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Autore: PaganGod    20/04/2012    1 recensioni
Può un'anima terribile, che vorrebbe soffocare nella morte le sue colpe,
salvare un'anima che vive nel rimorso?
Può un mago assassino lottare per la redenzione di chi vive in un incubo?
Parthan inizia un viaggio, per racimolare un po' di imperiali,
ma scoprirà che non c'è solo morte sul suo cammino
e che la redenzione può giungere dai percorsi più oscuri...
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“…conobbi Parthan in una topaia vicino al porto. 
Indossava una divisa rossa e fumava enormi sigari puzzolenti. 
Un giovane arrogante, uno sbruffone, un povero pazzo, pensai.
Sono trascorsi molti anni eppure narro ancora le sue gesta…”
 
 
Ali di Corvo
 
 
Nere ali applaudivano al vento, veleggiando leggere e sibilanti, nella brezza lieve di una notte senza luna. 
I corvi, messaggeri degli dei, gracchiavano nel cielo immenso, profondo come l'oceano primordiale.
"Vieni" chiamò la voce di una donna. "Vieni a sederti accanto a me."
Nel nulla che era la sua dimora, adagiata tra le braccia di pietra di un freddo amante, la donna dal volto indefinito sorrideva; dispiegò le sue notturne ali di corvo per accogliere il nuovo venuto.
"Sei la morte." disse l'uomo sedendole accanto.
"Sì. Sono la tua morte, e veglio su di te dal primo battito del tuo cuore.” ammise la donna con un cenno del capo, e gli carezzò una guancia sfiodandola con i polpastrelli: la sua mano era piuma, e freddo marmo tombale. 
"Sei venuta a prendermi? Così? All'improvviso?" non vi era timore nelle parole dell'uomo, solo un po' di delusione.
"Tu invochi il mio nome, ma non temi il mio venire. Io rispondo a quelli come te, e ad essi concedo i miei favori."
Era così bella. Le labbra rosse su un volto pallido, gli occhi neri come il mare in inverno. 
Continuò: "Non posso trattenermi a lungo con te, anche se la tua presenza mi allieta. Vi sono delle regole che vanno rispettate."
L'uomo si voltò di scatto fissandola con occhi terribili; la sua voce suonò feroce quando parlò.
"I cancelli del sogno e della notte del tuo giardino eterno, erano spalancati per me. 
Se non è il mio momento, dunque, cosa devono dirmi le tue labbra rosse come il sangue?"
 
La Signora Sopra Ogni Cosa si staccò dal suo amante di pietra, e scrutò amorevole nei suoi occhi d'argento.
"Parthan," chiamò come un'amante. "Altri invocano il mio nome in questi giorni. Altri cercano i miei favori e lo fanno per brama di potere. Guardati da loro."
 
"Non mi dici nulla di nuovo."
 
La Signora sospirò, rispondendo con la sua eterna pazienza alla rabbia del mortale. "Ho già infranto molte regole per guadagnare questi pochi istanti insieme e portarti il mio consiglio. Non chiedere oltre. Ora va."
 
Obbedendo meccanicamente al suo comando l'uomo si alzò, si allontanò nella penombra del nulla, poi si voltò risoluto e tornò indietro; sul volto recava lo sforzo di contenersi.
"Hai infranto regole solo per farmi sedere accanto a te e dirmi di stare attento?!" abbaiò. "Come sempre avete solo parole vuote per me!" fece per andarsene, ma la donna dalle mani di ghiaccio prese le sue e lo trattenne. 
Le sue ultime parole echeggiarono nella notte eterna, ma erano solo un sussurro di vento. 
"Cerca la voce della dea dal volto di cristallo, cerca la sua voce argentina e lo scroscio delle sue risa. Nel suo seno si annida il male che divorerà questa terra e io non voglio che accada. Altro non mi è concesso di rivelarti.”
In una nuvola di corvi d'ebano la regina di ogni vita scomparve nella profonda eternità. 
 
