa minuta, che però non riuscivo ad associare ad un nome o ad
una situazione. Stavo quasi per avvicinarmi a lui, per chiedergli se ci
conoscessimo, se ci fosse qualcosa che non andava, ma il pensiero di lasciare
Allison ancora da sola prese il sopravvento e mi fece cambiare idea.
L’infermiera
non era rimasta con Allie, d’altronde chissà di quanti altri pazienti aveva di
cui occuparsi, ma d’altronde la mia cucciola si era appisolata e sembrava
tranquilla, forse anche per la dose di tranquillanti che le stavano
somministrando tramite le flebo. Io mi sedetti accanto a lei: vederla riposare
era il miglior auspicio dopo una giornata sbagliata come quella, non c’era
niente di meglio che potessi chiedere per lei e per me. Le presi la mano,
delicatamente per non farla svegliare, e la strinsi tra le mie, lasciando qua e
là dei piccoli baci, quasi impercettibili, sulla pelle livida e fragile.
“Tyler”
sussurrò una voce familiare alle mie spalle. Era mia madre. Le corsi incontrò e
le mi abbraccio forte. Era come quando da piccolo mi ero perso a Central Park
all’orario di chiusura, c’era da liberarsi entrambi di un bello spavento. Anche
lei si avvicinò al letto e carezzo vellutata la guancia di Allison libera dalle
bende. Mi fece tenerezza vederla trattare con tanta cura ed amore una persona
che fino a pochi mesi prima nemmeno conosceva e che ora era per lei come una figlia.
“Come
c’è finita qui?” mi domandò, sottovoce. Feci spallucce: era una di quelle cose
che ancora non riuscivo a spiegarmi e di cui non gliene avrei fatto una colpa,
ma di cui avrebbe dovuto rendere conto; non solo a me, ma anche e soprattutto
alla polizia.
“Caroline
e Les?” domandai. “Caroline l’ho portata da papà” mi disse “per una volta si
assuma le sue responsabilità e se ne occupi, non avevamo tempo di trovare una
babysitter e aspettare che arrivasse a casa. Da papà c’è Eve che la conosce e
se ne occupa meglio di chiunque altro”. Quello era vero, e oltretutto mi
rendeva felice il fatto che mia madre non tentasse di coprire le carenze di mio
padre come genitore e anzi, spingesse affinché fosse lui a prendersi cura di
mia sorella, visto che tecnicamente avevano l’affidamento congiunto. “Les è
dalla caposala …” riprese “gli hanno dato un bel malloppo di documenti da
compilare e firmare”
“Scusa
se vi ho avvertiti con un messaggio” le dissi, riportandomi vicino al letto e
vicino ad una Allie ancora dormiente, stringendole ancora le mani. Feci un
grosso sospiro e provai a nascondere un ghigno beffardo: mi aggrappavo a lei
come se fosse un’ancora, quando era evidente che tra i due non ero certo io
quello messo peggio. Dovevo essere forte per lei, ma era lei l’eroe. “Ma
credimi non ci stavo capendo niente” mi giustificai. “Senti, avete chiamato i
genitori? Io non ho il coraggio …” ammisi; ero un codardo, era poco ma sicuro,
ma chi al posto mio avrebbe avuto il sangue freddo e le palle per affrontare
tutto senza il minimo cedimento mentale. Io mi sentivo stanco, svuotato, e non
solo per la giornata di lavoro da scaffalista in libreria o perché era ora di
cena e nel mio stomaco non c’erano rimasti nemmeno i succhi gastrici: ero
stanco di dover stare sempre all’erta, di guarda perché nessuno provasse a
scalfire ciò a cui più tenevo. Ma la resistenza prima o poi cede ed io mi
sentivo sempre più vicino alla ritirata.
“Sì,
non ti preoccupare” mi tranquillizzò mia madre, massaggiandomi le spalle “arrivano
domani ad ora di pranzo, non dovrebbero avere difficoltà a cambiare i biglietti
che avevano per questo week-end”.
Mi
risollevai; avere i suoi genitori vicino sarebbe stato certamente un bene per
Allison: quale migliore occasione per stare vicini ed prendersi cura l’un l’altro.
