Note: Questa storia ha preso parte all'edizione 2011 del Big Bang Italia.
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If I were you
“Come stai?”
Nonostante
la smorfia
di dolore, gli occhi dell’eroe brillavano pieni di calore.
“Benissimo,
non
preoccuparti.”
Bunny
sbuffò
distogliendo lo sguardo.
“Non
mi sto
preoccupando” borbottò seccato ficcandosi le mani
in tasca, ma dal sorriso di
Tiger il ragazzo capì di non essere stato abbastanza
convincente.
“Che
c’è?” domandò
irritato nel sentire quello sguardo così riconoscente e
– possibile? –
affettuoso dell’altro su di sé.
“Niente.”
Kotetsu
si sfiorò il
fianco mentre osservava il suo compagno uscire dalla stanza con un
breve saluto
e non poté impedire ad un sorriso ancor più ampio
di illuminargli il viso.
Era
semplicemente
contento che Bunny-chan dimostrasse un minimo di affetto e
preoccupazione nei
suoi confronti.
Ora
che Jake era
morto il ragazzo avrebbe potuto gettare alle spalle il proprio passato,
ricominciare da capo; certo, ce n’era voluto di tempo per
tutto questo: gli
scontri, l’umiliazione, tutto fino all’inganno a
fin di bene, la sua ultima
risorsa.
L’aveva
fatto per il
suo compagno, solo per lui.
E,
nonostante il
dolore, era convinto che ne fosse valsa la pena.
Gli
ospedali non gli erano mai piaciuti.
Quella
era stata la prima scusa che gli era venuta in mente per non dover
andare a
visitare il suo impulsivo e catastrofico compagno di squadra.
Una
piccola emorragia poi non doveva essere nulla di grave, era stato
ricoverato
solo per precauzione, nulla di più.
In
fin dei conti gli aveva parlato solo il giorno prima e, pur bendato e
un po’
sofferente, di certo non gli era sembrato troppo malridotto e
sicuramente non
in fin di vita.
Barnaby
continuò a ripetersi il suo impeccabile ragionamento a
mente, sempre più deciso
a non entrare in quel dannato ospedale, anche quando Blue Rose si
parò di
fronte a lui, la quintessenza della rabbia.
Non
l’aveva mai vista con uno sguardo così furioso,
poteva addirittura distinguere
la vena che pulsava pericolosamente sulla tempia mentre lei lo
squadrava, le
mani sui fianchi.
<
Si può sapere che ci fai qui?!>
Il
nuovo salvatore ed idolo di tutta la città
sollevò un sopracciglio con aria
interrogativa, per niente certo di aver compreso appieno la domanda.
<
Come, scusa?>
La
ragazza gli puntò un dito al petto, più
arrabbiata ogni secondo che passava.
<
Dovresti essere da lui, non ad allenarti, maledizione! Se non lo aiuti
ora
quando pensi di farlo?!>
Bunny
sospirò seccato e passò oltre, cercando di
ignorarla; un urlo indignato dietro
di lui gli fece intendere che non sarebbe stato così facile
far finta di
niente.
<
Perché diamine..?!>
<
Il vecchio non ha bisogno del mio aiuto: è in una struttura
specializzata, con
i migliori medici di tutta Sternbild ad assisterlo. La mia presenza
sarebbe
solo un elemento di disturbo per chi lavora per la sua salute.>
replicò con
tono piatto anticipando e stroncando la domanda.
Il
silenzio alle sue spalle lo tranquillizzò un poco e stava
già per avvicinarsi
ad una delle macchine della palestra quando qualcosa lo
colpì con forza alla
nuca: era l’asciugamano di Blue Rose.
Si
voltò, stupendosi di trovare la ragazza prossima ad una
crisi di pianto, le
lacrime che già cominciavano a scivolare rapide lungo le
guance.
<
Sei davvero un idiota!> strillò con tutta la forza
che aveva e girò sui
tacchi, uscì dalla stanza sbattendo la porta. A Barnaby non
restò che
appoggiare l’asciugamano su un ripiano e tornare al proprio
allenamento,
chiedendosi che diamine fosse preso a quella ragazzina.
Due
giorni dopo le condizioni di Kotetsu non era affatto migliorate, anzi.
I medici
non riuscivano a spiegarsi cosa stava succedendo, anche se supponevano
che
fosse a causa dell’eccessivo sforzo a cui si era sottoposto
Wild Tiger per
raggiungere Bunny sebbene fosse uscito gravemente ferito dallo scontro
con
Jake.
Nonostante
ciò il suo partner era ancora restio ad andare a trovarlo:
non che gli costasse
così tanto fare pochi chilometri o trovare dieci minuti per
fargli visita, ma
qualcosa dentro di lui glielo impediva.
Dopo
la battaglia si era sentito sollevato, non era mai stato
così bene come in quel
momento e le parole erano uscite spontanee, senza freni: il nome di
quell’uomo,
la fiducia che riponeva in lui…
Ma
già poche ore dopo la situazione sembrava impossibile da
gestire con così tanta
facilità: era davvero tutto finito? Poteva ritenere
l’assassinio dei suoi
genitori vendicato, la lotta contro Ouroboros terminata, la sua vita
restituita?
Si era aspettato che qualcosa cambiasse, che non fosse tutto dentro la
sua
testa, ma che qualche ripercussione della sua vittoria ci fosse anche
nel mondo
esterno, in Sternbild.
Invece
tutto era come prima, non era cambiato assolutamente niente.
E
poi, quello che aveva detto a Tiger… si era fatto trascinare
dall’impeto della
vittoria, non poteva essere altrimenti: come poteva fidarsi di un uomo inaffidabile e catastrofico come
quello?
Certo,
l’aveva aiutato, aveva rischiato la sua stessa vita per
aiutarlo in ogni modo,
ma non poteva dimenticare le bugie, i comportamenti strani, i disastri
che
combinava sette giorni su sette. E Bunny temeva che rivedendolo sarebbe
potuto
succedere qualcosa; cosa non lo sapeva neanche lui.
Sarebbe
potuto tornare al punto di partenza, rimangiarsi le parole e diffidare
del suo
compagno. Oppure avrebbe potuto aprirsi a lui, cancellare un passato di
screzi
e ricominciare come una squadra vera e propria.