La notte era appena finita. 
Un sole pallidissimo di primavera osava lambire le vette dai ghiacci perenni della Nera Signora. La massa scura della foresta proiettava ombre lunghe e spettrali che si agitavano sulla terra rossa del sentiero. Parthan sbadigliò mentre un rivolo di fumo stanco si levava dal fuoco ormai morente. 
Quell’incubo non era affatto di buon auspicio.
 
 
Capitolo I
 
Dopo la pioggerella che aveva picchiettato per tutto il giorno precedente, il mattino si presentava limpido con un cielo di un azzurro opprimente. Bianche nuvole sfilacciate godevano dei primi raggi del sole, eppure il muro verde e nero della foresta di Chunn non aveva perso nulla della sua inquietante sacralità; era come il ritratto di un bambino che piange: graziosamente bello, ma con un non so che di sbagliato. 
 
Parthan raccolse il suo bastone e si avviò lungo il sentiero di terra battuta, lo zaino in spalla e in testa mille tetri pensieri. Ancora non si capacitava del perché avesse accettato quell’assurda ricerca. Così, ad intuito, avrebbe dovuto correre molti rischi e il compenso, per dirla tutta, non era un gran ché. 
C’era qualcosa nella voce di quel vecchio mercante; qualcosa di strano e affascinante che lo aveva convinto fin dalle prime parole. 
 
La luce del sole giungeva a sprazzi nella foresta, e il sotto bosco era immerso in una penombra smeraldina. Nessun suono proveniva dagli alberi, solo il sommesso frusciare di aghi e foglie. Proseguì spedito per una buona mezza giornata finché il paesaggio di altissimi tronchi d’albero, cespugli spinosi e terreno soffice, si estese all’infinito in ogni direzione; se il mercante (come si chiamava?) non gli avesse dato una vecchia mappa, si sarebbe di certo perso in quella bucolica monotonia. 
 
Chissà dove quel vecchio taccagno si era procurato una simile rarità: era disegnata a mano, su una pergamena così leggera da rivaleggiare con la seta di Vugdu, ed era vergata in caratteri minuscoli e delicati di un evanescente color bronzo. 
Arrotolò la mappa con delicatezza e la infilò nel borsone. Il sentiero proseguiva tortuoso, ma era tutto così tranquillo da dargli sui nervi finché, all'ennesimo cambio di direzione, il paesaggio cambiò improvvisamente. 
Davanti ai suoi occhi si parava una selva intricata di salici, stanchi e umidi, con lunghi rami che sfioravano il terreno e foglie di un verde spento. I tronchi contorti ospitavano ogni genere di rampicante e parassita, ed erano anneriti da un'umidità soffocante. 
 
Si affrettò a controllare la mappa, sedendosi su una radice sporgente. Indicava una selva intorno alle sorgenti del Charadiom, ma non immaginava che i minuti alberelli disegnati rappresentassero una palude malata! Imprecò. 
Un corvo nero e lucido si appollaiò su di un ramo e fissò il mago con insistenza, chinando la testa ora da un lato, ora dall’altro.
Parthan lo guardò in tralice mentre, perplesso, continuava a seguire le linee minute della carta sperando di essersi perso.
Il volatile spiccò un salto; spiegando le ali si tuffò verso il mago, che dovette chinarsi di scatto, e poi si perse nell’intrico piangente dei salici. Un vento improvviso scosse i rami e una miriade di foglioline frusciarono argentee. 
 
Tutti gli abitanti della zona lo avevano messo in guarda nei confronti del bosco sacro; gli avevano detto che non era il caso di avventurarsi da solo, che era un luogo maledetto. 
In un primo momento, si era beffato di loro con il suo miglior ghigno da mercenario navigato, ma adesso non era più tanto sicuro che fossero solo chiacchiere di paese. 
Non che la cosa facesse la minima differenza, sia chiaro.
 