“Povera
donna” esclamò mia madre, evidentemente riferendosi a Lois “quante gliene
dovranno capitare ancora?” Ma io la vedevo un po’ diversamente: certamente non
era stata fortunata, il destino le aveva riservato prove difficili, ma lei non
aveva provato sulla pelle quello che invece aveva vissuto Allison. Ora la capivo,
la mia piccola, quando diceva che sua madre non la capiva, che non si sarebbero
mai capite e che non bastava sedersi a prendere un caffè per risolvere il mare
di problemi, incomprensioni e rancori che c’era tra loro.
Per
cui certamente le avrei aiutate a ritrovarsi, ma certo non avrei più forzato la
mano. Spesso mi fermavo a pensare, e non a caso, che Allison avesse ragione: e
anche quella volta era così, come sempre del resto.
“Tyler?”
Les mi chiamò dal corridoio e accanto a lui il medico che, appena arrivato,
trovai al letto di Allison a medicare le ferite. Mi alzai, senza dire nulla mi
diressi fuori da … no, non eravamo in una stanza, perché c’erano solo delle
tendine a dividerci dagli altri malati… mi allontanai insomma dal letto e mi
diressi verso l’ingresso del reparto, dove c’era l’ufficio medici e lasciando
indietro anche Les e mia madre. Io mi sentivo responsabile di Allison e di
quanto le era accaduto, io ne avrei reso conto ad Allison stessa e ai suoi genitori,
nonostante lei fosse maggiorenne ed indipendente da loro.
Il
dottor Hernandes, un uomo di mezza età con la divisa verde da chirurgo ed il
camice bianco, mi condusse fino alla sua scrivania, dove aveva lasciato la
cartellina dedicata ad Allison. Sembrava un tipo taciturno e pragmatico,
nonostante le sue origine ispaniche farebbero sospettare un’indole più aperta. O
forse la questione era ben più grave e non lasciava spazio a sorrisi.
“Allora
dottore, mi dica …” lo incalzai mentre, dopo un tempo che a me era sembrato
eterno, se ne stava ancora a sfogliare le sue carte.
“Dunque”
esordì “la signorina è arrivata in ospedale priva di sensi, tuttavia i suoi
parametri vitali erano presenti, sebbene fossero alterati … e aggiungerei anche
logicamente, vista la situazione di shock e la notevole perdita di sangue subìta.
Al Pronto Soccorso sono stati eseguiti degli esami del sangue in emergenza, ma
essi sono risultati tutti nella norma e abbiamo scongiurato, per il momento, la
necessità di una trasfusione. Quando l’hanno portata qui in reparto le ho
autorizzato una Radiografia al cranio, visto che non era più priva di sensi, ma
era alquanto soporifera”. La qual cosa mi preoccupò non poco, visto che era di
là che dormiva, ma non avevo il coraggio di fare la figura di merda e chiedere
se il fatto che dormisse fosse un bene o un male. “Tuttavia” riprese l’uomo,
risollevandomi un minimo il morale “non ho riscontrato alcuna frattura al
cranio. Però nei prossimi giorni vorrei farle fare una TAC e una visita
neurologia, perché potrebbe aver subito qualche trauma che è al di là di ciò
che con i raggi possiamo vedere”.
“E
le ferite?” domandai, cercando di mostrarmi partecipe; non che non lo fossi, è
che avevo la tendenza ad estraniarmi quando ero particolarmente concentrato.
“Sono
un bel po’, sparse su tutto il corpo. Soprattutto graffi e qualche taglio”
spiegò “e tanti lividi. Mi dispiace essere così crudo, ma l’hanno riempita di
botte. La sua ragazza non mi ha risposto mentre la visitavo, perciò vorrei
escludere l’ipotesi di violenza carnale con una consulenza ginecologica.”
Bonjour
finesse. Grazie tante, eh. Raggelai e fui costretto a sedermi perché non potevo
concepire che qualcuno potesse essersi accanito su quell’esserino così fragile
ed indifeso con tanta veemenza e crudeltà gratuita. Ma quel che andava fatto,
andava fatto, dovevamo sapere tutti la verità. Soprattutto Allison.
