Ho scritto la storia per il Scegli un classico - Contest classificandomi 1°
Il
mio Pacchetto - Il
ritratto di Dorian Gray :
-Frase:
“Le buone intenzioni sono inutili tentativi di interferire con le
leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità. Il risultato è il
nulla assoluto. Ogni tanto ci procurano una di quelle sterili e
voluttuose emozioni che hanno un certo fascino sulle persone deboli.
Tutto qui. Non sono altro che assegni a vuoto.”
-Personaggio:
Bellatrix Lestrange
-Oggetto:
libro
-Prompt:
casualità
-Obbligo:
Descrivere un'uccisione
-Divieto:
Inserire Lord Voldemort
Il
personaggio di Bellatrix nell'ultimo periodo è una costante fonte di
ispirazione. Non ho resistito a parlare un'altra volta di lei... ^^
Questa
volta però l'ho immaginata bambina – lo ammetto, anche per stupire
un po', visto quello che il contest richiedava!
Andromeda avrà
quindi 9 anni circa, Narcissa 7.
Non è facile immaginare il passato di una "bestia nera" come Bellatrix, perché si tende sempre a pensarla cattiva, bestiale e punto. Quando io parlo di lei, invece, cerco di "mettermi nei suoi panni", anche se non è facile, e di essere credibile.
La frase tratta da Dorian Grey l'ho collocata in un altro libro (anni a parte, non mi sembrava molto realistico immaginare una biblioteca di casa Black con testi Babbani!), inventato da me all'occorrenza, che ho chiamato "Anima nera e mani sporche di sangue" - per l'appunto.
Anima
nera e mani sporche di sangue
Primavera 1959
La
vita è quello che ti capita mentre stai facendo altri progetti*
–
Questa era la massima associata alla mia sorella maggiore, Andromeda.
Quella
di Narcissa, invece, era: La
bellezza è la miglior lettera di raccomandazione**.
Nel
primo caso era stato nostro padre, l'esimio Cygnus Black, a trovarla
e legarla alla vita della sua figlia prediletta. Nel secondo, nostra
madre l'aveva magicamente fatta comparire sulla coperta che avvolgeva
la neonata, quando un sorriso appena accennato dell'infante le aveva
irrimediabilmente e senza appello rubato il cuore.
Nessuno
si era preso la briga di trovare qualcosa di adatto per me, né alla
mia nascita né negli anni successivi. Al momento, ero la sola delle
sorelle Black a essere sprovvista di frase-guida.
Nonostante
questa mancanza, dentro di me sapevo di essere diversa dalle altre.
Lo
sapevo con una certezza che andava oltre la comprensione, lo sapevo
da sempre e con ogni fibra del mio essere.
Io
ero speciale... solo che al momento non mi era ancora chiaro dove
risiedesse la mia unicità.
Ma
io non sono come loro,
su questo non c'è alcun dubbio!
Me
lo ripetevo spesso, come un mantra, come una formula magica. E quando
lo pensavo caricavo quel 'loro' di forte risentimento, quasi di
disgusto.
Era
delle mie sorelle che stavo parlando! Avrei dovuto provare amore,
affetto verso di loro, eppure... Dentro di me la fiamma del
risentimento ardeva come fuoco vivo.
Nonostante
in teoria non avrei neppure dovuto conoscere simili sentimenti,
nonostante fossi solo una bambina di otto anni.
Quello
in vero me lo sentivo ripetere spesso - “Sei
troppo piccola, Bellatrix, crescendo ti si sveleranno tante cose che
ora non comprendi.”
Ma
le parole degli adulti non erano abbastanza per me. Non mi
rassicuravano, non mi trasmettevano i sentimenti positivi che
avrebbero dovuto.
Soprattutto,
non smuovevano di una virgola quelle che erano le mie convinzioni.
Anche
se ero piccola, ero irrimediabilmente più consapevole di me rispetto
ad Andromeda e Narcissa; senza dubbio ero più matura.
Nessun
discorso con voce suadente mi avrebbe mai potuto convincere del
contrario.
Io
ero un essere speciale.
Io
ero diversa da loro.
Forse
perché le mie sorelle avevano ricevuto negli anni un diverso genere
di amore - quello che va oltre le raccomandazioni e le ramanzine di
rito che erano rivolte a me –, che non le aveva portare a crescere
così in fretta come avevo fatto io.
Forse
perché loro erano state da sempre oggetto di quelle mille piccole
attenzioni che io mai avevo provato e non avevano avuto alcun bisogno
di accelerare il processo di maturazione. Forse perché loro avevano
accanto da sempre, uno per parte, i nostri genitori, pilastro e
sostegno per delle giovani vite, mentre io ero del tutto sola.
Tre
figlie per un solo padre e una sola madre. Era nell'ordine delle cose
che una di noi restasse esclusa. Era capitato a me.
Casualità?
