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Autore: IoNarrante    29/04/2012    15 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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PROLOGO

betato da Nes_sie
La pioggia battente imperversava come se non ci fosse un domani, mentre i miei stivali schiaffeggiavano l’acqua producendo un rumoroso ciaf. L’ombrello era pressoché inutilizzabile, viste le raffiche di vento che mi colpivano ogni volta svoltassi l’angolo, e conscia di essere zuppa fin dentro le ossa, l’avevo richiuso sbuffando, continuando poi a correre con la mia ventiquattr’ore sulla testa.
Della capitale inglese si poteva dire di tutto. C’era chi provava un amore sviscerato per quei lampioni in stile vittoriano, chi si perdeva tra le immensità dei suoi parchi; c’era chi addirittura preferiva percorrerla in bicicletta, assaporandone l’aria libera dalle polveri sottili. Io mi ero sempre schierata dalla sua parte, dal lato della città inglese, perché mi aveva fornito il trampolino di lancio per evadere da quella monotonia che era la mia vita. Adesso però, dopo essermi recentemente trasferita dall’Italia e dopo aver quasi finito tutti – e dico tutti – i cambi d’abito che mi ero portata in valigia a causa del mal tempo che non smetteva di colpire Londra da almeno una settimana intera, forse stavo lentamente cambiando le mie preferenze.
M’imbucai di corsa nella stazione di Lancaster Gate, cercando di non scivolare sul pavimento zuppo d’acqua e mi affannai a frugare nelle tasche del cappotto di tweed, alla ricerca della Oyster card per passare al tornello prima che si formasse una fila chilometrica dietro di me.
Purtroppo le mie tasche erano come la borsa di Mary Poppins.
Tirai fuori le cartacce di vecchi scontrini, il mazzo di chiavi del mio monolocale a Regent Park, persino una vecchia caramella appiccicaticcia, ma non c’era verso di estrarre il portadocumenti con l’abbonamento ai mezzi pubblici. Nel frattempo l’acqua mi gocciolava dai capelli corti, tagliati poco prima di trasferirmi, e rotolava direttamente lungo la spina dorsale, accompagnata da un intenso brivido di freddo.
«Can I…?» Una voce alle mie spalle mi fece girare di scatto e, come avevo sospettato, una piccola fila di persone si era formata dietro l’unico tornello occupato dalla sottoscritta.
Imprecai mentalmente e mi scostai di lato, non mancando di rifilare un’occhiataccia a quell’omaccione panciuto e impaziente. «Sorry.»
Già, sorry un corno!
Nel frattempo cercai quella maledetta card anche nella ventiquattr’ore, che però non voleva saperne di aprirsi. Cominciavo a perdere davvero la pazienza. Quella mattina era cominciata davvero male e rischiava di finire ancora peggio. Lo studio Abbot&Abbot di Londra era situato al centro di Regent Street, vicino all’incrocio con Oxford Street e per raggiungerlo avrei dovuto percorrere una decina di fermate della Tube.
Se solo avessi trovato quella stramaledettissima tessera…
«Eccola!» gridai sprizzante di gioia, tenendo tra pollice e indice l’oggetto della mia agognata ricerca. Ovviamente era finita nell’unico misero buchino nella fodera del cappotto ed era scivolata sempre più in basso, costringendo la sottoscritta ad improvvisarsi contorsionista del circo di Montecarlo.
Soddisfatta di aver finalmente ripreso in mano la mia vita, afferrai la tessera e la passai sul lettore magnetico, facendo scattare le porte e dirigendomi verso l’ascensore.
«Wait, please…!» implorai, dirigendomi verso le porte che stavano per chiudersi. La mia giornata non poteva susseguirsi in modo peggiore di quello. Ci mancava solo che perdessi anche la corsa dell’ascensore e, con quella, la probabile metropolitana che passava ogni cinque minuti.
