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Autore: Noth    17/04/2012    11 recensioni
(Lo sai, delle rondini?)
« Hai perso il lavoro? »
« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »
L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.
« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.
Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.
« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.
Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.
« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Do you know about swallows?
-Capitolo 1-










Le strade erano la mia casa. Quell’odore di smog soffocato, il vento impervio che trascina con sé la pioggia ed il senso di vuoto che precedeva l’assenza di traffico che, a New York, era più un miracolo che una realtà, li sentivo quasi come miei. Le panchine erano le mie migliori amiche, assieme ai piccioni con i quali intavolavo discorsi al pari di un filosofo. Il freddo della notte non mi aveva mai fermato, anche se penetrava oltre il colletto del vecchio cappotto scuro e mi solleticava la barba che non avevo mezzi per tagliarmi e rimaneva ispida ed incolta come quella di uno di quei cantanti rock degli anni settanta. I capelli erano già ricci e disordinati senza l’aiuto del vento e dei cartoni scomodi sui quali dormivo, ora si potevano definire più un nido di qualche animale che doveva essere stato molto coraggioso se aveva deciso di crearsi una casa del genere.

Okay, okay, va bene magari non era proprio un’opera d’arte.

Bastava solo un po’ di immaginazione e di conoscenza dell’astratto, sono sicuro che qualche autore del passato, almeno uno, avrebbe giudicato quel casino aggrovigliato una scultura di inestimabile
valore.

O almeno credo.

Le giornate non erano poi così monotone, in quella vita da nomade. Okay, nemmeno nomade era esattamente il termine più adatto, ma lo preferivo a barbone. Dopo tutto quella vita me la ero scelta, e
non era affatto male. Certo, se non si contavano le pulci, il tempo atmosferico ed i ragazzini che la mattina non si accorgevano che ci fosse qualcuno sotto ai giornali e ci si sedevano beatamente sopra,
non creando di certo un gran risveglio.

Quella giornata non si stava evolvendo troppo bene. Era pomeriggio ed cielo era nuvoloso, il che, secondo il mio infallibile istinto di uomo di strada – o meglio senza un tetto sopra la testa – significava
che entro la giornata avrebbe piovuto e che io non avrei avuto un riparo e che sarei dovuto andare ad imbucarmi a Central Park alla ricerca di un albero che fosse abbastanza generoso da farmi da
ombrello.

Inoltre avevo perso i cinque dollari che avevo nella tasca del giubbotto, soldi che avevo trovato dentro un cassonetto in una vecchia scatola da scarpe, visto che la giornata da musicista non era stata
troppo fruttuosa.

Eh, sì, avevo l’abitudine di rovistare tra i rifiuti ma, a lungo andare, si era rivelato più interessante che disgustoso. C’erano un sacco di cosa che la gente buttava che, in realtà, erano terribilmente
interessanti. Lettere strappate che non si voleva ricordare, lacci colorati per le scarpe solo un po’ passati di moda, biglietti dell’autobus usati che potevano benissimo venire riutilizzati, vista la
mancanza di controlli che veniva fatta su quei mezzi.

Era interessante, non era monotono, nella mia vita qualsiasi cosa la smuovesse anche solo un po’ era incredibilmente eccitante.

In realtà ero un po’ come un bambino: mi ci voleva poco per divertirmi ed ancora meno per smontarmi, ma il mio entusiasmo era sempre stato inesauribile, ed amavo l’idea di ridere e di muovermi,
mentre detestavo il pensiero di stare fermo ad aspettare e, per mia fortuna, New York era la città che non dormiva mai.

Che ci faceva uno come me a New York? Bè, tante cose.

Per iniziare ci avevo passato buona parte della mia vita a causa del lavoro dei miei, che poi avevano deciso di ripudiarmi come figlio a causa della mia omosessualità e, bè, andarmene era stata la scelta
migliore della mia vita. Avevo preso il portafoglio mezzo vuoto e la chitarra. Avevo detto addio a tutto e tutti, avevo salutato per sempre Paul, Adrianne e Cooper Anderson.

Ora ero solo Blaine. Un cognome non mi serviva e non volevo averlo.

Che me ne facevo di un cognome?

Sicuramente non potevo mangiarlo.

Era incredibile come avessi sempre la custodia della chitarra in spalla, mentre dormivo addirittura, ed avevo anche trovato un modo efficace di chiuderla così che nessuno, a parte me, riuscisse ad
aprirla e quindi rubarmela. Poi, solitamente, mi mettevo agli angoli delle strade e cantavo, suonando un po’, allietando il mondo con le mie storie da vagabondo e da conoscitore dei posti più strani della
città. Chi se non un uomo come me che non aveva una fissa dimora poteva dire di aver girovagato più o meno per l’intera Grande Mela?