Aveva
paura di scoprire cosa sarebbe accaduto.
Nel
frattempo Blue Rose aveva iniziato a evitarlo, a non rivolgergli
più la parola,
addirittura a cambiare stanza quando lo vedeva. Quel che era peggio era
che non
era più la sola a biasimarlo per il suo comportamento: Rock
Bison non l’aveva
presa affatto bene e anche Dragon Kid e Fire Emblem sembravano avere
delle
riserve.
Erano
felici che lui avesse risolto il caso dei suoi genitori, ma Kotetsu
aveva
rischiato la vita e l’ingratitudine che stava dimostrando non
era affatto
apprezzata dagli altri eroi.
Doveva
essere un complotto, rifletté il ragazzo, una sorta di
pressing psicologico per
costringerlo ad andare a trovare il suo compagno, ma lui non aveva
alcuna
intenzione di stare al loro gioco.
Almeno,
questo era quello che credeva.
Il
giorno seguente Kotetsu stava peggio che mai e finalmente Barnaby
decise di
smetterla con il suo comportamento irresponsabile e trovò il
tempo e il
coraggio di salire in macchina e guidare fino a quell’odiato
ospedale.
Fece
le scale a fatica, una repulsione quasi fisica lo spingeva a tornare
sui suoi
passi con grande rapidità, ma si trattenne ed
entrò con uno sbuffo in corsia:
il fatto che medici, infermiere e tutto il personale lo salutassero con
una
tale allegria, come se lo stessero aspettando da tempo, non fece che
peggiorare
il suo malumore.
Sembrava
che tutti si fossero aspettati una sua visita al collega e questo, per
qualche
assurdo ed illogico motivo, lo mandava in bestia.
Quando
però entrò nella stanza dov’era
ricoverato Tiger ogni suo funesto pensiero fu
spazzato via: non aveva mai visto l’uomo così
pallido e malridotto, gli occhi
chiusi e i pugni serrati mentre si mordeva con forza il labbro
inferiore.
<
Vecchio?> balbettò con aria sconvolta, ma subito dopo
recuperò il suo
contegno e si diede dell’idiota per aver lasciato che
l’emozione lo
trasportasse troppo.
<
Ah, Bunny… Come mai qui?>
Il
giovane represse il desiderio di picchiarlo solo perché era
già messo molto
male e non voleva certo accollarsi la responsabilità della
morte del suo poco
gradito partner.
<
Basta vederti per capire perché sono qui, idiota.>
sbottò scocciato e si
avvicinò a grandi passi al letto.
Era
giunto in quel luogo con l’intenzione di scaricare i nervi
con una bella
sfuriata, magari qualche insulto o cose così, ma
più si avvicinava a Kotetsu e
più la sua rabbia svaniva.
Si
guardarono per una manciata di secondi, Tiger aveva quella sua aria
perplessa
di quando una situazione gli sfuggiva di mano e lui finiva per non
capire più
niente.
<
Bé?> chiese sconcertato dall’atteggiamento
lunatico di Bunny.
<
Come ti senti?>
<
Un po’ uno straccio, ma grazie. Mi riprenderò in
fretta.>
Barnaby
annuì meccanicamente e rimase lì in piedi, senza
sapere cos’altro dire; l’altro
fu così gentile da iniziare un discorso qualunque, giusto
per riempire il vuoto
che stava per crearsi, chiedendo come stavano gli altri e
com’erano gli ultimi
casi che avevano affrontato.
Dopo
quasi mezz’ora di visita, un tempo record considerato come si
sentiva il
giovane quand’era entrato in ospedale, il visitatore fece per
andarsene, ma la
voce di Kotetsu lo fermò.
<
Quella volta, dopo la battaglia con Jake… mi hai chiamato
per nome. Ora invece
no.>
Bunny
gelò sul posto: era quello che avrebbe voluto evitare, ma le
parole, ancora una
volta, gli sfuggirono dalle labbra.
<
Scusa.>
Se
non gli avesse dato le spalle avrebbe visto il collega sbarrare gli
occhi e
agitare confusamente le mani davanti al viso come per rimangiarsi quel
che
aveva detto.
<
Ehi, ehi, tranquillo, non c’è nulla di cui
scusarsi!>
Un
sorriso sincero si dipinse sulle labbra del ragazzo mentre si voltava
per dare
un’ultima occhiata a Kotetsu.
<
Rimettiti presto.>
<
C-certo, sarò in piena forma! Non preoccuparti,
Bunny-chan!>
Non
appena la porta si chiuse dietro al suo
compagno, si passò una mano tra i capelli:
che diamine stava succedendo a quello lì?
Ivan
non era mai sicuro di quel che faceva, neanche quando eseguiva
semplicemente
gli ordini o imitava i suoi colleghi durante conferenze, interviste e
altri
eventi mondani; aveva come la sensazione di commettere qualcosa di
sbagliato,
di essere lui stesso sbagliato.
Non
aveva la stoffa per fare l’eroe, l’aveva sempre
saputo: uno che sobbalzava al
minimo rumore anche in pieno giorno o cercava di nascondersi il
più possibile
per non essere notato non poteva essere il salvatore della popolazione
di
Sternbild City, era solo uno scherzo di cattivo gusto.
Un
eroe doveva essere spavaldo, disponibile, il sorriso stampato sulle
labbra e lo
sguardo di un uomo forte, sicuro di sé, affidabile, come Sky
High o Barnaby,
tanto per fare degli esempi.
O
come Edward, tanto per rigirare il
coltello nella piaga.
Deglutì
istintivamente e si lanciò occhiate furtive alle
spalle; se si sentiva insicuro di sé alla luce del sole, di
certo le buie e
tenebrose stradine secondarie di quella città non lo
aiutavano a rilassarsi.
Aveva
il terrore di essere seguito, che qualcuno vedesse, che qualcuno
scoprisse.
Non
tanto che continuava a coltivare amicizie “pericolose per la
sua immagine”,
come aveva messo in evidenza il suo capo, ma che avesse segreti da
nascondere,
rimorsi che non potevano essere condivisi e risolti con gli altri:
erano la sua
punizione, la pena da scontare per la sua colpa e – lui ne
era profondamente
convinto – se lo meritava sotto ogni punto di vista.