Mi
sentivo un fuoco ardere in gola e seccarmi la lingua, atrofizzandola. Il chirurgo
venne a sedersi al mio fianco, invece che al suo posto, di fronte. Aveva una
brocca d’acqua tra le mani e me ne offrì un bicchiere. Lo feci fuori in un nano
secondo, distruggendo anche il bicchiere che era di carta. Il mio interlocutore
non si scompose, probabilmente aveva a che fare con gente come me tutti i santi
giorni.
“Non
si preoccupi” mi disse, dimostrandosi finalmente più gioviale “gliela rimetto
in sesto la sua ragazza!”
Ed
io tirai fuori un leggero sorriso, sollievo misto a tutta quella stanchezza
accumulata. Non mi interessava se fosse rimasta qualche cicatrice, non mi
importava se avesse zoppicato o se avesse dovuto portare gli occhiali per
leggere d’ora in avanti, l’importante era riaverla con me, a casa, seduta sul
letto con il computer portatile sopra le gambe o allungata in poltrona a vedere
la serie tv di turno. Mi interessava poterla abbracciare di nuovo, soprattutto
senza dover più temere niente e nessuno.
Passammo
la notte da soli, io ed Allison, nonostante mia madre mi avesse implorato di
lasciarle il posto, ma dormire a casa, da solo, sapendo lei in un letto d’ospedale,
era impossibile. Così restammo lì, io nella poltroncina più scomoda del mondo e
lei nel letto, immobile ma smaniosa, ora infastidita dalla luce di corsia, ora
per la sirena di un’ambulanza, ora per i dolori che le riaffioravano.
Il
mattino dopo, mi allontanai giusto l’oretta necessaria a me per tornare a casa
e per cambiarmi, a lei per essere ripulita da capo a piede dalle infermiere,
che gentilissime le fecero il bagno a letto, togliendo tutto il sangue anche
dai capelli con un bello shampoo, anche se non capivo bene la dinamica del loro
operare. Avevamo detto loro che sarebbero arrivati i suoi genitori e loro le dissero
che non poteva farsi trovare sporca e puzzolente (sì, puzzava leggermente). A sua
madre, e qui dovevo dargli ragione, sarebbe preso un infarto. Sembrava stare
meglio Allison, il che mi mise decisamente di buon umore. I dolori li aveva
ancora dappertutto, come giusto che fosse dopo quello che aveva passato e
nonostante la dose di antidolorifici fosse ancora massiccia, ma sembrava sopportarli
meglio e lo spavento sembrava essersi allontanato. Era una leonessa la mia
Allie, e come tale si sapeva rialzare alla grandissima. Era molto più forte di
me, su quello c’erano pochi dubbi.
Quando
tornai, più tardi del previsto, mi incontrai con i genitori di Allison giusto
fuori dalla porta del reparto, e capii che non era il momento per entrare. Li
abbracciai entrambi, visto che era dalla mia toccata e fuga da Indianapolis che
non li vedevo. Li avevo sentiti spesso, ma era la prima volta che me li
ritrovavo davanti da quando ero tecnicamente loro genero; faceva uno
stranissimo effetto.
“C’è
il medico legale dentro” mi disse Doug. Mi prese un attimo un attacco di
panico, ma poi mi ricordai che non fanno solo autopsie quei poveretti. “È
venuto con la polizia, sta analizzando tutte le ferite di Allison” mi spiegò
infatti Doug … mio suocero. Si, era decisamente strano, meglio togliersi quella
idea stramba dalla testa.
Lui
era al solito una roccia, stava in piedi davanti alla porta d’ingresso e
sembrava non scalfirlo nulla. Lois invece era come la ricordavo, la casalinga
per bene della borghesia di provincia, camicia e gonna, filo di perle
perennemente al collo e borsetta sopra le gambe, impaziente e nervosa, come se
fosse seduta su un letto di chiodi anziché una panca in plastica. Voleva bene
alla sua bambina, allo stesso modo di suo marito, eppure c’era qualcosa che si
era rotto qualche anno prima, qualcosa che ora da parte sua era tornata
apposto, ma che Allison doveva ancora ritrovare.
