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Autore: Beatrix Bonnie    01/05/2012    1 recensioni
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».

La storia di un giovane ragazzo sognatore che decide di combattere fino alla fine pur di veder realizzati i suoi obiettivi. Un esempio di virtù e costanza, sullo sfondo di un Irlanda che si affaccia faticosa alla modernità industriale.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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Prologo



Dublino, 2014




Un improvviso urlo isterico proveniente dal piano di sopra mi riscosse dai miei pensieri. Appoggiai la fotografia che avevo in mano di nuovo sul comodino e mi affrettai a salire le scale a chiocciola.
Dalla stanza da cui era giunto il grido, uscì di getto Jenny, migliore amica di mia figlia nonché sua testimone di nozze. «Crisi prematrimoniale, io non so più che dirle!» sbottò la ragazza, con un sonoro sbuffo. Si fece da parte e accennò alla porta, incitandomi ad entrare.
Io presi un profondo sospiro, poi entrai nella stanza.
Mia figlia Maryon era appallottolata sul suo letto, con un braccio intorno alle ginocchia e l'altro occupato a reggere una fotografia ingiallita dagli anni. La fissava e emetteva ogni tanto alcuni sospiri, intervallati da scrosci di pianto disperato. Indossava solo la sottoveste bianca, mente l'abito per il matrimonio era su una gruccia appesa alla maniglia della finestra. Quando si accorse che ero entrato in camera sua, scoppiò a piangere e gettò la fotografia lontano.
«Ehi...» mormorai, sedendomi sul letto accanto a lei.
«Oh, papà!» esplose Maryon, gettandomi le braccia al collo. «Io non mi sposo più!»
«Tesoro, non dire sciocchezze» la rimproverai dolcemente, scostandole una ciocca di capelli dal volto. «Perché non vorresti più sposarti?»
Maryon deglutì e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, spargendosi il trucco nero su buona parte della guancia. «Io... non lo so» mugugnò, tirando su con il naso. Dopodiché mi vomitò addosso tutte le sue ansie: «È che... insomma, sono spaventata. E se poi non va bene? E se, dopo che l'ho sposato, lui diventa un idiota come suo padre? Chi mi garantisce che non si rincretinirà completamente? E se invece smettesse di amarmi? O se poi non dovessimo andare d'accordo? Insomma, vivere sotto lo stesso tetto non è semplice. Soprattutto con uno come lui! E poi perché dobbiamo andare a vivere in quella enorme casa vuota? Io sto bene qui con te, babbo!»
Ottimo, avevo a che fare con un immotivato crollo di razionalità prematrimoniale che non sapevo come risolvere. E la cerimonia era fra poco più di un'ora.
«Maryon, guardami negli occhi» le ordinai. Sebbene arrossati, erano ancora incredibilmente belli, verdi e intensi come quelli di suo nonno. «Lo so che sei spaventata, è normale» cercai di rassicurarla, ma a giudicare dal suo sguardo atterrito, le solite parole di circostanza non sarebbero servite: ci voleva qualcosa di più.
«Vuoi sapere come andò fra me e tua madre?» buttai lì di getto, senza pensarci troppo. Forse era la suggestione data da quella fotografia ingiallita appartenuta a sogni remoti, che Maryon aveva gettato lontano, o forse il suggerimento veniva dal fatto che anche io avevo appena smesso di ammirare una foto della stessa persona che era ritratta in quella di mia figlia.
Era un argomento di cui non parlavamo molto, in realtà, ma pensai che potesse essere un buon deterrente anti crisi immotivate.
Maryon mi scrutò sospettosa, cercando di indagare le mie vere intenzioni, ma poi la curiosità ebbe la meglio. «Ok, papà, ti ascolto» mi sussurrò, con un cenno del capo.
Allora io presi a narrare.