Solo uno scherzo beffardo del destino? Non credevo in nessuna di
queste cose.
Avevo
otto anni soltanto, ma già ero certa che la mia vita, il mio futuro,
dipendessero da qualcosa di più forte, di più mio, che parole
astratte e forze superiori.
Se
le cose erano andate così doveva esserci un motivo più profondo, e
certo ne avrei tratto tutti i vantaggi possibili.
Forse
c'era stato un tempo in cui la cosa mi aveva fatto soffrire, ma quel
momento era passato per sempre. Avevo anche smesso di dare la colpa
dei mie mali a entità indefinite.
Io
non credevo nel caso, io non credevo nel fato.
Sarò
io a plasmare il mio futuro, nessun altro.
Forse poteva essere quella la mia massima...
* * * * * *
Un
giorno mi annoiavo girovagando tra i libri della biblioteca.
Leggere
non era tra le mie passioni, anche ammesso che io ne avessi una. Le
attività virtuose erano tutte appannaggio della mia sorella
maggiore, quelle frivole della minore, io come al solito mi trovavo
nel mezzo e in nessun luogo.
Scivolavo
tra i libri impilati sulle pareti, sui tavoli, in ogni spazio libero,
come un serpente tra l'erba. Il mio corpo esile di bambina si
infilava in ogni interstizio.
Allora,
forse davvero, ad agire fu l'invisibile e infida mano della
casualità.
Un
libro mi cadde letteralmente tra le braccia.
Non
ho mai potuto spiegarmi quello che successe quel giorno, nemmeno anni
dopo quando la mia conoscenza delle arti magiche – di ogni genere
di arte, anche la più oscura – raggiunse livelli sconosciuti alle
mie care sorelle e a quasi tutti gli altri maghi e streghe del mondo.
Ho
cercato un motivo razionale all'accaduto, ho fatto esperimenti, ho
provato magie...
Non
ho trovato nulla.
Per
l'unica volta nella mia vita, ancora oggi, la sola spiegazione
plausibile della cosa sembra risiedere nella forza del caso.
Di
primo acchito osservai l'oggetto con scarsa curiosità, ma il titolo
in rilievo attirò il mio sguardo e mi sedetti a terra per sfogliare
qualche pagina.
“Anima
nera e mani sporche di sangue”, almeno non sembrava una storia da
bambini.
Lessi.
Non
lo era.
Le
pagine raccontavano la vita di un mostro, un mago che aveva
sacrificato tutto per il potere e la gloria, macchiandosi di ogni
genere di nefandezze e crimini. Erano pagine intrise di assassinii,
crudeltà, morte. Il dolore trasudava quasi dalle righe vergate in
inchiostro nero sulla carta bianca un po' consumata dal tempo.
Le
mie sorelle sarebbero fuggite davanti a un simile libro; sarebbe
fuggite e avrebbero cercato rifugio tra le braccia rassicuranti dei
nostri genitori.
Io
non ero come loro.
Andai
avanti per diverse ore a leggere, pagina dopo pagina, atrocità dopo
atrocità, finché trovai una frase che catturò la mia attenzione
come nessun'altra:
“Le
buone intenzioni sono inutili tentativi di interferire con le leggi
scientifiche. Nascono dalla pura vanità. Il risultato è il nulla
assoluto. Ogni tanto ci procurano una di quelle sterili e voluttuose
emozioni che hanno un certo fascino sulle persone deboli. Tutto qui.
Non sono altro che assegni a vuoto.”
C'era
qualcosa in quelle parole che mi dava un brivido lungo la schiena.
Ebbi
l'impressione che contenessero un segreto, qualcosa di celato al
mondo. Di più, pensai d'istinto che quel qualcosa fosse destinato
solo a me.
Scorsi
le poche righe con gli occhi una, due, dieci volte. A ogni passaggio
era come se più elementi mi apparissero davanti, come se mi
venissero rivelati una miriade di significati...
Nessuna
inutile buona intenzione in cui crogiolarsi la sera per sentirsi una
persona migliore per te, Bellatrix. Nessun rammarico o pentimento per
le azioni compiute.
Un
fine, un obiettivo, tu l'unica arma con cui realizzarli.
Ecco
il mio futuro, ecco il mio destino. Scritto nero su bianco in un
vecchio libro.
Strinsi
al petto il volume consunto, come se potesse darmi un barlume di
quell'affetto che non avevo mai ricevuto dalle persone intorno a me.
Fu
solo un attimo.
“Non
hai bisogno di loro.”
Prima
fu solo un sussurro tremolante che uscì dalle mie labbra quasi di
propria volontà.
“Non
hai bisogno di loro.”
La
seconda volta la mia voce acquistò sicurezza.
“NON
HAI BISOGNO DI NESSUNO!!”
Lo
dissi infine quasi gridando; lo dissi alle pile di tomi vetusti,
ascoltatori ignari della mia confessione. Lo dissi, e per la prima
volta ne fui convinta davvero.
