Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: OperationFailed    28/04/2012    8 recensioni
John avrebbe sbuffato, ne era certo. Poteva quasi vederlo, coperto dal lenzuolo perfettamente liscio fino al torso, incastrato sotto alle mani.
Poteva quasi vederlo e non gli andava di buttarlo giù dal letto solo perché aveva dimenticato le chiavi per la centesima volta. Si fermò davanti al 221, come se non lo avesse mai osservato in precedenza, e alzò lo sguardo, lasciandolo vagare sugli angoli degli edifici vicini. Le telecamere erano sette, delle quali tre lo avrebbero certamente ripreso: due dal lato del 221 e una dall’altra parte della strada. Non sarebbe stato un problema, comunque. I fratelli al governo – se non addirittura loro stessi governo – avevano una certa utilità, in determinate situazioni.
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

… PERCHÉ LE PUPILLE ABITUATE A COPIARE INVENTINO I MONDI SUI QUALI GUARDARE

 

 

John avrebbe sbuffato, ne era certo. Poteva quasi vederlo, coperto dal lenzuolo perfettamente liscio fino al torso, incastrato sotto alle mani. Conservava ancora l’abitudine di dormire come un tronco rigido, come se avesse la consapevolezza di doversi alzare da un momento all’altro per una missione, o per salvare la vita all’ennesimo commilitone ferito. Le mani spesso artigliavano la stoffa, come se cercassero un appiglio sulla realtà per non sprofondare nei sogni.
Poteva quasi vederlo e non gli andava di buttarlo giù dal letto solo perché aveva dimenticato le chiavi per la centesima volta. Si fermò davanti al 221, come se non lo avesse mai osservato in precedenza, e alzò lo sguardo, lasciandolo vagare sugli angoli degli edifici vicini. Le telecamere erano sette, delle quali tre lo avrebbero certamente ripreso: due dal lato del 221 e una dall’altra parte della strada. Non sarebbe stato un problema, comunque. I fratelli al governo – se non addirittura loro stessi governo – avevano una certa utilità, in determinate situazioni. Tornando a guardare casa sua, esaminò la finestra del primo piano, che portava all’appartamento della signora Hudson – a quell’ora la padrona di casa si appisolava davanti ad EastEnders, e se avesse fatto effrazione nel suo appartamento, lei sarebbe riemersa dal dormiveglia prendendosi uno spavento terribile. Meglio scartare l’ipotesi della finestra del primo piano. Arrampicarsi sul tubo di scolo e sulla grondaia per arrivare al secondo piano – dritto dritto nel B di Baker Street – sarebbe stata una buona idea, se non avesse riportato diverse ferite in seguito ad uno scontro non del tutto amichevole con un gentile ospite armeno, che ancora gli pulsavano sottopelle. La spalla non sarebbe stata in grado di sostenerlo e il ginocchio contuso non avrebbe facilitato le cose. Meglio tentare lo scasso, rapido e indolore. Tirò fuori la carta di credito, studiò la serratura ancora un istante, preferì usare la fibbia sottile del cappotto. Un po’ troppo sottile, non faceva abbastanza presa e non esercitava la giusta pressione.
«Le dispiacerebbe prestarmi una forcina? Sono rimasto fuori casa» chiese ad una passante con il suo sorriso più cordiale. Quella lo guardò inorridita e affrettò il passo, stringendosi nella giacca di velluto. Già, lo zigomo spaccato in due. A lui non creava particolari problemi, ma apparentemente, agli altri non faceva lo stesso innocuo effetto.  Accigliato, sbuffò forte. L’idea di svegliare John era sempre più appetibile, e stava proprio per comporre il suo numero, quando con la coda dell’occhio colse la donna che gli era passata davanti, impegnata a gesticolare agitata nella sua direzione, mentre parlava con un ufficiale – uno yarder sottopagato con moglie divorziata a carico e figlio adolescente dalla ribellione facile. Allergico ai gatti, a giudicare da come aveva preso a starnutire all’avvicinarsi della donna – aveva notato dei peli fulvi sulla sua giacca, quando le era passata accanto. Alzò gli occhi al cielo e riprese a maneggiare la serratura con la carta di credito, che gli si deformava sempre di più tra le mani. Avrebbe dovuto procurarsene un’altra – non sarebbe stato difficile sfilarla dal portafoglio gonfio di Mycroft, dopotutto.
«Tutto bene, signore?»
«A meraviglia» rispose chino sulla serratura, ignorando completamente l’agente e il suo tono affatto autoritario. Le telecamere dischiusero i loro occhi meccanici, il poliziotto gli appoggiò un palmo sul braccio e lo interruppe.
«La prego di seguirmi alla stazione di polizia, se non le è di troppo disturbo» aggiunse, con un ghigno deformato sul volto.
Raddrizzata la schiena, il ragazzo lo guardò con freddezza e ripose gli scadenti attrezzi del mestiere nelle tasche. Ricordarsi di portare sempre una forcina con sé, appuntò mentalmente.
«Abito qui, agente. Se vorrà essere così gentile da aiutarmi a rientrare, sarò propenso a non ritenerla un fallimento totale (come tutti i suoi colleghi) più di quanto io abbia fatto in precedenza»