Una mano si frappose tra le porte, incrociando il lettore ottico e facendole riaprire. Col fiatone e con ancora addosso i brividi di freddo, entrai nell’abitacolo e lasciai uno sguardo di ringraziamento al mio salvatore.
La mia attenzione si posò su un ragazzo poco più grande di me, vestito di un completo gessato grigio con il soprabito abbinato. Il primo pensiero che mi sovvenne fu Affascinante, ma ben presto cominciai a ricevere la visita del mio coinquilino preferito. Il mio Cervello.
Cominciamo bene, Ven. Sei qui da nemmeno una settimana e già metti il belloccio in giacca e cravatta al primo posto. Vuoi o non vuoi finire lo stage col massimo dei voti? Vuoi o non vuoi diventare socia dello studio?
Devo ricordarti tutto?
Aveva perfettamente ragione, e io stupida che ancora mi facevo condizionare da queste turbe adolescenziali che avrebbero solamente peggiorato la situazione. Ero arrivata a Londra unicamente per il master, per lavorare in uno degli studi di legge più famosi della capitale inglese, e non mi sarei fatta distrarre da nulla.
Strinsi saldamente il manico della mia ventiquattr’ore e cercai di ignorare lo sguardo perforante di quel ragazzo che mi aveva gentilmente lasciato aperto le porte. «Thanks,» mormorai, tentando di rimanere più normale possibile.
Non dovevo dare alcun segno d’interesse, altrimenti avrebbe avuto via libera per provarci con la sottoscritta. In quella grande città dovevo avere cent’occhi, mica uno. Una bella ragazza come me non passava di certo inosservata.
Ma soprattutto una ragazza con un Gran Cervello.
Hai detto bene.
Il ragazzo in giacca e cravatta mi fissò con quei suoi grandi occhi azzurri e per un attimo mi sentii profondamente a disagio. In effetti, era da parecchio tempo che non mi concedevo un’uscita con qualcuno che non fosse Robbeo il mangia-caccole o quell’altro decerebrato del fidanzato di Cel. Avevano provato più volte ad appiopparmi qualcuno, ma Venera Donati era di gusti difficili – anzi, impossibili! – e per accontentarmi non bastava certo un bel visino o un paio di occhi azzurri come quelli del ragazzo di fronte a me.
In risposta al mio ‘Grazie’, lui mi sorrise, poi le porte dell’ascensore si spalancarono dopo un dlin-dlon e il fiume di gente si riversò nei cunicoli che conducevano alla banchina dove sarebbe passata la Red Line di lì a pochi minuti. Cercai di uscire senza essere spintonata troppo, ma con sollievo sapevo che la cavalleria inglese non era solo una diceria. Al contrario di Roma, dove i ragazzi più erano vecchi e più ti avrebbero schiacciato con i loro stivali firmati pur di accaparrarsi il posto sulla scala mobile, a Londra si offrivano anche di cederti quello a sedere.
Ero rimasta sorpresa appena arrivata, ma adesso ci stavo pian piano facendo l’abitudine.
Please mind the doors. Doors closing.
La voce metallica di una donna avvertì la chiusura delle porte automatiche della Tube, così mi affrettai a salire sul vagone senza accorgermi che la Oyster mi era scivolata dalla tasca del cappotto di tweed. Me ne resi conto solo quando le porte si stavano chiudendo e fui presa dal panico. La tessera andava passata sia all’entrata che all’uscita dei tornelli, e se me la fossi persa sarei rimasta bloccata nella Tube a discutere per ore con gli addetti della vigilanza.
Sarei sicuramente arrivata in ritardo al mio appuntamento.
Allo stesso tempo, però, se fossi riuscita a uscire dal vagone per raccogliere la tessera, avrei perso la corsa e sarei comunque arrivata tardi. Rimasi totalmente imbambolata a fissare la banchina inumidita dalla pioggia che i passanti si erano trascinati dalla strada quando, con un movimento agile e veloce, vidi il ragazzo in giacca e cravatta raccogliere il portadocumenti ed entrare nel vagone prima che le porte si chiudessero.