Sospirò,
immerso nei suoi pensieri, nei ricordi che avrebbe volentieri
dimenticato e
quando il marciapiede sotto di lui finì realizzò
di essere arrivato.
Alla
luce della luna la prigione era ancora più spettrale, buia
come la notte ad
eccezione di qualche finestra illuminata al pian terreno, dove i
custodi
svolgevano il loro lavoro; per il resto le alte mura grigio cenere si
stagliavano contro il cielo come i bastioni di una fortezza
inespugnabile.
Un
luogo senza vie d’uscita.
E
lui era lì per colpa sua, solo ed unicamente sua.
In
compagnia di una nuova ondata di malessere e sensi di colpa Ivan
avanzò
lentamente, i passi echeggiavano sul cemento e le gambe gli parevano
fatte di
piombo per quanto difficile era avanzare.
Ogni
volta che incontrava il suo sguardo ricordava.
Ogni
volta che incontrava il suo sguardo si odiava.
E
non poteva non ripetersi che, ancora una volta, era tutta colpa sua.
Il
custode gli sorrise all’entrata, ormai lo conosceva bene;
veniva lì almeno una
volta a settimana e sempre negli orari più disparati.
Inizialmente il direttore
aveva avuto qualcosa da ridire, l’orario delle visite era
rigido e seguito al
minuto per questioni indiscutibili di sicurezza, ma con un impiego ad
orari flessibili
come quello dell’eroe, Ivan non riusciva materialmente a
rispettare quelle
regole.
Così
il suo capo, nonostante disapprovasse quelle escursioni sempre
più frequenti,
era riuscito a procurargli un permesso speciale per visitare il suo
amico; in
fin dei conti non era ritenuto in criminale troppo pericoloso, bastava
una guardia
apposita per sorvegliarlo, rinforzi
speciali e cose simili non erano necessari.
Scambiò
due parole con l’uomo, che
chiamò una guardia perché lo scortasse alla
cella; in un minuto l’agente, uno sulla trentina, dalle
guance scavate e gli
occhi nascosti sotto la visiera del cappello della divisa, li raggiunse
in
fretta e lo accompagnò per quel dedalo di corridoi a cui il
biondo si stava
ormai abituando.
Da
quanto tempo andava avanti? Tre mesi? Forse di più, non
ricordava la data della
sua prima visita, ricordava però come questa era passata,
loro due seduti ai
lati di un tavolo di ferro, fermi a guardarsi senza praticamente
pronunciare
una parola.
Lo
sguardo di Edward quel giorno lo aveva devastato: non riusciva a
reggerlo,
sentiva il bisogno fisico di nascondersi, ficcare la testa sotto la
sabbia,
pretendere di non essere in quel luogo, in quel momento.
Aveva
cercato con disperazione via via crescente di fissare la propria
attenzione di
qualche particolare della cella, ogni pretesto andava bene, ma
quell’ambiente
era talmente spoglio, talmente vuoto e impersonale che il ragazzo aveva
finito
per ammirare i lacci delle proprie scarpe per venti minuti.
Non
sapeva dove aveva trovato la forza di tornare la settimana seguente, ma
l’aveva
fatto comunque.
Le
cose erano andate migliorando, qualche mezza parola era stata
borbottata,
qualche sguardo di più scambiato tra i due.
Adesso,
pensava Ivan con una punta di orgoglio, erano quasi in grado di
sostenere una
conversazione sufficientemente fluente per tutto il tempo della visita;
in
fondo al cuore sperava che, prima o poi, il loro rapporto si sarebbe
ricucito,
le cose sarebbero tornate come un tempo.
Ma
nel profondo sapeva – sentiva –
che
tutto questo era impossibile.
<
Siamo arrivati.> disse la sua guida. Ivan se ne era
già reso conto, ma fu
grato all’uomo per aver spezzato il silenzio e la tensione:
ne aveva davvero
bisogno.
Oltre
a quelle pareti – tutte regolarmente di un materiale
speciale, fatto apposta
per i Next – e a quella porta cigolante c’era
Edward, seduto su quello che sarebbe
dovuto essere il suo materasso, se così si poteva definire,
le gambe strette al
petto, il mento appoggiato sulle braccia incrociate.
Il
suo sguardo trafisse il biondo, che esitò un attimo prima di
fare un passo
avanti nella cella.
<
Avete venti minuti.> ricordò la guardia
allontanandosi di qualche metro per
lasciare ai ragazzi la loro privacy, abbastanza lontano da non
origliare le loro
conversazioni, sufficientemente vicino per intervenire in caso di
bisogno.
<
Ciao.>
Il
sussurro che lasciò le labbra di Ivan probabilmente non
arrivò neanche alle
orecchie dell’altro da quanto era debole, ma il giovane si
accontentò di
leggerne il labiale.
<
Non credevo saresti venuto.>
Il
visitatore prese posto sulla solita sedia di plastica, un po’
più vicino a
Edward ad ogni sua visita.
<
Perché?>
Lo
sguardo di Edward era una tortura, ma cercò di non mostrare
il proprio disagio.
<
Lo scontro con Jake Martinez. Ho sentito che ve le ha suonate.>
<
Ah, sì, quello…>
Calò
un silenzio imbarazzato per un paio di minuti, fino a che il rosso non
si
decise a spezzarlo.
<
Non sei ferito?>
Ivan
sobbalzò: era preoccupato per lui? O era solo una domanda di
circostanza, per
non passare anche quella visita a fissarsi le scarpe e evitare sguardi?
<
Sì, ho ancora le bende addosso… Sono dovuto
restare in ospedale per parecchi
giorni, è il motivo per cui la scorsa settimana non sono
venuto.> mormorò come
spiegazione, muovendosi sulla sedia alla ricerca di una posizione
comoda, ma
pareva un’utopia.
La
pausa di silenzio che scese su di loro fu più breve della
precedente e
decisamente più rilassata: era come se entrambi fossero
immersi nei loro
pensieri, riflettendo con cura su cosa dire dopo. I minuti erano
contati e,
almeno per Ivan, era un delitto sprecarli.