Il volto dell’uomo assunse una curiosa tonalità color prugna, i pugni si contrassero in una stretta nervosa e il collo si sollevò impercettibilmente, in un patetico gesto di fierezza.
«Qualora dimostrasse ostilità sarò costretto ad arrestarla per tentato scasso e resistenza a pubblico ufficiale»
«Conosco la legislazione inglese e a quanto pare la conosce persino la sua ex moglie, che sa perfettamente che il suo modo per arrotondare le entrate è illegale. Pensa di continuare a spacciare per poterle pagare gli alimenti per altri, diciamo, otto anni?»
L’agente sentì le gambe cedere, la sua carnagione assunse una tonalità pericolosamente bluastra, il suo “non ne ha le prove” risultò essere un balbettio sommesso.
«Beata ignoranza», replicò il ragazzo, armeggiando con il telefonino e trattenendo a stento una risata.
Portò il cellulare all’orecchio dopo aver composto il numero di John – tutto questo casino per il suo apparentemente non abbastanza raro altruismo, ecco a cosa servivano i sentimenti.
«Informazione gratuita: il numero selezionato non è attivo»
Il poliziotto colse la voce registrata e sogghignò, pregustando lo scatto secco delle manette intorno a quei polsi sottili.
«Se mi concede un istante…» Il volto del ragazzo si accigliò appena, nell’udire il tono metallico che non aveva nulla di roco o vagamente sonnacchioso, come invece immaginava sarebbe stata la voce di John. Non poteva aver sbagliato numero. Lo ricompose, aspettò che partisse la chiamata, avvicinò il telefono all’orecchio.
«Informazione gratuita: il numero selezionato non è attivo»
L’agente allargò ancora di più quel sorriso volgare e tamburellò le dita grassocce sulla coscia, in attesa. La situazione gli era chiara: si trattava di uno dei soliti scassinatori da quattro soldi, solo un po’ più svitato degli altri. Poteva aver tirato a casaccio riguardo alla sua attività di spaccio – molti criminali lo fanno per cercare un motivo di ricatto con gli agenti più deboli – e senza neppure rendersene conto, aveva indovinato.
Compose un altro numero e attese di sentire la voce tagliente del fratello, ma poi Mycroft avrebbe mandato qualcuno a prenderlo e la situazione si sarebbe chiarita. Poi avrebbe tenuto il muso a John per una settimana, così da fargli imparare che è scorretto togliere la sim dal telefono solo per non essere disturbati durante il sonno. Una voce femminile riemerse dal torpore con un’imprecazione che di femminile aveva ben poco, nulla che potesse avere a che fare con suo fratello.
«Accidenti» imprecò, ricomponendosi subito dopo. «Immagino di doverla seguire in caserma e dimostrare che io risieda effettivamente qui. Si pentirà di questo suo eccesso di zelo – nulla di personale, ma a quest’ora avrei potuto controllare il processo accelerato di decomposizione dell’osso femorale umano.»
Nel frattempo tentò di mettersi in contatto con Lestrade, ma la voce metallica era sempre quella – secondo lei il numero non esisteva, e la tentazione di lanciare il telefono dall’altra parte della strada gli stava montando dentro. Raddrizzò le falde del cappotto, si schiarì la voce e fronteggiò l’agente con il suo viso migliore.
«L’ispettore Lestrade sarà felice di testimoniare a mio favore. Mandi una pattuglia a prendermi e si sinceri che non venga Anderson, potrei voler tentare la fuga. Io aspetterò qui» concluse sorridendo platealmente.
L’agente si stupì – Lestrade era sul serio uno dei suoi superiori e lo spaventava che quel guastafeste lo conoscesse, lo spaccio era pur sempre un reato – e si allontanò piccato, prendendo il cellulare dal giaccone.
Il ragazzo ne approfittò allora per cercare velocemente un sassolino sul marciapiede e, trovatolo, lanciarlo contro la finestra dell’appartamento. Niente. Controllò ancora il poliziotto con la coda dell’occhio – scuoteva la testa al telefono e parlava piano – e ne tirò un secondo, un terzo, un quarto. Niente. Provò a bussare di sfuggita alla finestra della signora Hudson, ma ricordò improvvisamente che la sorella di tanto in tanto la invitava a passare un po’ di tempo con lei.
«Arriveranno a momenti» lo interruppe l’agente.
John doveva essere uscito, non c’era altra spiegazione. Forse aveva tentato la riconciliazione con Sarah ed era andato a farsi venire il torcicollo sul suo scomodo divano in similpelle, più probabilmente era andato a controllare che il programma di disintossicazione della sorella procedesse come da scaletta. E la signora Hudson era con tutte le probabilità a spettegolare insieme alla sorella sull’ennesima Connie Prince o a commentare la scelta di abiti indossati dalla futura regina d’Inghilterra.
Per la prima volta (seconda, al massimo) nella storia di Scotland Yard, la pattuglia arrivò dopo pochi minuti, arrestandosi proprio accanto ai due uomini. Lestrade non c’era, ma per fortuna nemmeno Anderson era all’interno dell’auto. I due salirono e si chiusero la portiera alle spalle, l’agente pregustando il riconoscimento in ufficio, il ragazzo appuntando mentalmente di tenere il muso a John per molto più di una settimana.
 