Mi si avvicinò trionfante e mi porse l’astuccio con la Oyster dentro.
«Thanks, again,» dissi imbarazzata, visto che era la seconda volta che mi salvava dalla mia perenne sfortuna che sembrava perseguitarmi sin da quando ero atterrata a Londra.
Il ragazzo mi sorrise ed io ricambiai il gesto, ricordandomi sempre di non dare troppa confidenza perché avevo un obiettivo ben chiaro in mente e non potevo permettermi alcuna distrazione. Afferrai il portadocumenti e lo misi in tasca, anche se subito dopo preferii riporlo nella ventiquattr’ore visto lo spiacevole incidente di prima. Mi sentivo lievemente osservata dal ragazzo che si era improvvisato mio cavaliere per ben due volte, poi quando vidi che si era liberato un posto a sedere, preferii tirare fuori la mia copia di Mucchio d’ossa e continuare a leggere dal capitolo dodici.
Nonostante tentassi di tenere il segno con un dito, di tanto in tanto il mio sguardo vagava su quel misterioso ragazzo di poche parole. Era vestito molto elegante, questo valeva una decina di punti da parte della sottoscritta. Dopo aver passato l’intera adolescenza tra pantaloni a bracaloni, mutande di fuori, magliette talmente larghe e sbrindellate che avrebbero potuto improvvisare un tendone da circo, ero diventata amante del buon vestire.
Notai che preferiva portare un po’ di barba incolta, il che non guastava. Mi sentii notevolmente in sintonia con quel tipo, almeno apparentemente incarnava proprio il mio uomo ideale.
Devo forse ricordarti cosa siamo venuti a fare?
No! Aveva ragione il mio Cervello ed io dovevo dargli retta. Il tempo per l’altro sesso lo avrei trovato in seguito, ora avrei dovuto pensare solamente alla mia carriera perché era quello che desideravo più al mondo. La famiglia, come tutto il resto, sarebbe venuta in seguito.
Next Stop: Oxford Circus. Annunciò la voce metallica dell’alto parlante, così riposi il libro nella valigetta e mi apprestai ad uscire.
Il misterioso ragazzo sembrò non fare caso alla mia presenza, così fissai lo sguardo sulle luci del tunnel che sferzavano a gran velocità davanti ai miei occhi. Avrei dovuto impegnare tutta me stessa per far bella figura in ufficio. Avevo ideato già un piano, un modello di comportamento che sicuramente mi avrebbe fatta spiccare nel mezzo della infinita bolgia che c’era allo studio.
Per il tirocinio alla Abbot&Abbot eravamo stati assunti in cinque, e i miei quattro ‘adorati’ compagni tirocinanti non facevano altro che trasformare ogni mia giornata allo studio più infernale di quelle precedenti.
C’era in particolare una ragazza giapponese, Yuki, che ogni volta che mi vedeva, tentava sempre di mettermi i bastoni tra le ruote, non solo metaforicamente. Era Miss Perfezione, la maledetta, e il mio primo giorno di tirocinio mi aveva fatto lo sgambetto davanti a tutti ed io avevo finito col rovesciare il caffè sulla giacca del tailleur.
Una bastarda maledetta, ecco cos’era.
L’unica mia vera rivale, perché gli altri tre ragazzi erano più che altro figli di papà di Cambridge che passavano la maggior parte del tempo a fumare nei bagni e cazzeggiare con la macchina fotocopiatrice. Alla fine del tirocinio, lo studio avrebbe offerto a uno di noi il posto fisso come avvocato ed era una di quelle occasioni che capitano una volta nella vita.
La metro si fermò alla fermata di Oxford Circus, mentre le porte scorrevoli si aprivano con una lentezza disarmante. Strinsi la valigetta e posai il piede sulla banchina umida di pioggia per poi dirigermi ai tornelli e uscire finalmente in strada.