“Beh, la zona è questa, la strada anche. Non mi resta che proseguire.” disse al vento.  
Il mantello nero da  viaggio era ormai fradicio e pesante; gli stivali producevano un fastidioso rumore, come uno straccio bagnato, man mano che avanzava nell’acquitrino. 
In alcuni punti sprofondò nell’acqua viscida fino alla vita, imprecando contro i mercanti, le mappe, gli Dei e tutti gli spiriti dei boschi.
Giunse la sera, e portò con sé altra umidità e un vento leggero che sembrava provenire direttamente dalle montagne. Accese un fuoco e si preparò al pasto dell’avventuriero: carne salata e pane raffermo. Il fuoco scoppiettava allegro illuminando la notte, quando si alzò il vento di minuscole foglie. Il mago rimase con un pezzo di carne in mano e la bocca aperta. Scivolò sul tronco dove era appoggiato e si addormentò di colpo. 
Migliaia di occhi spuntarono dall'oscurità; si fecero più vicini, ai limiti del fuoco acceso, saltando da un ramo all’altro, impazienti. Quando videro che l’uomo era addormentato, spiegarono le ali, e una nuvola di corvi neri e lucidi planò gracchiando sul corpo inerme.
 
“Vieni Parthan, siediti accanto a me.” la morte bianca gli sorrideva con le sue labbra di tramonto. “Vieni a scaldarti tra le mie braccia. Il più è fatto. Non hai più nulla di cui preoccuparti.”
Parthan vacillava nella notte eterna, nel giardino di mezzanotte, aveva il fiato rotto dalla rabbia.  “Non può finire così.” sibilò.
“Ti avevo affidato un compito e non sei riuscito a portarlo a termine, non sei il primo. Ora smetti di agitarti, il più è fatto. Siediti con me, raccontami le tue avventure.”
 
“Quale compito?!” sbraitò. “Hai blaterato sciocchezze sullo stare attento a qualcosa! Grazie tante! Cos'era? Uno scherzo?!” gridò il mago scompostamente, avvertiva il suo corpo come evanescente.
“Taci mortale! Non è con la tua boria che sfuggirai al tuo destino!” squillò risentita. “Non puoi accusare me per la tua inettitudine! Non hai saputo difenderti! Ora subisci il tuo destino e inchinati!”
Il mago cadde in ginocchio, contro la propria volontà e tremando nello sforzo di non chinare il capo; I suoi occhi d’argento mandavano lampi d’odio, poi le sue labbra esangui si peigarono in un ghigno beffardo. “Mia bianca signora,” disse. “Se sono sopravvissuto tutti questi anni, in tutte quelle battaglie, è perché ne so una più di te! Non mi avrai neanche oggi!”
 
Parthan scomparve dal giardino oscuro come se non vi fosse mai stato e la morte spiegò le sue nere ali e si librò nella notte; aveva gli occhi chiusi e un compiaciuto, rosso, sorriso.
 
Parthan socchiuse gli occhi. Sul suo corpo un mulinare di dolorose beccate, di zampe che artigliavano le sue carni, e un nugolo nero che si agitava furibondo. Nella mano sinistra teneva un amuleto, una piccola pietra color rame, che lo aveva destato dal sonno magico. La teneva per ogni evenienza in una delle numerose tasche della divisa, e aveva fatto appena in tempo a prenderla. 
Tentò di divincolarsi ma le braccia e le gambe erano immobili e rigide, mentre il dolore delle sevizie si stava facendo insopportabile. Così immobilizzato non aveva la libertà di invocare grandi energie, o di recitare incantesimi risolutori, ma un’idea folle apparve nella sua mente e infuocò la bestia che era la sua magia. 
“Beccate, beccate.” imprecò tra sé e sé,  mentre spasmi di pura agonia fluivano nel suo corpo man mano che la sua mente manipolava la materia. I corvi affondavano famelici i becchi rossi di sangue, schioccando e gracchiando come demoni affamati sul loro pasto di anime. 
Il mago serrò la mascella, cercando di non perdere la concentrazione sull’incantesimo, finché i corvi si levarono strillando sgraziatamente in ogni direzione: il sangue, in cui affondavano becchi ed artigli, era divenuto fuoco liquido, un acido bruciante. In un turbinio di ali e piume, e tra gli schizzi amaranto, le caotiche grida di dolore si allontanarono nel buio della foresta. Il volto di Parthan era una maschera orrenda, coperta di sudore freddo e innumerevoli ferite; i corvi stavano per strappargli l'occhio destro, ma avevano evidentemente deciso di fare con calma, lasciandogli soltanto una lunga ferita fino all'angolo della bocca. 
 