In una decina di minuti, si trovò seduto su una sedia di scomoda plastica, in un ufficio depresso e deprimente, con le pareti tinteggiate troppo tempo prima e una lampadina fulminata. La scrivania era abbastanza ordinata, vecchia almeno di quattro anni – il piano consunto in prossimità dello spigolo era inequivocabile segno di rapporti chilometrici stilati durante svariate ore di straordinari (la macchinetta del caffè era proprio accanto all’entrata dell’ufficio e dimostrava anch’essa un avanzato stato di usura, anzi, era rotta). Il cestino era pieno di bicchieri di carta e alcuni documenti avevano una chiazza scura in alto a sinistra, che si era mangiata le prime lettere della frase. Il suo processo deduttivo venne interrotto dall’arrivo dell’ispettore, un uomo sulla cinquantina con una testa di capelli grigi e una smorfia di stanchezza sulle labbra sottili. Avrebbe potuto riconoscere Lestrade anche solo dal passo appena strascicato, o dal leggero odore di naftalina che esalava dalle sue cravatte –meno forte da quando il rapporto con la moglie era terminato, visto il passaggio delle cravatte dall’armadio ad una misera valigia.
«Ora che hai detto ai tuoi yarders da quattro soldi che stavo solo cercando di entrare nel mio appartamento, puoi farmi riaccompagnare a casa – non ho intenzione di perdere neppure un istante» disse il ragazzo, alzandosi con un fruscio di stoffa.
«La prego di sedersi, signore» si sentì rispondere dall’ispettore, che prese a rigirarsi in mano una penna – nervosismo, confusione.
«Andiamo Lestrade, non vorrai davvero…»
«Ero stato informato della cosa, ma non credevo facesse sul serio. Si sieda, tanto per cominciare»
L’ispettore sospirò stancamente e allungò le braccia sulla scrivania, sgranchendo il collo con uno schiocco improvviso.
«Lestrade, ti ordino di smetterla!»
Questi scosse la testa, poi avvicinò la sedia alla scrivania, perplesso.
«Sul serio, la smetta lei! Io non la conosco e non l’ho mai vista prima. Se ha la gentilezza di calmarsi, ora, procedo con l’identificazione. Lei è?»
Il ragazzo vacillò un poco, prima di tornare a sedersi con un’espressione indecifrabile sul volto.
«Il mio nome è Sherlock Holmes»