<
Ho sentito che hai avuto una parte importante
nell’operazione.>
Questa
volta fu il rosso a mormorare e l’altro dovette tendere le
orecchie per comprendere
la frase.
<
In un primo momento. Era l’unico modo per rendermi
utile.>
<
Racconta.>
Non
era un ordine o un semplice tentativo di non restare muti
l’uno davanti
all’altro, era una richiesta quasi implorante, nonostante il
tono non lo desse
a vedere. Era un tentativo di tornare a sognare il mondo degli eroi,
quello a
cui Ed avrebbe dovuto appartenere.
E
al contempo di rivedersi, per una volta, al fianco
dell’amico, a condividerne i
pensieri, le sensazioni, le paure, le ansie, i successi. Anche lui
sapeva che
indietro non si poteva tornare, che il passato sarebbe rimasto
là fermo, una
presenza inquietante e inamovibile a ricordo di ciò che era
successo e non si
poteva cambiare.
Ma
la tentazione di rivivere quello che era stato prima era troppo forte
per
entrambi e Ivan cominciò a raccontare come non faceva da
anni, le parole
uscivano spontaneamente mentre metteva al corrente il suo compagno di
come si
era infiltrato, di come gli tremavano le mani, del groppo alla gola
mentre Jake
gli parlava, del terrore quando aveva scoperto che l’altro
aveva capito che era
tutta una montatura.
Quando
la guardia si affacciò alla porta per annunciare quasi
timidamente che il tempo
era scaduto, Ivan
stava ancora parlando.
Si
arrestò disorientato, come se non si fosse reso conto di
quanto aveva detto e
di quanto aveva ancora da dire.
<
Va’
pure. – gli disse Edward stirando
le labbra in un mezzo sorriso stentato – Finirai di
raccontarmi la prossima
volta.>
Il
biondo annuì e con un saluto a mezza voce uscì
seguendo l’agente.
Solo
quando il portone di ingresso si chiuse alle sue spalle e si
trovò a respirare
l’aria frizzante della notte, davanti a sé
l’intera Sternbild che brillava di
luce, solo allora si rese conto che per la prima volta Edward gli aveva
chiesto, in maniera traversa, di tornare.
Il
lunedì della settimana seguente vide Ivan indaffarato fin
dalle prime ore del
mattino per smaltire tutto il lavoro che gli era stato affidato; il suo
manager
e la troupe di Hero TV non l’avevano
mai visto così impegnato, così dedito alla causa
come quel giorno.
<
Va tutto bene, Ivan?>
Il
ragazzo sorrise al suo capo mentre era intento a firmare una serie di
album di
figurine che sarebbero stati messi sul mercato tre giorni dopo.
L’uomo si stupì
di tutto questo, Origami Cyclon era il meno entusiasta nel compiere
quel genere
di attività per i fans (per via di tutte quelle scemenze sul
fatto che in
realtà lui non piaceva a nessuno e l’unico motivo
per cui restava nella lista
degli eroi di Sternbild era perché era bravo a far
pubblicità).
Forse
l’unico meno felice di lui nel svolgere quel lavoro era Wild
Tiger, sempre
pronto a lamentarsi di tutte le scartoffie che doveva firmare, ma in
quel
momento l’uomo era ancora ricoverato, anche se le sue
condizioni sembravano
migliorare.
<
Dimmi, Ivan.> cominciò e si interruppe
finché gli occhi del giovane non si
sollevarono per fissarlo in viso. < Questo tuo…
particolare impegno è dovuto
alle tue visite settimanali?>
Non
serviva essere degli esperti conoscitori dell’animo umano per
interpretare
correttamente il sorriso che illuminò il volto del biondo,
gli occhi che
brillavano.
<
Oh, capisco. Bé, in questo caso spero che tu possa
continuare quelle tue
escursioni ancora a lungo.>
Come
ricompensa per il suo duro lavoro Ivan si ritrovò con il
pomeriggio
completamente libero e prima di avere il tempo di organizzare
attentamente quel
che restava della giornata correva sul marciapiede che portava
all’istituto
circondario di Sternbild.
Il
custode fu alquanto sorpreso di vederlo in quell’orario
così “ordinario”, ma
gli aprì ben volentieri la porta.
<
Sarebbe bene che aspettaste qui, il signor Keddy ha già un
visitatore al
momento. Non appena il suo tempo scadrà vi farò
accompagnare da una
guardia.>
Ivan
rimase a bocca aperta, allibito.
<
Una visita? Di chi?>
<
Un giudice famoso, ma mi sfugge il nome al momento. Viene qui spesso,
comunque.>
<
E ha già fatto visita ad Edward in passato?>
<
Non che io ricordi. Credo che quand’è successo il
fattaccio non fosse ancora
nel giro… sapete, è molto giovane,
davvero.>
Origami
Cyclon si sedette su una di quelle terribile sedie in plastica che
pareva
dovessero rompersi da un momento all’altro e attese: non era
mai stato così
nervoso, tralasciando le classiche crisi che l’avevano
assalito le prime volte
che era andato a trovarlo.
Chi
era quel visitatore? Cosa voleva un giudice dal suo migliore amico?
Era… era
successo qualcosa per quanto riguardava la sentenza? Volevano riaprire
il caso?
Si
morse un labbro mentre pensieri sempre più foschi gli si
ammassavano in testa;
solo pochi minuti prima sprizzava gioia da tutti i pori, pronto a
finire il suo
racconto come gli aveva promesso, ma quella felicità pareva
evaporata al
momento.
Aveva
paura, paura che succedesse qualcosa di brutto al suo amico, che la sua
situazione
peggiorasse ulteriormente.
Era
così assorto nei propri pensieri da non accorgersi dei passi
pesanti che si
avvicinavano a lui, solo quando qualcuno, alto e magro come si poteva
evincere
dalla tetra ombra che proiettava, gli si fermò davanti
alzò il viso per
fissarlo.
Per
un istante lo guardò sotto shock, ma quando il suo cervello
riprese a lavorare
più o meno normalmente si chiese perché non ci
avesse pensato subito: non poteva
che essere lui, il giudice sempre più famoso a Sternbild e
curatore della Hero
TV.