Il sangue acido era colato a terra, alzando nuvole di fumo pungente, e gli aveva lasciato livide chiazze sul corpo e sul volto ma niente di incurabile: aveva dissolto l'incantesimo appena in tempo. Dovette attendere ancora un bel po' prima di riacquistare l'uso delle braccia e delle gambe e riuscire a tirarsi in piedi. Il cuore aveva battuto all'impazzata per tutto il tempo e, in più occasioni, aveva creduto che scoppiasse.
“E’ meglio che non crepi stanotte,” – commentò, – “che figura ci farei?” e scoppiò a ridere così forte da mozzarsi il respiro: un solo altro istante e sarebbe morto per propria mano. Con gli occhi attenti all’oscurità sovrastante, frugò nel borsone traendone una candela di cera bianca e nera. Rapidamente recitò su di essa un incantesimo a bassa voce e questa si accese di una fiamma blu intenso. Tracciò un circolo di cera tutto intorno, e piantò la candela al centro. 
Si lasciò cadere seduto a terra più morto che vivo. 
La barriera magica lo avrebbe protetto per qualche ora dalla maggior parte delle creature male intenzionate, per lo meno quelle di piccola taglia. Appena ebbe ripreso un po’ fiato lenì le ferite con un misto di erbe curative, ma si occupò solo delle più profonde perché la foresta si stava rivelando ben più pericolosa del previsto. 
Chi aveva recitato l’incantesimo che lo aveva paralizzato? Quale maledizione poteva aver corrotto delle pacifiche creature dei boschi in una maniera tanto terribile? 
Dall’altro canto, si disse, qualsiasi cosa fosse celata da così tanto nefasto impegno doveva essere preziosa. 
Nel buio, tra i rami tristi dei salici, le nere figure dei corvi attendevano; il loro gracchiare era un richiamo incessante, sommesso e minaccioso. Parthan avrebbe dovuto dormire, recuperare le forze e lasciare che i medicamenti facessero il loro dovere; invece vegliò per tutta la notte, attizzando il fuoco e fumando pensieroso un grosso sigaro di Balea. Del resto che senso aveva dormire? La sua vita era un incubo, per quanto lo ammettesse solo con sé stesso, e ogni volta che chiudeva gli occhi la sua mente veniva devastata da sogni orrendi. Ghignò e scosse il capo debolmente. Chi voleva prendere in giro? Non erano sogni! Erano ricordi! I volti delle persone che aveva ucciso e straziato per ordine di sua Immensità l'Imperatore, l'odore della polvere delle città cadute per sua mano; le grida di Gann Tach che precipitava nel vuoto, le sue dita minute che afferravano l'aria. E ancora: gli occhi imploranti della Duchessa mentre bruciava nella sua stanza, le fiamme e il rumore di tuono delle pietre nere della Torre che crollavano contro il cielo turbinante di rosso e nero! 
Eppure mai si erano ripetuti così vividi, così reali, come in quei giorni di viaggio; c’era un nesso che gli stava sfuggendo e, in quel piccolo pezzo mancante, poteva celarsi la sua disfatta...
 
Il tempo girava lento nella notte, lento come il fumo azzurrino del sigaro che saliva verso le stelle. 
  
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