 
L’ispettore stava aspettando che l’archivio informatico terminasse l’analisi dei nominativi e, di tanto in tanto, spiava di sottecchi quello strano individuo che gli stava davanti. L’agente Kirchner aveva riferito di un uomo sulla trentina, alto, magro, occhi chiari e ossa sporgenti, oltre ad uno zigomo aperto in due. Cappotto lungo, guanti neri e lingua affilata, che diceva di conoscere bene l’ispettore Gregory Lestrade, oltre ad un certo Anderson della scientifica, che pareva avere molto in antipatia. 
Da parte sua, Holmes aveva dedotto gli spostamenti di quel cretino d’ispettore (che si ostinava a fingere di non conoscerlo) di tutta la passata settimana, oltre alla marca di materassino sul quale aveva dormito e il tipo di panino che aveva scelto al distributore circa sette ore prima. Aveva deciso di assecondarlo, perché i testardi come Lestrade andavano presi con la giusta dose di distacco. Doveva esserci un motivo per il suo comportamento, una ragione di una certa importanza che metteva in pericolo lui, i suoi amici o il suo lavoro in qualche modo. Forse c’erano delle microcamere – non aveva avuto occasione di verificare, comunque – o più probabilmente era per un agente sospetto di cui l’ispettore non si fidava. Avrebbe approfondito l’indagine in seguito – aveva pochissimi dati, e non era auspicabile in nessun caso fare uso di troppa fantasia tralasciando gli elementi davvero importanti – e decise di reggere momentaneamente il gioco senza fare domande.
Il computer annunciò con un trillo che la ricerca era stata portata a termine, e che non erano state trovate corrispondenze tra il signor Sherlock Holmes ed il 221B di Baker Street. Anzi, il domicilio dell’uomo non era  proprio presente nell’archivio informatico, e non fu possibile per l’ispettore rintracciare un’altra eventuale residenza. Nell’appartamento tirato in causa risultava vivere solamente un uomo, un militare in congedo che lavorava da poco come pediatra, in sostituzione ad una dottoressa in congedo di maternità. Lestrade scorse con il mouse su e giù più volte, cercando qualcosa di vagamente compatibile tra i due estremi della ricerca, ma a giudicare dalla sua espressione esasperata e dallo sbuffare ripetuto, non risultava essercene alcuna. Eppure doveva ammettere che quel volto non gli era del tutto sconosciuto, come se gli fosse passato fra le mani proprio poco tempo prima.
Sherlock Holmes smise di guardare in giro e bloccò le lame fredde dei suoi occhi sul volto dell’ispettore, che lo stava osservando da un po’. Quel volto, dannazione. C’era qualcosa in lui, negli occhi quasi trasparenti e circondati da un accenno di occhiaie, negli zigomi glabri e taglienti, nel sangue rappreso e nelle ombre violacee sotto le ciglia.
«Ha l’aria di uno che non vede un letto da secoli, ispettore»
«Probabilmente potrò concedermi il lusso di una dormita solo una volta svenuto per la stanchezza e trascinato in ospedale, ma non creda di avere un’aria migliore»
Holmes sorrise appena. «Nessuna corrispondenza, suppongo»
«Ovviamente suppone il giusto, visto che sa bene di non risiedere in quell’appartamento»
«Speravo che la tua arguzia superasse quella dei tuoi sottoposti, Lestrade, ma sono costretto a ricredermi. Non ti dispiacerà perciò se ti suggerisco di telefonare a John e farti dire che condividiamo un appartamento – ti dirà anche che sono disordinato e che non faccio mai la spesa»
«Stavo per farlo» grugnì in risposta l’ispettore «e comunque poteva chiamarlo lei è risparmiarsi questa gran odissea»
«Arguzia è anche capire che a volte i cellulari non funzionano e che le persone non sono reperibili»
Lestrade alzò gli occhi al cielo come un attorucolo di bassa categoria e compose il numero che gli era comparso sullo schermo del computer e che risultava essere intestato a quel John Watson di cui si faceva un gran parlare. L’ispettore articolò poche parole, con la voce ruvida della carta vetrata. Si strappò una pellicina dall’unghia e la soffiò lontano, mentre Holmes faceva sempre più fatica a rimanere lì seduto, con il rumore del tempo sgocciolante nel cervello, veloce, prezioso, angosciante. Non sentiva più parlare l’ispettore, non coglieva parole sulle labbra che si arricciavano e si stiravano in una sequenza di rapidi passi. Era come se l’audio del film fosse stato d’improvviso impostato sull’opzione “mute”.
L’ispettore riagganciò la cornetta con un movimento brusco, si schiarì la voce, attese che lo sguardo di vetro di Holmes tornasse a splendere.
«Dieci minuti e il signor Watson sarà qui. Non teme di essere smascherato?»
«Vai a prenderti un caffè, Lestrade, a quanto pare la stanchezza danneggia quel povero neurone che ti ritrovi. Assicurati che non soffra di solitudine, vai»