Scattò
in piedi e si inchinò brevemente, tenendo lo sguardo
incollato sul pavimento.
<
Buongiorno…>
Gli
occhi di Yuri Petrov si assottigliarono quando riconobbero quel volto
così
spesso ignorato: Ivan Karelin, meglio conosciuto come Origami Cyclon.
Non
poteva dimenticare l’ultima volta che si erano visti, era
stato un faccia a
faccia alquanto interessante, anche se alla fine l’uomo non
era riuscito nel
suo intento di eliminare la feccia che tentava la fuga.
Ma
poco importava, dato che l’assassino era tornato in cella,
dove avrebbe
scontato fino all’ultimo giorno di pena.
Ivan
non sapeva, non poteva neanche immaginare, cosa stesse passando per la
mente
dell’altro, per quanto ne sapeva non si erano mai incontrati
in vita loro;
l’aveva riconosciuto per le interviste e le foto su giornali
e programmi
televisivi, il signor Petrov stava acquistando sempre più
fama.
<
Le chiedo scusa se L’ho fatta aspettare.>
La
voce bassa del giudice costrinse il biondo a portare lo sguardo su di
lui e
deglutì, l’imbarazzo e una sensazione spiacevole
si facevano strada in lui; da
quell’uomo che lo sovrastava, da quelle labbra sottili e da
quelle iridi di
ghiaccio dipendeva il destino di Edward e quel terribile pensiero gli
fece
venire la pelle d’oca.
<
Non si preoccupi, sono appena arrivato…>
mormorò senza sapere esattamente
dove fissare lo sguardo.
Se
si fosse concentrato sul viso del più grande avrebbe potuto
scorgere uno
stiramento di labbra che assomigliava terribilmente ad un sorriso; Yuri
Petrov
decise che valeva la pena seguire le formalità, giusto una
piccola presa in
giro visto che entrambi sapevano chi era l’altro e in una
particolare occasione
il giudice l’aveva quasi ucciso, anche se questo Ivan non
poteva saperlo.
Non
lo immaginava e pareva terribilmente impacciato in sua presenza, un
dettaglio
che non dispiaceva affatto a Lunatic. Ed effettivamente, quando gli
porse la
mano, poté vederlo sobbalzare, preso in contropiede.
Dopo
un attimo di esitazione il tocco di quella mano calda e sudata.
<
Yuri Petrov.>
<
I-ivan Karelin.>
Bé,
per essere la prima volta ufficiale poteva anche accontentarsi.
<
Le chiedo nuovamente scusa, signor Karelin. Non Le farò
perdere altro tempo, La
lascio alla sua visita. Buona giornata.>
Prima
che il giovane potesse replicare o aggiungere qualcosa con un cenno del
capo si
congedò.
<
Arrivederci…> borbottò Ivan in uno stato
di totale confusione mentale.
Non
aveva capito bene cos’era successo, ma la sensazione di
freddo che aveva
percepito quando aveva stretto quella mano era ancora su di lui.
La
guardia che era rimasta in disparte per tutto il tempo gli chiese
gentilmente
di seguirlo e il ragazzo gli andò dietro senza discutere;
tempo di arrivare
alla cella di Edward e la confusione aveva lasciato il posto ad un
febbrile
lavoro di congetture e ipotesi sul perché della visita di
quell’uomo al suo
amico.
<
Ivan?>
Il
rosso non cercò di nascondere il proprio stupore nel vederlo lì, di
certo non si
aspettava una sua visita così presto o almeno non in orario
normale; ma ciò che
lo preoccupò era l’aria stravolta che il ragazzo
aveva, assolutamente diversa
dal suo solito atteggiamento ansioso e discreto.
<
Cos’è successo?> domandò
prendendolo per le spalle – Ivan sobbalzò a quel
contatto – e facendolo accomodare sulla sedia.
<
Quell’uomo… il signor Petrov… che ci
faceva qui?>
La
faccia di Edward si scurì, ma non fece altro che sedersi sul
suo giaciglio e
attendere che l’eroe si tranquillizzasse un poco.
<
Il direttore ha inoltrato la richiesta di riduzione della pena per
buona
condotta. Petrov e la gentaglia del tribunale sono costretti a
riprendere in
mano il mio caso per decidere se è possibile farmi uscire
prima o se sarò
costretto a scontare la pena completa.>
<
Se ti facessero uscire per buona condotta…>
<
Da qui a sei mesi sarei fuori. Ma non credo sarà
possibile.>
<
Perché?>
<
Quel tipo non mi lascerà mai andare… è
risaputo che sia un osso duro, uno di
quelli che non concede nulla. Mi terrà qui per altri tre
fottutissimi anni.>
Tutta
la forza che aveva animato Ivan fino a quel momento scomparve nel
sentire
quell’ultima affermazione e un nuovo silenzio cadde su di
loro.
Nonostante
tutto Edward sorrise,
stiracchiandosi e facendo scricchiolare le ossa.
<
Allora… sbaglio o dovevi finire di raccontarmi
qualcosa?>
Era
buffo, se uno ci rifletteva attentamente, quanto il fato potesse essere
ironico.
Yuri
si portò il bicchiere di scotch alle labbra e
sorseggiò il liquido con calma,
assaporandolo mentre fissava il mondo dalla sua finestra, la stanza
completamente immersa nell’oscurità. Dal salotto
al di là della porta proveniva
la voce di Agnes, intenta a descrivere l’ultimo, splendido
intervento di
Barnaby Brooks per salvare due bambini che avevano rischiato la vita.
Almeno
in quei momenti avrebbe preferito non sapere nulla di eroi, imprese
impossibili
e cose simili, ma finché la televisione restava accesa sua
madre sarebbe
rimasta in silenzio a guardarla, senza chiedere del suo piccolo Yuri o
interloquire con un uomo che era morto da anni.
Non
poteva sopportare di vederla in quelle condizioni pietose, non poteva
sentire
quei discorsi senza senso e così dolorosi da riportare alla
mente avvenimenti,
tragedie del suo passato che avrebbe solo voluto rimuovere dalla
memoria.
Bevve
un altro bicchiere, svuotandolo più rapidamente del primo.