“Come
siete arrivati fin qui?” le domandai, sedendomi accanto a lei per rompere il
ghiaccio e tentare di calmarla. “Il signor Hawkins … ehm, tuo padre. È stato
così gentile da mandare il suo autista a prenderci all’aeroporto” immaginai che
mia madre dovesse aver suggerito quella mossa, sebbene agli occhi del suo
dipendente e sua moglie apparisse l’immagine di un uomo gentile e premuroso. “Lo
abbiamo trovato qui quando siamo arrivati … è venuto a trovare Allison prima di
andare a lavoro” intervenne allora Doug. Questa proprio non me l’aspettavo. “Oh
Tyler è stato così gentile” proruppe allora Lois “ci ha invitati a stare nel
suo appartamento fin quando non ripartiremo. Ma non vogliamo abusare della sua
generosità”
“E
perché no?!” obiettai. Quando vi ricapita
tanta generosità da parte di quell’orco, pensai. “Lui non c’è mai a casa,
molte volte si ferma persino in ufficio a dormire … ha una piccola stanza lì. Sapete
com’è … ha sposato il suo lavoro”
Odiavo
me stesso per risultare così gentile e garbato nei confronti di un uomo come
Charles che non lo meritava, ma loro avevano un’altra immagine di lui che non
mi sentivo di distruggere.
Vidi
Doug tentare una replica, ma ogni sua parola venne strozzata in bocca da un
urlo agghiacciante che venne direttamente dal reparto. Non bastarono le pareti
semi isonorizzate ad attutirlo. Ci guardammo terrorizzati ed io corsi avanti,
battendo contro la porta chiusa a chiave affinché aprissero. Una volta dentro
mi fiondai verso il letto di Allison, ma venni bloccato dai poliziotti che
avevo conosciuto il giorno prima. L’unica che fecero passare fu la madre, Lois.
Mentre Doug chiedeva, concitato, spiegazioni, tutto quello che io riuscivo a
sentire erano il pianto inconsolabile della mia Allie e le sue grida quasi
incomprensibile. “Guarda! Guarda!” sembrava dire tra i singhiozzi, forse
rivolgendosi a sua madre.
Spinsi
per andare oltre e raggiungerla, ma il poliziotto che avevo ribattezzato il
gorilla, di cui non ricordavo il nome, mi fermò dicendomi che era stata Allison
a chiedere di non lasciarci avvicinare. A cosa era dovuto questo cambiamento
così repentino? Perché aveva consentito a sua madre di avvicinarla e a me e a
suo padre no?
Intanto
il dottor Hernandes parlava con Doug, così mi avvicinai a loro, sperando che il
mio nervosismo si placasse. “La ferita che però più mi preoccupa è quella al
volto” spiegò il chirurgo “spero che si rimargini bene altrimenti dovremmo
intervenire chirurgicamente.” Dunque era per quello che Allison stava urlando:
una brutta ferita profonda sul volto. Non voleva farsi vedere, soprattutto da
noi che le eravamo più cari, ma avrebbe dovuto sapere che per noi non era il
volto a renderla la persona speciale che era. “Ne ho già parlato prima con i
poliziotti” riprese “perché sinceramente appena medicata mi è parsa subito
molto strana … quasi intenzionale”
“Che significa intenzionale?” intervenni. Non
capivo; ogni singola ferita procurata era intenzionale, non possono averla
ridotta ad uno straccio accidentalmente.
“È
la forma che mi ha insospettito, non è quella di una ferita inferta a caso … è
come se avessero voluto sfregiarla, lasciarle un marchio … ed il medico legale
è della mia stessa opinione. E le urla della povera Allison hanno confermato i
nostri sospetti …”
Vidi
in fondo al corridoio Lois che usciva dalla piccola stanzetta di fortuna dove era
ricoverata Allison. Era seria, provata. Fece cenno a me e Doug di venire
avanti. Poco prima che potessi essere sufficientemente vicino da vedere Allie
oltre la coltre di medici e infermieri che la coprivano, Lois si avvicinò e
poggiando una mano sul mio petto mi bloccò. “È sconvolta, la stanno sedando … è
terribile quello che le hanno fatto, povera la mia piccola”.