Magari non tutta ma... buona parte.

Avrei dovuto smetterla di correggermi, e lasciare quelle frasi ad effetto che mi facevano sembrare molto figo e misterioso, ma temevo di non esserlo.

Fingiamo che lo fossi.

Come volevasi dimostrare le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere dal cielo, macchiandomi il cappotto e mettendomi subito alla ricerca di un riparo mentre correvo per le strade di Manhattan.
Non avevo paura della pioggia, ma non mi metteva di buon umore. Faceva calare una cappa di freddo e di fretta sulla città. Tutti correvano ancora più del solito ed erano il triplo più maleducati.

Mentre le gocce si facevano più grosse e più fitte pensai che non potevo entrare in un negozio perché, in quelle condizioni, mi avrebbero sbattuto fuori, e non scorgevo supermercati o Music Shops
sgangherati che avrebbero preso la mia mancanza di stile per il tentativo di emulazione di qualche cantante di stile vintage o grunge.

Con la custodia a tracolla che mi sbatteva sulla schiena, come sempre, mi alzai il colletto nel tentativo di coprirmi la testa, ma poi a che serviva se non avrei mai avuto l’opportunità di asciugarmi sul
serio? Sarei comunque stato fradicio.

I lati negativi dell’essere un senzatetto/vagabondo/nomade/barbone.

Con la coda dell’occhio, quando la visuale si era oramai fatta nebbiosa e poco distinta, scorsi un bar scalcinato che sembrava abbastanza mediocre da accettare la mia presenza, e poi la pioggia sarebbe
stata una scusa per spiegare il mio aspetto precario.

Attraversai la strada, facendomi quasi investire da un taxi sparato a tutta velocità, e spalancai la porta del bar che, con mia grande sorpresa, era semi vuoto. Dentro c’era solo il barista, una ragazza
bionda con un corpetto molto scollato e dei pantaloni della tuta che non si abbinavano per nulla, un vecchio signore in giacca e cravatta ed un ragazzino che avrà avuto sedici anni, seduto accanto ad
una vecchia signora con tanto di scialle e cappello in tinta con i guanti.

Di colpo mi assalì un dubbio: con cosa avrei comprato da bere? Se non prendevo nulla sarei stato costretto ad uscire di nuovo sotto l’acquazzone, e mi corse un brivido lungo la schiena al solo pensiero.

Mi sentivo un cane bagnato e mi dovetti trattenere dall’impulso di scuotermi per schizzare l’acqua che avevo addosso tutt’intorno a me.

« ‘Giorno. » mormorai, pulendomi le scarpe sul tappeto a terra, ed avanzando verso il bancone, maledicendo il momento in cui avevo perso quei maledetti cinque dollari.

Il barista, che puliva un bicchiere e metteva in mostra la sua testa lucida che rifletteva la luce delle lampadine a basso consumo, alzò lo sguardo distrattamente e sorrise illuminando gli occhi chiari.
Sembrava uno di quegli uomini che avrei voluto diventare un giorno, con il sorriso di un bambino e gli occhi di un padre che non ha ancora smesso di sognare.

« Ragazzo mio, per la miseria, sei zuppo come un cencio. » borbottò, e si appoggiò al bancone, guardandomi ed attendendo che ordinassi.

« Ecco io... Mi dispiace, signore, non ho un soldo. Sono entrato per ripararmi dalla pioggia. » spiegai, imbarazzato, facendo spallucce innocentemente.

L’uomo alzò un sopracciglio, e parve che il bar diventasse ancora più silenzioso. La ragazza smise di parlare al telefono, la vecchietta si zittì nel raccontare al sedicenne chissà quale incredibile
esperienza e il tipo in giacca e cravatta smise di borbottare tra sé, o magari all’auricolare bluetooth.

« Dimmi un po’, specie di vespaio vagante, mica ce l’hai una casa? » chiese mettendosi le mani sui fianchi come una di quelle donne di colore delle serie televisive che guardavo da piccolo.

Sospirai.
« No, signore, vivo per strada. »

« Hai perso il lavoro? »

« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »

L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.

« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.

Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.

« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.

Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.

« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.

Alzai lo sguardo dal legno lucido e, per la prima volta in vita mia, mi domandai perché il resto del mondo non potesse pensarla allo stesso modo.

Incontrai gli occhi chiari dell’uomo e, per un secondo, mi parve di vedere una scintilla di affetto nelle sue iridi. Una scintilla che non vedevo da secoli e che mi mancava molto.

« Dai, ragazzo, offro io questa sera. Prendi quello che vuoi. » disse, e non ebbi il coraggio di rifiutare. Mi avventai sui salatini e chiesi un paio di bottiglie di birra. Mi sentivo un approfittatore, ma la
fame e la sete erano dure da placare, e sentivo il bisogno dell’alcool nelle vene per sopportare quella che sarebbe di sicuro stata una nottata piovosa.