 
Il signor Watson arrivò in dolce compagnia: di una donna e un bastone. Aveva gli occhi spessi come fondi di bottiglia, i capelli di chi non si rassegna al rientro in società e sporte gonfie di sonno accucciate sotto alle ciglia. Non era stato svegliato dalla telefonata alle quattro del mattino, poiché non si era mai addormentato. Una mano gentile lo teneva appena per una manica, quasi a sincerarsi che rimanesse con lei, con i suoi capelli morbidi e il suo profumo di femmina, nel brusio rassicurante del mondo, nella monotonia della vita normale.
Normale, che impareggiabile ed insopportabile noia – Holmes non ebbe bisogno di guardarsi alle spalle per capire tutto questo, la sua immagine mentale era persino più vivida della realtà. Finalmente John lo avrebbe riportato a casa, avrebbe gentilmente sfiorato le dita della donna, le avrebbe agganciate al manico di una brutta borsa color nocciola e se ne sarebbe andato con lui.
Lestrade si era presentato, scompigliandosi con imbarazzo la zazzera folta mentre chiedeva scusa per l’ora indecente e per il disturbo e per la macchinetta del caffè rotta e il riscaldamento soffocante.
«Ci siamo già conosciuti, ispettore» gli strinse la mano la donna, sorridendo stancamente. Lei sì, lei dormiva. «Sarah Sawyer, del Bethlem Royal Hospital. Abbiamo denunciato la scomparsa di un nostro paziente qualche giorno fa»
Sawyer, Sawyer pensò l’ispettore, senza ricordarsi di quel volto che sembrava essersi appassito troppo in fretta. La scomparsa di un paziente mentalmente instabile – perché era i matti, che curavano al Bethlem – doveva averla provata molto.
«Non abbiamo ancora avuto notizie» improvvisò lui, «ma controllerò personalmente non appena sarà finita questa storia assurda. Lui è là» e indicò oltre la soglia del suo ufficio, in cui la figura alta di un uomo stava immobile come un disegno sulla carta.
«Vuoi che ti accompagni?» domandò lei a colui che la teneva a braccetto.
Appoggiato al bastone, l’uomo scosse la testa e prese ad avanzare con il ritmo sincopato di un singhiozzo, separandosi dalla donna. L’ispettore lo precedette in ufficio e chiuse loro la porta alle spalle.
«Allora, dottor Watson » Holmes rimase con il mento sulle dita e attese lo schiocco scocciato che le guancie di John avrebbero certamente prodotto, gonfie e subito svuotate di aria riciclata  «conosce quest’uomo?»
Le sue guancie non si gonfiarono, ma gli occhi smerigliati si posarono sulle linee aguzze e bianche del giovane taciturno e percorsero più volte le diagonali taglienti del mento, del naso, degli zigomi – quella brutta ferita avrebbero dovuto medicarla giorni prima.
«Il suo nome è Sherlock Holmes e lo abbiamo trovato mentre tentava un effrazione nella sua casa. Sostiene di condividere l’appartamento con lei»
Il ragazzo rimase muto anche se tirato in causa, con espressione beata sul volto – presto John sarebbe scoppiato a ridere chiedendo se tutto quel silenzio significasse che era arrivato in paradiso, avrebbe domandato a Lestrade il motivo di quello stupido scherzo e gli avrebbe ricordato che il primo di aprile doveva ancora arrivare. Il dottor Watson fece qualche passo avanti e si passò una mano sul viso con espressione perplessa. Le sua dita indugiarono ancora qualche istante sulle sopracciglia, poi un sospiro pesante gli sfuggì dalle labbra.
«Non ho mai visto quest’uomo prima, ispettore»