A
volte gli sembrava di essere di nuovo lì, in quella rimessa,
il corpo
carbonizzato di suo padre davanti a lui, sua madre che gridava fino a
perdere
la voce. A volte poteva sentire ancora l’odore della carne
arsa viva e le gambe
che cedevano facendolo crollare al suolo.
Aveva
solo voluto proteggerla. Aveva solo cercato di aiutare chi amava.
Proprio
come quel ragazzo.
Eccola
lì, l’ironia della sorte: quel giovane, Ivan, che
tentava di aiutare chi gli
stava più a cuore. Ma in questo momento il cattivo era stato
lui, Yuri.
C’era
voluta tutta la sua forza di volontà per mantenere Thanatos
puntato contro il
ragazzino che gli ricordava così tanto se stesso ed era
riuscito a non cedere
solo perché era profondamente convinto che quel che faceva
fosse veramente
giusto.
Suo
padre avrebbe approvato tutto. Il suo vero padre, non
quell’ubriacone violento
che picchiava la moglie, avrebbe approvato anche la sua stessa morte.
Era
stata fatta giustizia, in fin dei conti.
L’unica
cosa che importava.
In
ogni caso Yuri Petrov sperava davvero con tutto il cuore di non essere
nuovamente
costretto a puntare la sua arma contro Ivan Karelin: aveva
già abbastanza
incubi da affrontare senza doverne aggiungere altri alla lista.
Finalmente,
dopo quasi un mese di ricovero, Kotetsu Kaburagi uscì
dall’ospedale e, con
grande gioia dei suoi colleghi, poté tornare al lavoro.
Inutile dire che,
essendo un esibizionista di natura, cominciò subito ad
allenarsi il doppio per
dimostrare di essere in forma smagliante.
Bunny
era certo che, continuando con quel ritmo, presto o tardi avrebbe avuto
un
tracollo. In tutta onestà il ragazzo era convinto che
ciò sarebbe successo
quanto prima.
<
Dovresti cercare di darti una calmata.> borbottò
passandogli accanto e pregò
con tutte le sue forze di non essere parso troppo apprensivo.
<
Ah, tranquillo Bunny! Come puoi notare sono in ottima forma!>
Tipico
di quell’idiota. Una vocina maliziosa dentro la sua testa gli
chiese se davvero
ci si poteva fidare di un uomo che non sapeva neanche badare a se
stesso.
Scosse
la testa, irritato.
Lui
e Kotetsu non avevano più affrontato l’argomento e
Barnaby non aveva intenzione
di farlo a breve: aveva bisogno di tempo per riflettere e di tempo da
passare
assieme al suo compagno, per essere sicuro di prendere in esame la
realtà e non
qualche suo stupido pregiudizio.
Era
tempo di dare a Wild Tiger una vera possibilità di
dimostrare chi era e voleva
giudicare in maniera imparziale. Ne aveva bisogno se non voleva
pentirsi della
sua scelta.
Analizzando
la situazione con un po’ più di
lucidità, Ivan si chiese se non potesse fare
qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutare Edward. Era finito in prigione
per colpa
sua, non c’era istante in cui il ragazzo potesse dimenticare
com’erano andate
realmente le cose.
Ora
che c’era la
possibilità che fosse
rilasciato prima del tempo, ad Ivan sembrava più che logico
fare in modo che
questo accadesse sul serio: forse la sua parola poteva valere qualcosa,
una
raccomandazione ai piani alti poteva fare miracoli.
Fino
a poche settimane prima il timido e introverso Origami Cyclon non
avrebbe
neanche mai pensato che la sua parola potesse valere qualcosa, era solo
la
parola di un fallito, ma ora, ora era diverso.
Era
l’eroe, Santo Cielo, il salvatore di Sternbild che aveva
messo a repentaglio la
propria vita in un’importante quanto delicata missione da
infiltrato, non era
più la mezza tacca che appariva sullo sfondo di dirette e
cartelloni
pubblicitari.
Per
questo aveva deciso di fare la sua mossa, anche a costo di incontrare
nuovamente il giudice Petrov.
Ad
essere sincero era convintissimo che provare a convincere
quell’uomo fosse
un’assoluta perdita di tempo; di comprarlo non se ne parlava
nemmeno, era quasi
un insulto. Però forse, parlandoci un poco, poteva ottenere
qualcosa.
Così
aveva preso appuntamento tramite la sua segretaria, un incontro formale
che non
lasciasse dubbi sulla sua trasparenza e le sue buone intenzioni:
sentiva di
poter puntare unicamente sulla pietà, era certo di riuscire,
grazie alla sua
aria da bravo ragazzo, a suscitare una certa compassione nella gente.
In
quel caso specifico non avrebbe neanche dovuto sforzarsi di fingere,
era
davvero terribilmente preoccupato per Edward e un’espressione
pietosa gli
veniva naturale quando pensava alla sua situazione.
Dopo
essersi fatto coraggio e aver chiamato la segretaria Ivan si
preparò
psicologicamente a quel colloquio, fissato per la mattina seguente.
Il
tanto aspettato rientro di Wild Tiger lo aiutò a dimenticare
momentaneamente la
sua delicata missione, ma quando si trovò ad attendere nella
sala d’aspetto la
realtà gli si presentò davanti in tutta la sua
crudezza.
Non
era mai stato nell’ufficio del giudice, non era mai stato
così attivo da
distruggere luoghi e strutture pubblici o di altro tipo, al contrario
di
Kotetsu che a quanto pareva era dovuto passare per quella stanza fin
troppe
volte.
Quando
la segretaria si schiarì la gola per annunciargli che il
signor Petrov lo stava
aspettando, Ivan trasalì e saltò su in piedi come
se fosse stato punto da qualche insetto tremendamente perfido.
A
passi lenti, come un condannato si avvicina al patibolo, si
accostò alla porta
e bussò nervosamente: nonostante tutti i suoi buoni
propositi nei confronti di
Edward, si chiese se davvero servisse a qualcosa quel tentativo.
Quell’uomo
lo metteva in soggezione e l’impressione di stare per fare
qualcosa di ben poco
legale lo terrorizzava ancora di più.