Prima di abbandonare il vagone, però, non riuscii a fare a meno di lanciare un’ultima occhiata al ragazzo in giacca e cravatta. Mi guardava.
Tentai di rimanere impassibile, nonostante mi avesse palesemente beccata a fissarlo, e mi diressi verso l’uscita, preparandomi psicologicamente all’umidità che avrei trovato una volta all’aperto. Fortunatamente lo studio si trovava nelle vicinanze, quindi non avrei dovuto bagnarmi più di quanto non lo fossi già.
Passai la Oyster sul lettore elettrico, dopodiché mi appropinquai a salire le scale che davano sulla piazza. Numerose persone mi sfilavano di fianco, precedendomi nella camminata, ed io maledissi mentalmente le mie gambe corte e il mio scarso metro e sessanta.
Avere origini siciliane non contribuiva certo alla fretta con cui si procedeva lì in città.
Una volta fuori dalla Tube, respirai l’aria pungente di quella giornata ottobrina e piovosa. Fortunatamente l’acquazzone si era acquietato, lasciando il posto ad una lieve pioggerellina. Mi guardai intorno e riconobbi immediatamente Regent Street, con i suoi grandi e lussuosi negozi, così mi immisi nella strada principale alla ricerca della sede della Abbot&Abbot.
Il mio passo era spedito sull’asfalto, nonostante gli stivali col tronchetto mi dessero leggermente fastidio. Non ero abituata a vestire in modo così elegante, ero sempre stata una ragazza da ‘tuta e scarpe da ginnastica’, invece mi ero ritrovata ad indossare completi per andare in ufficio, vista la concorrenza spietata che girava tra i tirocinanti.
Non lo avrei ammesso davanti a nessuno ma, ahimè, l’aspetto contava molto per il mondo del lavoro.
Passai davanti alla vetrina di Burberry e mi specchiai nel riflesso, rimanendo incantata a fissare un trench piuttosto elegante che avrei volentieri indossato. Peccato che costasse quanto l’affitto del mio monolocale. Sconfitta, tornai a camminare in direzione dello studio, ma mi accorsi di essere seguita.
Inizialmente feci finta di nulla, continuando a passeggiare impassibile e stringendo la valigetta nervosamente, poi tentai di guardarmi alle spalle.
Con la coda dell’occhio riuscii ad intravedere il ragazzo in giacca e cravatta. Che diavolo voleva da me?
Calma Ven, non lasciarti prendere dal panico. Non ti si addice.
Diedi ascolto al mio caro Cervello e proseguii senza dare alcun segno di preoccupazione. Regent Street era una delle strade più famose e affollate di Londra, era normale che venisse percorsa da un infinito numero di persone.
Non dovevo affatto preoccuparmi, visto che quel tipo non mi aveva minimamente rivolto la parola nonostante mi avesse aiutato per ben due volte.
Anzi, era pure un gran maleducato!
Ripassai mentalmente la strategia da adottare contro Yuki, visto che quella ragazza sarebbe passata addirittura sopra a suo padre pur di scavalcarmi nella corsa al posto fisso, e ignorai il barbuto dietro di me.
“Che poi non è nemmeno tutta ‘sta bellezza,” mi ritrovai a pensare, accavallando il caso di Thomas Crawford agli occhi blu dello sconosciuto della metro. Era impossibile riuscire a pensare lucidamente con tutti quei pensieri che mi vorticavano nella testa, ma per fortuna ero quasi giunta a destinazione.
Imboccai una traversa di Great Castle Street e mi diressi verso un appartamento signorile dove aveva sede lo studio. Mi sistemai il soprabito di tweed, sentendolo ancora umido della pioggia di quella stessa mattina, poi ravvivai un po’ i capelli a caschetto e mi decisi ad entrare.
Prima di varcare la soglia, però, lanciai un’occhiata in direzione di Regent Street e per poco non ebbi un attacco cardiaco quando vidi il ragazzo in giacca e cravatta sorridermi, mentre si avvicinava con passo deciso.
Okay, quella non era affatto una coincidenza.