 
Holmes sciolse i nodi delle sue dita e portò il volto in fronte al dottor Watson, con una scintilla di confusione ardente nelle iridi.
I suoi neuroni friggevano, pericolosamente prossimi al corto circuito. Le sinapsi si trasmettevano a vicenda messaggi assurdi e inverosimili, la facciata algida del suo viso era incrinata da uno spasmo all’occhio destro, che cercava di controllare con un massaggio leggero delle dita.
«Non è divertente, John Watson. Smettila subito!» gridò, facendo cadere a terra la sedia da cui si era alzato d’improvviso. La prospettiva che fosse solo uno scherzo diventava però sempre più remota e Holmes se ne rendeva conto. Il volto del dottore era un’autostrada di sentimenti, plastilina tra le dita calde delle emozioni, che lo modellavano in una maschera di dispiaciuta confusione, come se stesse tentando davvero di riconoscere l’uomo che lo fronteggiava.
«Potresti essere quello di sempre, per favore?»
«Io… Mi dispiace, ma non la conosco. Non so chi–»
«John» si avvicinò Sherlock. Lestrade scattò in avanti, ma il dottore lo fermò. «No», disse.
Lasciò che Sherlock gli togliesse il bastone dalle mani e corresse appena il peso – alleggerì la gamba zoppa e la piegò un poco.
«Di questo non hai bisogno, con me. Ricordi?»
L’altro deglutì, capendo sempre meno di quella situazione. Il cognome non gli era certo sconosciuto –un certo Mycroft Holmes era spesso in tv su delega del primo ministro – ma quegli occhi trasparenti non li aveva visti proprio mai. Non li avrebbe dimenticati, altrimenti.
«Il tuo blog è pieno dei nostri casi (e di errori ortografici che puntualmente ti correggo). Ricordi, John?»
Il dottore rabbrividì. «Co–come sa che ho un blog?»
A volerla dire tutta, John non era neppure mai stato una cima in ortografia – ricordava ancora il cimitero di croci rosse sui dettati in seconda elementare.
«Se non ti conoscessi, direi che un uomo che soffre di zoppia psicosomatica è sicuramente seguito da un terapista e che questo preme perché il suo paziente tenga un diario – ma siamo nell’era della tecnologia, e dunque gli consiglia un blog. Ma visto che ti conosco non ho bisogno di queste deduzioni elementari»
«E’ vero?» chiese Lestrade, con i capelli che quasi si mangiavano le sopracciglia. John deglutì nuovamente. Aveva bisogno di un accidenti di bicchiere d’acqua, iniziava a sentire tanti piccoli puntolini che gli pizzicavano sul volto e nella gola. Dov’era Sarah?
«Ho un blog che non ho ancora iniziato, ma il resto» tossì piano, guardando con attenzione Holmes «il resto è tutto vero»
«Certo che è vero! E adesso ne ho abbastanza, è ridicolo»
Holmes spalancò con veemenza la porta – Lestrade si slanciò  immediatamente verso di lui, seguendolo nel corridoio del commissariato. Non ce ne sarebbe stato bisogno, comunque, perché Sherlock s’imbatté in Sarah e s’immobilizzò. La donna trasalì – era rimasta fuori dall’ufficio, con il cappotto tra le braccia incrociate e le palpebre pesanti di chi è stato preso per i capelli e sbattuto nella realtà all’improvviso.
La sua mano curata scattò sulle labbra pallide, il respirò le si troncò in gola.
«Sherlock» sussurrò, «sei qui…»
Il ragazzo non rispose, non reagì. I suoi occhi non avevano più nulla di trasparente – ora sembravano pozzanghere rese torbide dal pesticciare dei passanti. Con l’occhio clinico che le era proprio, Sarah intuì che la situazione era talmente critica da poter degenerare da un istante all’altro. La ferita che si era provocato sul volto – ed era pronta a scommettere che ne avesse altre sugli avambracci e sul ventre – indicava che l’assenza dei farmaci lo aveva provato molto – ma per arrivare a questa conclusione era sufficiente notare le falangi, in preda ad un tremolio impercettibile ma costante.
John e l’ispettore si erano fermati poco dietro ai due, senza capire. Come potevano, Sherlock e Sarah, conoscersi? Perché Holmes ora si stringeva le braccia addosso e non sapeva più guardare il mondo?
Sarah appoggiò delicatamente un dito sotto al mento del ragazzo e gli fece sollevare il volto – gli sussurrò qualche parola rassicurante mentre lo conduceva alle sedie allineate al muro. Lui si afflosciò su quella plastica dura, come un orsacchiotto con la segatura bagnata – un giocattolo abbandonato in favore dell’ultimo modello di robot meccanizzato. Lei tornò sui suoi passi e si accostò a Lestrade.
«E’ lui, ispettore. L’uomo di cui abbiamo denunciato la scomparsa dal Bethlem, è lui»