Un secondo prologo



Dublino, 1972




Pioveva, il giorno in cui la mamma venne a prendermi a scuola, dicendo che a mio padre era capitato un incidente sul lavoro. All'epoca, avevo sette anni.
Da quel momento, la mia vita cambiò radicalmente.
Ricordo a malapena il turbinio di parenti che sconvolse l'equilibrio del nostro piccolo appartamento di periferia. Erano tutti venuti a far visita alla mamma, la giovane vedova rimasta senza marito e senza soldi. Ricordo che la nonna, una donna forte con due enormi braccia da contadina e il fazzoletto sempre in testa, cercava di convincere la mamma a trasferirsi con loro nella casa di campagna, dove avrebbe potuto lavorare nei campi e trovare qualcosa per dar da mangiare ai suoi figli. Ma lei non voleva, perché sapeva benissimo che questo avrebbe condannato me e mio fratello David ad accontentarci di un misero diploma della primary school, per poi passare il resto della nostra vita a zappare la terra. Non che tutto ciò fosse disonorevole, ma lei voleva qualcosa di più per i suoi bambini.
Il giorno del funerale pioveva. Non che fosse una novità, visto che in Irlanda pioveva praticamente sempre, ma quel giorno si era scatenato un vero e proprio acquazzone. La pioggia investiva la città con una forza spaventosa e il vento era tanto potente da rendere perfettamente inutile l'ombrello.
Mamma aveva fatto indossare sia a me che a David il vestito buono della domenica, anche se le bermuda e le calzette bianche non erano molto indicate per quel tempo. Arrivammo in chiesa che ero ormai bagnato fradicio, con le ginocchia scoperte che tremavano per il freddo. Alcune vecchiette scambiarono i miei tremori per commozione e sospirarono afflitte anche loro.
In realtà, io non avevo ben capito che cosa significasse tutta quella storia. Papà non c'era più, mi dicevano che era andato in cielo, ma non sapevo come ci fosse arrivato, né quando sarebbe tornato. Inoltre, perché mi dicevano che era andato in cielo, quando io lo vedevo lì, a riposare tranquillo dentro uno strano letto?
«Nonna, quando si alza da lì?» domandai, indicando la bara. Mio papà era sempre stato un gran burlone e mi aspettavo che se ne venisse fuori con un gran sorriso e qualche dolcetto per me e David.
La realtà mi piombò addosso bruscamente, nelle vesti della mia burbera nonna. «D'athair tá marbh» mi sputò addosso, con ben poca grazia e sensibilità.
Tuo padre è morto. Marbh. Morto.
Morto significava... che non sarebbe più tornato. Era andato via, ci aveva abbandonati.
Improvvisamente le ginocchia ripresero a tremarmi, ma questa volta non c'entrava nulla il freddo. La chiesa mi sembrò immensa e cupa, con quelle enormi colonne che mi schiacciavano sul pavimento e quegli orridi mascheroni demoniaci che ornavano gli archi. Qualcuno piangeva sommessamente, ma quel pianto mi pareva un urlo disperato. Mio fratello David era seduto tra i banchi: era troppo piccolo per toccare terra, quindi dondolava i piedini avanti e indietro, in modo ipnotico e snervante. Il prete prese il turibolo e cominciò a dondolarlo avanti e indietro, spargendo fumo per tutta la chiesa; l'odore di incenso di bassa qualità mi aggredì le narici e mi fece lacrimare gli occhi.
Fu l'ultima goccia.
Scappai via in lacrime, ignorando mia madre che mi richiamava e la nonna che gridava. Corsi fuori e fui investito dalla pioggia battente, ma non me ne curai. Presi a vagare a caso per la città, scappando da qualcosa che nemmeno io sapevo cosa fosse.
Forse, volevo fuggire dal dolore. Speravo che, lontano da quella lugubre chiesa, il destino mi apparisse meno cupo. E forse allora papà sarebbe tornato.
Nemmeno mi accorsi di essere andato a sbattere contro un signore alto, vestito con un lungo cappotto nero.
«Ehi, stai attento a dove vai» mi disse l'uomo, con una voce roca e graffiante.
Alzai gli occhi su di lui e vidi che era vecchio, con i baffi, e un paio di occhiali marroni. Mi pareva alto come una montagna, con quel cappotto scuro e l'ombrello nero che lo sovrastava.
«Mi... mi scusi» borbottai, con un singhiozzo.
Il signore dall'aria distinta mi fece un cenno, ma poi si fermò a guardarmi e notò che ero bagnato fradicio e che avevo gli occhi arrossati per il pianto. «Tutto bene, figliolo?» mi domandò, in tono gentile e preoccupato assieme.
Io mugugnai qualcosa ed accennai un sì con il capo. Poi il mio sguardo fu rapito dal palazzo in cui stava entrando il signore alto: era enorme, imponente e emanava un fascino di serietà, come l'uomo che avevo di fronte. «Che posto è questo?» domandai estasiato.
«È il Trinity College, una delle più importanti università di Dublino» mi rispose il signore, con un sorriso bonario.
«E lei lavora qui?» chiesi ancora, alzando il naso per osservare meglio il palazzo, incurante della pioggia.
«Certo» mi disse l'altro. «Sono un professore».
Professore... che parola magica!
Quell'uomo mi pareva imperturbabile, come se nulla potesse intaccarlo nella sua aurea serenità. Era alto, grande, era rispettato. E aveva un bel cappotto caldo.
Volevo essere come lui.
«È difficile diventare professore?» mi informai, con una certa preoccupazione.
L'uomo sorrise divertito. «Be', devi studiare tanto e impegnarti al massimo in quello che fai» mi rivelò, i baffoni che nascondevano a stento un bonario sogghigno.
Annuii con convinzione.
Bene, studiare e impegnarsi. L'avrei fatto, ad ogni costo.
E poi un giorno, chissà, anche io avrei avuto un lungo paltò nero, un borsalino in testa e una rispettabile aria da intellettuale.




Ecco qui il doppio prologo della nuova storia dedicata al ciclo di Faerie... ci siamo catapultati in tutt'altra epoca! Siamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, questa volta per raccontare la storia di un Alborgeth (ma non mancheranno i McGregor, com'è ovvio!).
Spero che questo primo capitolo vi abbia incuriositi... presto faremo una migliore conoscenza del protagonista!
Ah, il suo nome è stato deciso taaaaanto tempo fa (sono passati quasi sei anni): Remus Alborgeth. A quell'epoca ero completamente innamorata di Remus Lupin (perché, ora no?) e ho dato il suo nome a questo personaggio che in realtà doveva essere secondario; certo non mi aspettavo che un giorno avrei scritto una storia su di lui. Se dovessi scegliere adesso, gli darei un altro nome ma ormai era Remus. Abbiate pazienza e perdonate questa bizzarria!
Aggiornamento settimanale di martedì pomeriggio.
Grazie a tutti,
Beatrix

   
 
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