Ignorai palesemente quel gesto amichevole che mi aveva rivolto e mi fiondai di corsa all’interno dello studio, sperando vivamente che non mi seguisse fin lì.
«Sei arrivata, finalmente.»
La voce fastidiosamente acuta di Yuki mi sorprese non appena misi un piede all’interno del suo territorio. Era la persona più odiosa che conoscessi, persino peggio della fidanzata del mangia-caccole.
Era incredibile come quell’ameba di Romeo Ciuccio, incubo della mia vita sin dall’età di dodici anni, fosse riuscito a, punto primo, sopravvivere tutti questi anni, punto secondo, a trovarsi uno schianto di ragazza che nemmeno i suoi sogni più arditi avrebbero potuto partorire.
Devo ricordarti il QI di Annalisa?
A tutto c’era una spiegazione, in fin dei conti.
«È piovuto tutto il giorno, ho trovato dei rallentamenti nella Tube,» le dissi, anche se non avevo alcuna ragione di darle delle spiegazioni.
Un suo sopracciglio alzato fu sufficiente a farmi capire che non gliene poteva importare nulla. Certo, ero l’unica dei tirocinanti che si serviva dei mezzi pubblici per andare a lavoro.
Tentai di ignorarla e di concentrarmi sul vero motivo per cui mi ero fiondata all’interno della palazzina neanche fossi inseguita da un’orda di cani randagi. Mi voltai appena e attraverso la porta a vetri riuscii a scorgerlo mentre saliva gli scalini dell’ingresso.
Oddio, ma che voleva?
Possibile che mi avesse inseguita fin lì solo per chiedermi di uscire? Che si fosse fatto tutta quella strada per un misero appuntamento?
«Chi è quello?» se ne uscì Yuki, fissando fuori dalla porta. «È carino.»
«Non farlo entrare!» la avvertii, ma non sapevo se mi avrebbe dato retta.
Nel frattempo mi tolsi il soprabito di tweed e lo misi sull’appendiabiti, lisciando le pieghe della gonna e sistemandomi meglio. Un fuggevole sguardo allo specchio mi diede la conferma che somigliavo ad un pulcino caduto in un pozzo, ma ebbi l’accortezza di aggiustarmi il mascara colato sotto gli occhi.
“Ma quindi lui mi ha vista in questo stato pietoso?” realizzai in ultimo, sentendomi davvero una sciocca.
«Miss Donati, buongiorno.»
La voce di Mr. Abbot, nonché uno dei due fratelli proprietari dello studio legale più importante di Londra, mi si presentò davanti con il suo solito charm e il completo impeccabile color grigio chiaro. Quell’uomo incarnava tutto ciò che avrei voluto essere, tranne il sesso ovviamente. Era bello, affascinante, un avvocato di successo e una persona di buone maniere e gentile.
«Buona giornata a lei, Mr. Abbot,» risposi, lisciandomi i capelli che ancora non ne volevano sapere di stare in piega.
«Ha trovato difficoltà a venire allo studio, stamane?» mi domandò sempre gentile e premuroso.
Stavo per rispondere con altrettanta cordialità, quando con la coda dell’occhio vidi Yuki che aveva fatto entrare lo sconosciuto in giacca e cravatta.
Maledetta! Lo aveva fatto apposta ed io me lo sarei dovuto aspettare da una persona infima come quella.
Stai calma, Ven. Ancora non sai cosa quel tipo vuole da te.
E se mi chiedesse il numero di telefono davanti al mio capo? No, sarebbe l’umiliazione peggiore della mia vita e mi giocherei il posto fisso allo studio.
Non poteva accadere. Ero andata via di casa con l’unico scopo di lavorare alla Abbot&Abbot e cinque anni di sacrifici, più un master in Diritto penale comparato non potevano essere gettati al vento.
«Ehm… no…» temporeggiai, per poi incrociare lo sguardo del ragazzo-stalker che sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarmi in pace.