 
Sherlock Holmes era un paziente dell’ospedale psichiatrico Bethlem Royal di Londra, ritenuto uno degli istituti migliori del Paese. Era sotto la tutela diretta della dottoressa Sawyer, che se ne prendeva cura con dedizione . La schizofrenia era nata e cresciuta con lui, era stata sua compagna fedele e talvolta, paradossalmente, unico appiglio sulla realtà. Passava le giornate alla finestra, sipario su ricordi che non aveva mai vissuto, fatti di omicidi da risolvere, poliziotti invariabilmente idioti e avventure al limite del possibile. Viveva in quella mente con un collaboratore fidato – un’anima che a lui si era legata, preferendolo al bastone che si trascinava dietro. L’acerrimo nemico (nonché fratello) Mycroft Holmes era un volto importante del governo inglese – probabilmente visto in prima serata durante qualche dibattito fatto tacere dal telecomando. L’ispettore Lestrade era una fotografia sul giornale che improvvisamente aveva preso vita, Molly era una paziente dell’ospedale che conosceva molto bene l’uso di bisturi e microscopio - la madre della ragazza, Mrs. Hudson, preparava sempre dei dolcetti favolosi. Il temibile ma mai-del-tutto-inatteso Moriarty era Richard Brook, l’attore cui i genitori di mezza Inghilterra affidavano ogni sera il sonno dei loro dolci bambini. Era un mondo che gli altri non vedevano, ma ciò non significa che non esistesse davvero.
Sarah si sincerava sempre che Sherlock prendesse i farmaci – non tenevano alla larga tutto quel marasma di gente mezza inventata, ma almeno riuscivano ad impedirgli di aprirsi tagli un po’ ovunque sul corpo. Talvolta si fermava ad ascoltare le sue avventure e a farsi guardare con superiorità – lui era convinto che volesse portargli via il caro amico, l’anima condivisa, quel John Watson di cui parlava sempre.
L’uomo con cui lei si sarebbe sposata di lì a qualche mese.
In realtà Sarah aveva fatto, inconsapevolmente, l’operazione contraria. Sherlock riceveva spesso le visite di quel vecchio militare, ostinato a portarsi appresso un bastone di cui non aveva bisogno – non volevi neppure vederlo per sbaglio, quello, quando stavi con me…
John era rimasto colpito dalla storia del paziente di Sarah, aveva continuato a pensarci per tutta la settimana, vedeva cadere dal cielo quegli occhi di pioggia tra la pioggia un po’ più grigia di Londra. Si era seduto al computer, con le mani frementi di quando si è troppo pieni per riuscire a scrivere davvero qualcosa. Aveva zoppicato per la stanza, in attesa che smettesse di piovere e che Sarah rientrasse. Si era preparato una tazza di tè e se ne era rovesciato addosso almeno la metà. La pioggia non aveva intenzione di cessare, Sarah si sarebbe fermata in ospedale ancora per qualche ora. John afferrò il giaccone e scese in fretta le scale, come se la zoppia fosse scomparsa in un colpo solo.
 

