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Autore: Lady_Firiel    26/04/2012    1 recensioni
«[...] Se la Serenade deve portarti il sorriso, fa’ che così sia. Ogni volta che suonerò, chiudi gli occhi e pensa a me: pensa alle mie braccia attorno a te, alle mie dita tra i tuoi capelli, alla mia voce. Pensa a me, e senti i miei sentimenti per te…»
Breve shot. FemSlash ad interpretazione personale, io inserisco comunque l'avvertimento.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Schubert’s Serenade
Hola people! ~
Era un po' che non pubblicavo, anche se è passato meno rispetto all'ultima volta, ahah ^^
Questa shot non ha niente di speciale, davvero.
Non racconta una storia particolare, non ha alcun significato particolare.
Sono solo due ragazze, due amiche d'infanzia, forse qualcosa di più, o forse no.
E ci sono loro, c'è un pianoforte e c'è una serenata che è stato difficile trovare.
Tutto qui, davvero.
Spero che quel qualcosa di speciale che potrebbe esserci lo vediate voi :)

Buona lettura

Lady_Firiel


Schubert’s Serenade
  



Spesso ci sembra che il cielo si rannuvoli durante le nostre giornate grigie quando, in realtà, è l’esatto contrario.
Si chiama meteoropatia, è il cambiamento umorale correlato alle variazioni climatiche.
In ogni caso, piangere nei giorni di pioggia è sempre più facile.
Per questo, quella mattina, mi aspettavo di tirare le tende e scorgere un cielo plumbeo e nuvole gonfie di pioggia.
Invece un caldo sole splendeva nell’azzurro infinito.
Sospirai, andando in bagno a lavarmi per poi vestirmi per uscire.
In quella limpida mattina di metà aprile, al camposanto cittadino veniva sepolto il corpo senza vita della madre di Alice, la mia migliore amica.
Alice era sempre stata timida e fragile, molto chiusa, per questo avevo sperato in qualche scroscio di pioggia che le permettesse di piangere senza essere notata.
Ma, beffardo, il sole splendeva orgoglioso.
La tomba fu calata nella fossa sulle note di Amazing Grace; molti dei presenti, parenti, amici, conoscenti, singhiozzavano. Alice, al suo posto, con la schiena ritta e il capo chino, era immobile: non un singolo singulto le sfuggì, non un tremito scosse il suo corpo.
Mi accostai a lei e le strinsi la mano; ricambiò la stretta in assoluto silenzio.
    
Dopo la cerimonia i miei genitori ed io accompagnammo lei e suo padre a casa.
Kevin, suo padre, era distrutto, aveva gli occhi rossi e gonfi e gli tremavano le mani.
«Oh, Kevin, mi dispiace così tanto per Lucy» disse mia madre, abbracciandolo amichevolmente. I nostri genitori si conoscevano da lungo tempo e noi eravamo amiche d’infanzia.
«Grazie Kate» rispose, tirando su col naso.
Mio padre gli diede una pacca sulla spalla, disagio: non era mai stato bravo a gestire i momenti drammatici.
«Coraggio amico, cerca di essere forte; almeno per Alice…»
La ragazza sorrise tristemente.
«Papà, ti dispiace se…» e fece un cenno col capo verso il piano di sopra, dove si trovavano le camere.
«No. No, certo, vai…»
Se ne andò ed io la seguii spontaneamente, scusandomi.
Pensavo sarebbe andata in camera sua, invece entrò nello studio di sua madre; all’interno della stanza, immersa nella penombra, non c’erano scaffali di libri, o una scrivania di mogano e materiali d’ufficio. No, all’interno della stanza c’era un grande pianoforte a coda bianco.
Alice gli sedette davanti mentre io andai alla finestra a tirar le tende.
«Mamma ha sempre desiderato che imparassi a suonarlo, ma io… Io non ho mai imparato. Lei ci metteva tanto amore, quando ero bambina trascorrevamo anche pomeriggi interi in questa stanza, con lei che suonava ed io che l’ascoltavo rapita. Ed ora… Ora questo piano non suonerà mai più…» e finalmente singhiozzò, piano e timidamente.
Le sedetti accanto e la strinsi, permettendole di nascondere il volto contro il mio petto; le carezzai i capelli in silenzio.
Quando sentii il suo corpo cessare di tremare chiusi gli occhi e poggiai il mio capo sul suo.
«Nella sua musica c’erano tutte le sue emozioni, c’era un mondo che non incontrerò mai più…» sussurrò contro la mia spalla.
«Se qualcuno suonasse il piano per te, tu staresti meglio?» domandai, in un filo di voce, pensierosa.
Tacque qualche istante prima di rispondere: «Sì… Penso di sì…»
«Allora suonerò io per te. Quando sarai triste, quando sarai felice, io suonerò il piano per te e tu ritroverai ciò che hai perduto. Non sarà la stessa cosa, lo so, ma io…»
Lei mi guardò con un sorriso, un sorriso sereno.
«Davvero lo faresti? Davvero suoneresti il piano per me?»
Ricambiai la sua smorfia pacifica.
«Certo che lo farò. Se tu lo vuoi, certo…»
Mi strinse, singhiozzando un’ultima volta.
«Grazie»