Avevo
appena trovato la mia strada.
Ma
dovevo provarlo.
Dovevo
fare qualcosa per capire se quello che credevo di avere appena
appreso – nessun rimorso, nessun pentimento, nessuna buona
intenzione - era davvero il filo rosso della mia esistenza o se era
solo la suggestione di una bambina.
Mi
alzai dal pavimento, il libro ancora tra le braccia, un sorriso
appena accennato, ma terribilmente cattivo sulle labbra.
Sapevo
perfettamente cosa fare per mettermi alla prova.
Intorno
alla nostra dimora di famiglia si estendeva un immenso e florido
giardino. Era l'orgoglio di mia madre, che se ne prendeva cura con
grande dedizione. Ogni giorno passava ore e ore all'aperto,
innaffiando le aiuole, potando gli alberi, sistemando i vialetti. Non
aveva mai voluto saperne di assumere qualcuno che si caricasse di
quelle incombenze al posto suo.
Ognuna
di noi tre sorelle ne aveva ricevuto in dono alla nascita un piccolo
appezzamento, per farci crescere o costruire quello che preferiva.
Andromeda
aveva voluto solo rose nello spazio destinato a lei. Aveva chiamato
ogni spazio con il nome di una costellazione, e così c'era l'Orsa
polare, dove crescevano splendidi fiori purpurei, i Gemelli, dove
svettavano gialli boccioli, e ovviamente, il Cigno, dove solo rose
bianchissime e pure trovavano spazio.
In
accordo con il mio carattere ribelle, io avevo lasciato incolto il
mio pezzo di terra. Avevo permesso alle erbacce di prosperare,
l'edera ricopriva la vecchia altalena che un tempo era stata il mio
passatempo preferito. Mia madre non aveva obiettato apertamente a
questa decisione, ma vedevo bene dal cipiglio che compariva sul suo
bel viso quando i suoi occhi si posavano su quella piccola oasi
trascurata e scura quanto la cosa la disturbasse.
Narcissa
aveva sorpreso tutti, visto il suo egoismo di bambina e il suo
narcisismo, chiedendo dei coniglietti da allevare. Il pensiero comune
era che le bestiole non sarebbero sopravvissute una settimana, che
lei li avrebbe dimenticati passato il primo periodo di eccitazione.
In
ogni caso, a nessuno era passato per la mente di opporsi al
capriccio. Nella piccola area a lei destinata erano stati fatti
comparire un recinto e una casetta in legno, e dopo qualche giorno
erano arrivati anche i primi due coniglietti.
Nonostante
le perplessità generali, la mia sorella minore si era presa cura sul
serio di quelle creature e non si era stancata, tanto che nel corso
degli anni la popolazione del recinto si era moltiplicata ed era
stato necessario un ampliamento.
Narcissa
amava i suoi animali. Ogni giorno passava molto tempo con loro, li
nutriva con amore e pazienza, e loro la seguivano come figlioletti
ubbidienti.
Le
piccole palle di pelo non fecero molto caso a me, quando aprii il
cancelletto del recinto ed entrai nel loro piccolo mondo. Erano
avvezzi da sempre alle intrusioni umane e non si aspettavano niente
di diverso che cibo o attenzioni.
Un
coniglietto più intraprendete degli altri si spinse fino ad annusare
con il nasino rosa l'orlo della mia veste.
Mi
abbassai e lo presi tra le mani.
Era
piccolo, era morbido, era del tutto indifeso...
Nessun
rimorso, nessun pentimento, nessuna buona intenzione.
Gli
spezzai il collo con un gesto secco e deciso. Sentii il rumore delle
ossa che si rompevano risuonarmi nelle orecchie forte come uno
scoppio.
Non
provai nulla.
Lascia
cadere a terra il corpicino senza vita. Sembrava niente più che una
bambola spezzata, bianco contro il verde dell'erba.
Con
passo fermo e mente lucida mi avvicinai agli altri animali, che si
erano ritirati verso la loro casetta, quasi fossero consapevoli di
quello che si prospettava per loro...
Una,
due, dieci volte, ripetei la macabra operazione con gesto quasi
meccanico.
Quando
restai la sola cosa viva nel recinto, mi fermai come in trance.
Con
i corpi dei conigli candidi riversi tutto intorno a me come un
macabro tappeto, le braccia indolenzite per lo sforzo compiuto,
provai per la prima volta un senso di potere assoluto.
L'onnipotenza
mi attraversava il corpo come una scarica elettrica.
Fu
solo un momento, ma fu sufficiente per darmi le conferme di cui avevo
bisogno.
Avevo
trovato la mia strada.
Mi
avviai verso casa con passo fermo, l'anima un po' più nera e per la
prima volta, le mani sporche di sangue altrui.
Nessuna
emozione a turbare la mia micidiale calma.
* * * * * * * * * * * * * *
* John Lennon
** Aristotele