La prima volta che andò a trovarlo, Sherlock non lo guardò neppure in faccia. La seconda volta, gli lanciò un’occhiata in tralice e gli ordinò di prendergli il cellulare (nella tasca dei suoi pantaloni). Dovette arrivare la sesta volta, prima che Sherlock gli ricordasse con occhi brillanti  e finta svogliatezza – hai la memoria di un colino, John Watson – della volta in cui avevano rischiato di saltare in aria in quella maledetta piscina – John non ascoltò mai più Stayin alive allo stesso modo, dopo il suo racconto. Ognuno di essi era talmente vivido che gli sembrava di averli vissuti davvero. Aveva persino iniziato ad aggiungere dettagli prima che Sherlock stesso li menzionasse. Forse significava che era schizofrenico anche lui?
Alla decima volta, John tornò a casa dimenticando il bastone nella stanza di Sherlock, che lo nascose e non glielo fece trovare mai più. All’undicesima volta, il bianco desolante del suo blog si era riempito di pagine e pagine di casi incredibili.
Alla quindicesima, John si era presentato con un cliente.
«Te l’avevo detto che il mio blog era molto più seguito del tuo, a nessuno interessa il tempo di coagulazione del sangue canino. Lavorerai grazie a me» rise John.
Sherlock lo squadrò indispettito e ignorò il cliente, che si guardava intorno con aria perplessa e un po’ timorosa.
«Quelli noiosi non li voglio più, gliel’hai detto, vero? L’ultimo è stato atroce. Forza, mi stupisca» e con un volteggio della vestaglia si lasciò cadere in poltrona.
Sarah sorrise dallo spiraglio della porta socchiusa. Alla fine, la cura giusta per Sherlock l’aveva trovata davvero.
 

 

 

 

 

 

 

-

Sono troppo provata per dare chiarimenti, ma se qualcosa  non vi risultasse chiaro, contattatemi pure. Sarò felice di schiudermi al mondo.

 

Il Bethlem Royal Hospital esiste davvero!
Questa fanfiction partecipa allo Sherlothon con il prompt “telecamere”

 

   
 
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: OperationFailed