Come una furia, mi precipitai verso di lui a passo sostenuto, prima che potesse avvicinarmi e screditarmi davanti a tutti gli altri miei colleghi. Forse apparii un po’ scortese agli occhi di Mr. Abbot, ma dovevo salvarmi il cosiddetto posteriore e mettere fine a quella farsa che era cominciata quella stessa mattina.
Il tipo mi fissò sorpreso, ma non ebbe il tempo di dire nulla che gli afferrai il braccio e feci per condurlo fuori dalla porta, senza la minima gentilezza. Se voleva il mio numero di telefono, non c’era alcun bisogno di chiederlo davanti al mio capo.
«Che fai?» chiese lui, sbigottito.
«Te ne devi andare, ora,» tuonai, sperando che Mr. Abbott non avesse visto la mia poca mancanza di professionalità. «È uno studio privato, non puoi fare così.»
«Così, come?» domandò divertito.
Ah, se la rideva anche!
«Ho capito cosa vuoi, ne discutiamo fuori di qui!»
«Hai qualcosa da nascondere, Spaghetti-Girl?» s’intromise anche la giapponese bastarda.
Le mimai un ‘Taci’ che avrei volentieri accompagnato con qualche bella espressione colorita che avevo imparato recentemente da quel troglodita calciatore fidanzato della mia migliore amica. Leonardo Sogno: un nome, un programma.
Purtroppo Mr. Abbott era rimasto a fissarmi incredulo, mentre si chiedeva quale razza di svitata aveva assunto per il suo tirocinio. Nel frattempo il ragazzo-stalker non la finiva di ostentare un sorriso sfacciato che non faceva altro che farmi saltare i nervi più del dovuto.
Gentilmente tolse la mia mano dalla sua giacca firmata e lisciò la porzione che avevo sgualcito col fervore delle mie azioni spropositate di poco prima.
«Zio Henry,» disse poi, rivolgendosi all’uomo alle mie spalle.
Sbiancai in trentatré secondi netti, elaborando solo troppo tardi le evidenti somiglianze tra il giovane che mi perseguitava e il proprietario di tutta la baracca. Yuki sogghignava sotto i folti baffi che pensava di aver tolto dall’estetista, mentre io non avevo nemmeno il coraggio di voltarmi.
Sapevo che un fired! urlato da Mr. Abbott non me lo avrebbe tolto nessuno. Ero rovinata.
Soltanto tu potevi scambiare il nipote del tuo capo per uno stalker!
Oh, non ti ci mettere anche tu adesso!
«James!» sorrise l’uomo, andando in contro al ragazzo e abbracciandolo con calore. «Ti aspettavo per questo pomeriggio.»
«Sì, ho fatto prima,» si giustificò. «Il treno da Canterbury è passato stranamente in orario.»
Cercai distintamente di mimetizzarmi con la tappezzeria dell’ingresso, ma lo sguardo azzurro brillante di Mr. Abbott mi immobilizzò sul posto.
«Conosci già una delle nostre tirocinanti?» disse al nipote, indicandomi.
Quel tale di nome James si allargò in un sorriso sincero. «Ho avuto questo onore.»
Lo zio rimase molto perplesso, ma non ci fece caso. Se avessi saputo che il ragazzo era niente poco di meno che il nipote del mio capo, avrei tentato di tutto per non fare un’infinità di figure di merda davanti a lui.
«È una ragazza brillante, una promessa. È italiana, sai?» e tentai di non arrossire dopo tutti i complimenti che Mr. Abbott stava elargendo, facendo diventare Yuki livida di rabbia.
«L’ho capito dal suo accento, anche se ha una pronuncia quasi impeccabile,» sorrise il tipo.
«Bene, bene,» disse compiaciuto il vecchio avvocato. «Spero proprio che andiate d’accordo, anche perché non è escluso che vi faccia collaborare d’ora in poi.»