Appena
quella voce profonda gli ingiunse di entrare mise piede nella stanza e
deglutì:
era tutto come si sarebbe aspettato di vedere in quei film in cui il
protagonista si avvicina inconsapevolmente al perfido cattivo che tenta
di
avvelenarlo con dell’arsenico nel bicchiere.
L’ambiente era in penombra, le
imposte lasciavano filtrare pochi raggi di sole che colpivano in pieno
una pila
di fogli ben ordinati sulla scrivania; tutto sembrava gridare ordine e
rigore,
dalla disposizione dello scarso mobilio ai libri sugli scaffali,
raggruppati
per tematiche e autore.
Anche
il materiale che si trovava sopra l’imponente scrivania era
sistemato in
maniera precisa, le penne l’una accanto all’altra
perfettamente parallele, i
documenti sui vari casi separati con meticolosità. Non un
errore, una macchia,
un foglio sgualcito, assolutamente nulla di umano.
Lo
stesso giudice, seduto dietro al tavolo, sembrava parte
dell’arredamento, una
statua di cera perfettamente ordinata in una stanza perfettamente
ordinata;
solo quella massa incredibile di capelli era fuori posto, assieme ad un
leggero
stiramento di labbra che Ivan classificò come sorriso.
<
Buongiorno, signor Karelin.>
Non
era esattamente un buon giorno, quello, ma il biondo evitò
di fare dello
spirito e si limitò a inchinarsi leggermente.
<
Buongiorno, signor Petrov.>
<
Prego, si sieda.>
Quella
terza persona dovuta alla pura formalità cominciava ad
innervosirlo, anche
perché usata da quell’uomo pareva essere una
velata allusione al fatto che Ivan
lì dentro contava ben poco, una sottile insinuazione che gli
ricordava chi
teneva le redini del gioco.
Una
finta cortesia decisamente logorante.
<
A cosa devo
Era
arrivato il momento di giocare la propria carta e, contrariamente a
quanto si
aspettava, recitò la sua parte in maniera impeccabile:
spiegò con semplicità
che Edward gli aveva accennato al riesame della sua causa, che lui
aveva
assistito al terribile incidente e della sua enorme preoccupazione per
l’amico.
Il giudice Petrov lo ascoltò attentamente senza battere
ciglio e se Ivan non
avesse notato che stava ancora respirando si sarebbe chiesto, in certi
momenti,
se l’uomo era ancora vivo o se era stato fulminato da una
morte improvvisa.
<
Insomma, volevo solo chiederLe se Lei crede che per Edward ci sia
qualche
speranza di usufruire della buona condotta. Analizzando la situazione
in
maniera oggettiva, cosa che io non sono in grado di fare.>
concluse Origami
abbassando lo sguardo sul tavolo, incapace di fissare gli occhi gelidi
del
giudice.
Yuri
fece un respiro profondo e Ivan si domandò seriamente se
fosse possibile morire
per la tensione.
<
Capisco
Era
una risposta che non prometteva nulla e Ivan si rese conto di quanto
stupido
fosse stato anche solo pensare di poter scucire qualcosa
all’incorruttibile
giudice di Sternbild: la professionalità di
quell’uomo era innegabile e lui si
ritrovava con niente in mano, solo tempo sprecato.
Si
alzò ricambiando finalmente lo sguardo di Yuri e si
inchinò leggermente.
<
La ringrazio, signor Petrov, e La prego di perdonarmi per averLe rubato
del
tempo prezioso.>
Per
un istante gli parve di scorgere negli occhi spenti dell’uomo
un lampo che di
certo non lo faceva sembrare scontento di aver perso tempo prezioso in
sua
compagnia; in effetti Ivan aveva la netta sensazione che il giudice
uscisse per
qualche bizzarra ragione sempre soddisfatto dai loro incontri.
La
mano che gli porse confermò in un certo senso la sua
impressione, così come
quello stiracchiamento di labbra che il ragazzo cominciava a
classificare come
“il sorriso standard del giudice Petrov”.
<
Non si preoccupi, è stato un piacere poterLa rincontrare.
Spero che accada
anche in futuro, per motivi più felici possibilmente.>
Se
Barnaby avesse dovuto descrivere Kotetsu con una sola espressione di
certo
avrebbe scelto “testardo come un mulo”; aveva
cercato di fargli capire in ogni
modo che era troppo presto per lui per tornare sulla scena, che nel
frattempo
poteva cavarsela anche senza il suo supporto, che era meglio che si
rimettesse
completamente se non voleva rischiare di tornare in ospedale, ma non
una
singola parola gli era rimasta nella testa, entrando piuttosto da un
orecchio e
uscendo dall’altro.
Per
di più il signor Maverick, con la sua solita discrezione,
premeva anch’egli
perché l’ormai famoso Wild Tiger tornasse in
azione, pronto a riproporre alle
migliaia di spettatori il duo più amato di sempre, i due
eroi che aveva
liberato Sternbild dalla minaccia di Jake Martinez.
Le
proteste del biondo vennero quindi ignorate e Kotetsu riprese la solita
routine, facendo però attenzione a non assegnargli missioni
troppo complicate o
pericolose: un paio di rapine in banca, qualche scippo, un serial
killer evaso
di prigione. Finché doveva affrontare esseri umani comuni e
non altri NEXT non
c’era alcun problema.
Peccato
che quello che sembrava un semplice rapinatore un po’
più scaltro degli altri
si era rivelato un bestione di tre metri per tre con il potere della
telecinesi.
C’erano
Bunny e Tiger a fronteggiarlo assieme a Fire Emblem, gli altri eroi
erano
impegnati a catturare gli altri complici che si erano sparpagliati per
ogni
dove.
<
Ma che razza di NEXT è questo?!> gridò
Kotetsu evitando per un pelo l’autobus
che gli veniva lanciato contro.
<
Ho un piano. Voi cercate di distrarlo, io provo a colpirlo di
petto.>
suggerì Bunny adocchiando il compagno con la coda
dell’occhio: aveva già il fiatone,
il che era davvero un brutto segno. Dovevano concludere quello scontro
in
fretta e Tiger doveva assolutamente restare in secondo piano, non era
pronto ad
un combattimento come ai vecchi tempi.