L’uomo non mi fece pensare che chiedessi così tante cose, sembrò intenerito dalla mia storia e, anche se non era mia intenzione quella di suscitare pena, gli sorrisi. Non sembrava nemmeno pena quella
che gli brillava negli occhi.

Gli guardai il nome cucito sulla camicia che indossava e, nonostante dopo le prime due bottiglie di birra la mia vista iniziasse già a farsi più sfuocata, riuscii a scandire il suo nome.

« Burt. » biascicai, appoggiando i gomiti al bancone mentre lui ridacchiava allegramente.

« Già, l’ha cucito mia moglie prima di morire. » spiegò, poggiando il bicchiere che si ostinava a pulire.

Deglutii un sorso della mia terza birra, con la vista annebbiata ed il mondo che girava a colori accesi mentre sorridevo fuori luogo.

« Avevate figli? » domandai, cercando di distrarre il discorso dalla moglie defunta.

L’uomo sospirò ed annuì, guardandomi con un’espressione così paterna che dovetti distogliere lo sguardo. Era chiaro che avevano avuto figli, e da quell’espressione dovevano anche averli amati molto.

Fui subito molto invidioso e poco controllato a causa dell’alcool.

« Sì, avevate figli. » borbottai con un insensato tono acido.

Lui rise e mi poggiò una mano sulla spalla.

« Ragazzo, i figli vanno amati in ogni caso. Credo che i tuoi non fossero semplicemente bravi a fare i genitori. »

Grugnii infelice, incassando la testa tra le spalle. Male, l’alcool stava finendo sul cuore invece che sulla testa. Con la testa avrei mandato quel discorso a farsi fottere, ma con il cuore bruciava ancora.

« Sì, e per colpa della loro inettitudine io devo sentirmi una specie di merda ambulante che si guadagna a malapena quello che mangia con la sua stupida chitarra che non fa altro che ricordargli ogni
giorno quanto amato fosse prima che... »

« Stop. » Burt si girò di scatto, bloccandomi a metà del discorso. « Figliolo, vedila come un’opportunità, non un errore. Insomma, stai sperimentando sulla tua pelle una vita interessante. Nessun
padrone, nessun dovere, nulla di nulla. Sei libero. È un’opportunità, questa. »

Ridacchiai in modo stonato, e solo allora notai che la vecchia signora si era avvicinata alle mie spalle.

« Su con la vita, ciccio, senza legami si sta più che bene. Si ricomincia da zero, si da il via ad una nuova vita. Sei stato fortunato ad avere questa seconda opportunità, non buttarla ai cani come se non
fosse niente, per l’amor di Dio. » brontolò, come una normale anziana che si rispetti. Era evidente che aveva ascoltato tutto il mio discorso con il barista.

Pagò Burt che la ringraziò con un sorriso e la chiamò “Signora Dulain”, prima di salutarla ed aspettare che uscisse dalla porta dalla quale ero entrato.

Finii la mia quarta bottiglia di birra ed il bar iniziò ad ondeggiare pericolosamente.

« Lo sa... lo sa qual è la cosa peggiore? » biascicai, ridendo, anche se non c’era niente da ridere.

Burt mi guardò curioso.

« Che... che credevo davvero mi volessero bene. Ma chi se ne frega. Affanculo questa città, affanculo loro e affanculo la schifosa vita che conducevo. Perché io ora sono libertino. »

« Volevi dire libero? »

Liquidai il discorso con un gesto della mano.

« Stessa cosa. » cantilenai, e mi appoggiai sul bancone con le braccia mentre ridevo come un idiota, nel mezzo di un bar nel quale, prima che potessi rendermene davvero conto, ero rimasto solo io.

« Che silenzio. » gridai, facendo riecheggiare la mia voce per tutte le pareti.

Odiavo il silenzio, ero arrabbiato con il silenzio, perché a casa mia era tutto quello che avevo ricevuto dopo aver fatto coming-out.

Affanculo anche il silenzio.

Inizia a cantare una canzone che avevo sentito più volte da piccolo, una canzone che non credevo di ricordare che parlava di un palloncino che andava sempre più in alto e, alla fine, scoppiava perché si
era spinto troppo in là.

Ma non mi importava ciò che stavo cantando, perché in quel momento era tutto troppo divertente, troppo colorato per rattristarmi sul serio. Continuavo a ridere e non mi importava più del resto.