«Zio, non sono arrivato allo studio nemmeno da un giorno e già vuoi sobbarcarmi di lavoro?» ridacchiò il ragazzo, trascinandomi in una risata finta come una banconota da 3 sterline.
Il vecchio Abbott sorrise. «A dire il vero, mi è capitato un caso interessante tra le mani di recente e vorrei proprio vedere come ve la cavate,» propose ed io continuai ad ascoltarlo.
Dentro di me non potevo che gioire come una bambina al parco giochi, mentre Yuki si contorceva le budella dalla rabbia. Avevo rischiato il licenziamento, questo dovevo ammetterlo, ma in compenso ora potevo addirittura occuparmi di un caso vero e proprio, anche se avrei dovuto dividerlo con il bellimbusto.
«Beh, non voglio stare qui ad annoiarvi. Torno in ufficio, ne parleremo meglio quando si presenterà l’occasione. Buona giornata e buon lavoro.» Così Mr. Abbott si congedò e mi lasciò da sola a specchiarmi nelle iridi azzurrine di quello strano ragazzo che avevo incontrato per caso quella mattina sulla Tube.
La mano del destino alle volte aveva un modo davvero curioso di agire, di muovere dei fili e di tirarne degli altri.
«Non mi sono ancora presentato a dovere,» disse lui, sorprendendomi. «Piacere, James Abbott. Per gli amici Jamie.»
Gli strinsi la mano con decisione, dopotutto si trattava pur sempre di un collega. Certo, il suo sorriso e quel suo sguardo erano disarmanti, ma io ero una professionista, non più una ragazzina alla sua prima cotta. Ero impassibile come un blocco di ghiaccio.
«Piacere mio. Vènera.» sospirai, marcando l’accento sulla prima ‘e’ del mio insolito nome.
Jamie, come da copione, spalancò gli occhi dalla sorpresa nel sentire la particolarità del mio nome di battesimo ed io pensai subito che scoppiasse a ridermi in faccia.
Non sarebbe stata la prima volta, dopo tutto.
Invece mi sorprese. «Bel nome, mi piacciono quelli particolari,» sorrise. «Sento già che sarà un piacere lavorare con te. Sei un tipetto niente male, suppongo.»
Avrei voluto rispondergli per le rime, ma dovevo mantenere un certo contegno. Ormai ero un avvocato e non sarebbe stato professionale perdere le staffe.
«Spero che tu sia bravo a parole tanto quanto ad attaccarti ai cavilli procedurali, altrimenti dovrò sobbarcarmi tutto il lavoro,» sghignazzai, sentendo di aver fatto centro. «Ora scusami, ma devo lavorare.»
Dopodiché mi avviai alla scrivania sentendo gli occhi di Jamie incollati alla schiena. Sorrisi dentro di me e pensai che dopo tutto la giornata non era iniziata poi tanto male.

***
Eccomi qui con una nuova originale (che pizza! ndr. i lettori)
Questa storia mi frullava da tempo in testa, precisamente da quando è entrato il personaggio di Venera nella originale a 4 mani Come in un Sogno. Diciamo che l'ho inquadrata subito, e che mi sarebbe piaciuto molto fare uno spin-off su di lei perché è determinata ed adoro il suo carattere. Come ho detto nella presentazione, non è affatto necessario aver letto CIUS per capire di cosa si parla, perché si svolge in un futuro ben lontano.
Beh, questo prologo introduttivo ci presenta il carattere della protagonista, che è molto determinata e ci consente di dare uno sguardo anche alla sua vita lavorativa nella capitale inglese e ci presenta alcuni suoi colleghi.
Uno in particolare.
Ovviamente questo personaggio è ispirato ad una persona reale, cioè la mia Wife, nonché beta, nonché tuttofare. I love u! Ovviamente il capitolo è dedicato anche alle altre mie Crudelie, che mi supportano sempre. Vi lovvo girls!
Spero proprio che vi susciti almeno un po' di curiosità. Ci rileggiamo al prossimo capitolo :33

Kiss, Marty
   
 
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