Ero
ancora più scioccato, perché non riuscivo a capire cosa ci fosse che non
andava, oltre la ferita che le avevano lasciato sul volto. Era stata
violentata? … no, non dovevo pensarla nemmeno una cosa tanto brutta. Chi era la
carogna che avrei dovuto mangiarmi fino all’ultimo grammo di carne?
Mi
avvicinai, cauto, temendo che solo a vedermi si sarebbe agitata ulteriormente
ed era l’ultima cosa che tutti noi volevamo. Non sapevo cosa aspettarmi,
sinceramente … una bruciatura, una guancia corrosa dall’acido … nessuno che si
fosse degnato di prepararmi. E tremavo, tremavo come una foglia. Non perché avessi
paura di vederla, ma perché avevo il terrore che i miei occhi e il mio viso
potessero tradirmi ed ingannare Allison. Non l’avrei mai lasciata, ma una
reazione sbagliata, anche non voluta, avrebbe potuto far crollare tutto. Tieni
duro cuore, sii forte, pregavo dentro di me.
Fu
allora che la vidi: i nostri sguardi si incrociarono e in lei il lago di
lacrime torno prepotente a galla, come se non avesse pianto fino ad allora. Mi focalizzai
sui suoi occhi, così verdi e così lucidi, così splendidi che quasi non vidi il
grande squarcio sulla gota sinistra. Erano più d’uno anzi, quattro linee
oblique che riempivano l’intera guancia, unite a formare un disegno continuo,
una lettera forse, la W. Lei continuava a fissarmi, come se cercasse qualcosa
in me, come se mi implorasse. Cosa voleva? Perdono? Scuse? Non c’era niente da
perdonare e niente per cui scusarsi. Io la volevo solo vedere felice. Eppure non
c’era niente di felice in quegli occhi, quegli occhi così tristi che le avevo
visto solo una volta da quando la conoscevo: quando, cioè, scappò via dai suoi
aguzzini che volevano farla fuori. Quando non aveva più nulla, quando era solo
una ragazzina che per tanto tempo aveva negato anche a sé stessa la verità di
quella squallida vita.
Poi
ebbi un lampo, il ricordo di quella mattina, dopo che avevamo fatto l’amore la
prima volta, quando incontrò mia madre e le confessò quale fosse il suo mestiere.
“Per quanto mi ostini a ripetere a me stessa e
agli altri che sono una ballerina io sono una prostituta!”
Mi
sedetti sul letto, accanto a lei, che mi abbracciò forte, come non aveva mai
fatto prima, e scoppiò di nuovo a piangere. Nessuno era rimasto attorno a noi,
nessuno che ci fosse né d’intralcio né d’aiuto; non ne avevamo bisogno: ancora
una volta ci bastavamo, io e lei insieme.
Non
era stata violentata: peggio. Le era stato inflitta una punizione, un marchio
perenne. Lei lo aveva sfidato ed era sopravvissuta, lo ha sfidato di nuovo e lo
ha quasi messi in galera e lui ha risposto così, imprimendole sulla pelle il
ricordo di ciò che era stata e che secondo lui sarebbe stata per sempre.
W.
Whore. Puttana.
No, non per me. E mentre la consolavo, avevo ancora addosso la sensazione di un paio di occhi che mi fissavano.
NOTE FINALI
Oggi mi trovate di pochissime parole. Ho una connessione di cacca XD e questo capitolo mi ha letteralmente prosciugata.
Spero vivamente che abbiate voi qualcosa da dire a proposito perché vi
lascio la parola e vi do appuntamento tra un paio di settimane. Se
siete shockate lo sono io quanto voi...forse un po' di più...perché ho
dovuto trovare le parole giuste, quando di parole ce ne sono veramente
poche.
Vi lascio solo un paio di appunti per la riflessione: ecco spuntare un
nuovo personaggio, Neil Craig, padre di una certa Alyssa Craig, interpretata in Remember Me dalla bellissima e dolcissima Emilie De Ravin ... e
poi, di chi sono quel paio di occhi che Tyler continua a sentirsi
addosso?
à bientot
Federica