« Amo questo bar! Amo... io amo questo bar! Lo sai Burt? Lo sai che lo amo? Ed amo anche te e quella tua testolina lucida e quegli occhi pieni di sogni e speranze che si infrangeranno. Già, li amo
davvero. E amo New York! Che è grande e dove... dove c’è sempre tutto. A proposito, lo sapevi che le rondini migrano e poi tornano quando il clima è meglio per loro? » blaterai.

« Volevi dire migliore? » mi corresse.

Sbuffai.

« Comunque sì, lo so, quando non si sta bene in un posto è normale scappare. » aggiunse.

« Ma non è normale tornare. » puntualizzai puntandogli un dito contro e chiudendo un occhio, mentre mantenevo un sorriso ebete sul volto.

« Perché no? Le cose cambiano, a volte diventano migliori. »

Scossi la testa,

« No, no no. Burt non cadere nella trappola dell’uomo medio! Le cose non cambiano mai, prima o poi ritornano comunque com’erano una volta. È un circhiolo. »

Lui sospirò. « Intendevi cerchio? »

« Cerchio, cosa ho detto io? Alla fine dopo la primavera e l’estate torna comunque il gelido inverno, e non tutti possono fare spola come le rondini. Non tutti possono volare. » spiegai, cercando di bere
un’altra sorsata, ma Burt mi fermò, guardandomi con aria triste.

« Direi che per oggi basta. » mi ammonì, togliendomi la bottiglia di mano. « Come può un ragazzo come te essere stato ferito così profondamente? » chiese, e prima che potessi rispondere caddi dallo
sgabello, sbattendo la spalla a terra e cominciando a ridere sguaiatamente.

« Perché... perché alla gente non frega niente di chi ferisce! Lo... lo fa e basta! » dissi, nel mezzo della risata, senza sapere se Burt avesse capito o no.

Burt mi raggiunse e mi afferrò per la spalla non dolorante, issandomi in piedi, sorreggendomi.
« Qual è il tuo nome, ragazzo? » domandò.

Prima di poterci pensare risposi:

« Blaine. »
Lui annuì.

« Bè, Blaine, questa notte vieni a casa mia. Non ho intenzione di farti uscire dal bar in questo stato. In primis per la reputazione di questo posto, e per secondo perché ti investirebbero subito. » annunciò, appoggiandomi al bancone mentre chiudeva il bar.

Quanto tempo ero rimasto là dentro se era già notte fonda? Non volevo saperlo.

Quando spense le luci iniziai a gridare.

« Non posso lasciare la mia chitarra! La mia... la mia chitarra! »

Lui mi afferrò e mi portò verso una porta nel retro che dava su una rampa di scale. Probabilmente abitava appena sopra il bar. Comodo, utile, meno dispendioso. Intelligente.

« Non ti preoccupare, ragazzo, domani sarà ancora là. Nessuno entra nel mio bar, te la riprenderai dopo una bella dormita, va bene? » domandò.

Biascicai qualcosa in risposta e, senza rendermene conto, eravamo già nell’appartamento. Era buio e non vedevo niente. Inoltre continuava a girare tutto.

Svoltammo dentro un corridoietto che dava su una stanza, e Burt mi appoggiò a terra mentre si dirigeva verso quello che sembrava un grande letto ad una piazza e mezza.

Lo sentii bisbigliare confusamente.

« Ehi. Kurt, ehi... ragazzo ubriaco... problemi familiari... vagabondo... stare qui con te... questa notte? »

Un mugugno lamentoso di assenso in risposta e due braccia mi sollevarono da sotto le ascelle gettandomi poi su un letto morbido, profumato, soffice. Un letto che sognavo da mesi. Sospirai
piacevolmente ma non riuscii ad intravedere il mio compagno di stanza. Era troppo buio.

« Piacere, sono... sono un ubriaco e sto occupando... occupo metà del tuo letto.. » biascicai, cercando di non ridere e respirando a fondo per combattere la nausea da sbornia.

« Sono contento, ed ora dormi, okay? Domani starai meglio. » rispose l’altro in un sussurro. La voce era molto acuta, poteva effettivamente essere una donna, ma il profumo era inconfondibilmente quello
forte di un uomo.

Avvolto in quella fragranza agrodolce, appoggiato su un materasso che non vedevo da mesi e completamente ubriaco sprofondai in un mondo fatto di nuvole di zucchero, prendendo sonno e pensando
che, per la prima volta da tanto tempo, mi sentivo amato ed a casa.  


























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Spazio Autrice:
Lo so, lo so scusatemi pensavo sarebbe stata una one-shot ed invece era diventato molto/troppo lunga, e ho voluto continuarla.
Quindi sarà una long.
NOn so di quanti capitoli.
La concilierò con Nobody Said It Was Easy, ovviamente!
Spero vi piaccia. A me, stranamente, piace.

Vostra,
Noth

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