Il giorno dopo mi iscrissi ad un corso di musica e iniziai le mie lezioni di piano.
Parlai con i miei, sorpresi dalla mia neonata vocazione artistica, dicendo loro che mi serviva un pianoforte su cui far pratica in casa; mia madre parò con Kevin, chiedendogli se per lui andasse bene lasciare loro il piano di Lucy: l’uomo acconsentì, dicendo che indubbiamente la moglie avrebbe preferito saperlo usato che non chiuso in uno studio a prendere polvere.
E così cominciai la mia missione.
Appresi la posizione di ogni nota sulla tastiera e compresi come leggere uno spartito musicale; dopo aver provato le scale fino alla nausea iniziai con i brani, dapprima brevi e semplici, poi sempre più lunghi e complessi.
Quando la mia insegnante, sorridendo, mi disse che ero diventata abbastanza brava da non aver più bisogno di lezioni settimanali, iniziai a suonare per Alice.
Era la primavera dei nostri diciassette anni, quasi dodici mesi erano trascorsi dalla morte di Lucy.
«Sei diventata bravissima, ormai» mi disse un giorno, seduta sul davanzale della finestra aperta della stanza in cui avevamo sistemato il pianoforte.
«Potrei fare di meglio» risposi, sorridendo.
Lei chiuse gli occhi e poggiò la testa al muro alle sue spalle.
«Suoni proprio come la mamma…» sussurrò, le lebbra stirate in quello che interpretai come una sorriso tristemente affettuoso.
«Vorrei poter suonare anche meglio» commentai, e lei si voltò a guardarmi, sorpresa; chinai il volto sulla tastiera, fissandola intensamente.
«Vorrei che ciò che suono rappresentasse per te un momento più intenso di una memoria; vorrei essere in grado di farti vivere la mia musica, piuttosto che ricordare la sua…» aggiunsi, a mezza voce.
Senza neppure attendere un suo commento, chiusi gli occhi e lasciai che le mie dita scivolassero sulla tastiera seguendo la mia memoria.
Non saprei perché, ma la sequenza con cui i miei polpastrelli premettero i tasti diede origine alla Serenade di Schubert.
Perché la mia mente mi suggerì proprio quella melodia, in quel momento non lo capii; la suonai tutta, con calma e sicurezza, senza mai aprire gli occhi, lasciando tutto il lavoro alla memoria.
Quando l’ultima nota risuonò nell’aria, sollevai le palpebre ed udii un singhiozzo: voltandomi notai che Alice aveva gli occhi lucidi.
«Alice, cosa…»
«Era la sua preferita» disse. «Era il brano preferito di mia madre. Lei me la suonava ogni volta che ero triste, perché, diceva, ricordava un momento di gioia e serenità vissuto dal compositore. Ogni volta che la suonava io mi sentivo meglio, era come se il mio dolore, le mie preoccupazioni, tutto scivolasse via sulle note delicate della Serenade…» si asciugò le lacrime col dorso della mano «Sentirla suonare da te, è come riavere lei qui, accanto a me, intenta a consolarmi… Fa così male…» e liberò un singulto.
Mi alzai ed andai ad abbracciarla: la strinsi con forza tra le mie braccia, aspettando che si calmasse almeno un po’; quando non sentii più alcun suono provenire dal corpicino tremante avvinghiato a me le carezzai i capelli lentamente e lei sollevò lo sguardo lucido su di me.
«Ascoltami, Alice, non voglio vederti piangere. Se la Serenade deve portarti il sorriso, fa’ che così sia. Ogni volta che suonerò, chiudi gli occhi e pensa a  me: pensa alle mie braccia attorno a te, alle mie dita tra i tuoi capelli, alla mia voce. Pensa a me, e senti i miei sentimenti per te…» aggiunsi, scostandole un ciocca bionda dal viso.
Sorrise, poi svicolò dalla mia stretta e si appoggiò al piano.
«Suoneresti per me ancora una volta?» chiese.
Annuii e mi accomodai davanti allo strumento.
Scrocchiai le dita e lei chiuse gli occhi.
Ed io iniziai.

Passarono sette anni da allora, terminammo il liceo e ci iscrivemmo a due università diverse. Per mantenere la mia promessa, andai a vivere con lei, portando con me il piano di sua madre.
Di tempo libero, purtroppo, ce n’era poco, e di tempo da trascorrere assieme ancora meno, ma qualche minuto per suonarle la Serenade lo trovavo sempre.
E per ogni sorriso che ne ricevevo, tutta la stanchezza, lo stress, ognuno dei miei problemi scivolava via assieme all’eco delle note di Schubert.
Una volta qualcuno mi disse che le serenate si dedicano alla persona che si ama.
Non so se fosse così anche per noi, se quando le promisi che avrei suonato per lei e per la sua gioia, in realtà non le confessai qualcosa di più, così come non so se lei, accettando, rispose ad un’implicita dichiarazione.
Non so se è questa promessa soltanto che ci tiene assieme, oppure qualcosa di più profondo.
Non lo so, non ho certezze, se non quella che continuerò a suonare per lei la Serenade finché non le verrà a noia, finché la sua felicità non affonderà le proprie radici in qualcos’altro.
Fino a quando basteranno le note di Schubert ad acquistare il suo sorriso, sarà un prezzo che sono disposta a  pagare.
   
 
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