<
Conta pure su di noi, Handsome!> lo incoraggiò Fire
Emblem sfuggendo con
un’elegante piroetta all’estintore che
finì a sfracellarsi contro il muro
dietro al focoso eroe.
Il
biondo si tenne pronto ed attese il momento opportuno per scattare:
ogni
secondo sprecato era una possibilità in più che
il suo compagno fosse ferito.
Non era esattamente il pensiero più adatto in una situazione
in cui doveva
mantenere la calma e la concentrazione, ma non poteva farne a meno.
Poi
come a rallentatore vide l’uomo dare le spalle a Fire Emblem
e cominciare a
correre dritto dritto verso Wild Tiger, trascinandosi dietro due
automobili
parcheggiate nei dintorni; prima di poter anche solo riflettere il
giovane si
slanciò in avanti, la modalità Good Luck si
attivò automaticamente.
Quando
sentì un tonfo sordo e avvertì di aver colpito
qualcosa di decisamente duro
capì di aver preso in pieno il bersaglio.
L’elicottero
della Hero TV atterrò rapidamente vicino a loro, dando un
bel primo piano del
cattivo steso a terra e di Bunny che sorrideva alle telecamere come se
fosse
nato per farlo; per sua fortuna la troupe corse subito verso il luogo
dove gli
altri si stavano dando da fare con i complici di quel brutto ceffo.
Quando
il biondo si voltò a fissare il proprio compagno
impallidì: quel minimo di
pelle che si intravedeva dalla visiera alzata era verdognola e pareva
proprio
che l’uomo stesse per collassare da un momento
all’altro.
Prima
che potesse porre una delle tante domanda che lo assillavano Kotetsu
alzò una
mano.
<
Sto bene, tranquillo.>
Che
era una bugia bella e buona era evidente, ma Barnaby
immaginò che la presenza
di Fire Emblem lo trattenesse dal mostrare il suo dolore; inoltre
avevano
ancora le tute addosso e l’ultima cosa che Tiger voleva era
essere rispedito in
ospedale da un risentito Maverick,
<
Ne parliamo dopo.> commentò Bunny mentre la voce del
commentatore di Hero TV
annunciava che anche gli altri criminali erano stati catturati.
<
Domani è il grande
giorno.>
Edward
e Ivan si fissarono con aria trepidante: non sapevano se lasciarsi
andare all’ottimismo
e sprizzare gioia da tutti i pori o trattenersi in una più
cauta diffidenza per
il risultato del riesame.
<
Ci sarai al processo, vero?> domandò il rosso senza
preamboli; visita dopo
visita i due stavano lentamente tornando alla loro normale routine
relazionale,
Ivan aveva smesso di comportarsi come se l’altro potesse
alzarsi in ogni
momento e attentare alla sua vita ed Edward era decisamente
più naturale nel
chiedergli notizie delle sue imprese, della sua giornata e di tutte
quelle
piccole cose che facevano parte dell’essere un eroe.
In
certi momenti ad entrambi sembrava di essere tornati ai tempi
dell’accademia,
con le battute sarcastiche di Edward e i momenti esaltati di Ivan,
quando non
riusciva a trattenere la sua vena da otaku e partiva con citazioni o
lunghissimi discorsi sull’ultimo modellino uscito della sua
serie preferita.
Anche
ora, con l’ombra del riesame che incombeva, si sentivano a
loro agio nonostante
la delicata questione.
<
Certo che ci sarò. Sono con te, sappilo.>
Edward
si lasciò andare ad un ghigno amaro.
<
Mi chiedo cosa potrei fare una volta uscito di qui… Hai
qualche idea?>
Il
biondo rimase a bocca aperta per qualche secondo: no, non ne aveva
proprio
idea.
Insomma,
nella sua mente Ed era sempre stato l’eroe per eccellenza,
nato e cresciuto per
fare quello e solo quello; con il suo coraggio, il suo spirito
d’iniziativa,
l’audacia che aveva sempre dimostrato non poteva non trovare
posto tra gli eroi
di Sternbild.
Anche
dopo quella terribile tragedia Ivan aveva continuato a pensarla in quel
modo, pur
sapendo che ogni speranza per
il
suo amico era naufragata con quello sparo. Un accidentale macchia sul
suo
curriculum, sulla sua fedina penale, che gli avrebbe impedito per
sempre di
diventare uno di loro.
<
Ora che ci penso temo di non avere più neanche una
casa…> borbottò il rosso
sovrappensiero.
I
suoi genitori erano in Inghilterra, ma non aveva mai avuto un buon
rapporto con
loro e dopo quegli anni di carcere era fermamente convinto che non lo
avrebbero
accolto a braccia aperte; e poi il biglietto per l’aereo
costava e lui era
assolutamente al verde.
<
Bé, per quanto riguarda la casa puoi venire a stare da
me.>
<
Perché, ti fidi?>
Edward
aveva stampata in faccia un’espressione incredula, con quel
sopracciglio
inarcato come a dire che avrebbe creduto più facilmente ad
un elefante che vola
piuttosto che alla proposta così spontanea
dell’altro.
<
Certo. – ribatté Ivan, ma visto che
l’amico pareva ancora scettico proseguì
–
Dici che non dovrei?>
<
Bah, se non hai paura di portarti in casa un criminale che ha cercato
già una
volta di ucciderti…>
Non
era la prima volta che finivano sull’argomento in questione e
il biondo non si
scompose minimamente.
<
Dubito che riproverai a farlo, a meno che tu non voglia tornare in
prigione non
appena rilasciato.>
<
Ok, un punto per la tua logica di ferro. Resta ancora la domanda: cosa
diavolo
farò una volta uscito?>
Ivan
provò a riflettere su cosa avrebbe fatto lui se non fosse
diventato un eroe: il
disegnatore di manga non sembrava però un lavoro adatto a Ed
o a qualsiasi
persona normale che non fosse un fan sfegatato di tutto ciò
che aveva un
marchio “made in Japan”.
Continuarono
la conversazione fino a che la solita guardia si avvicinò
per avvisarli con
discrezione che il tempo era scaduto, proprio quando il biondo aveva
quasi
convinto l’amico che portare pizze d’asporto in
giro per Sternbild non era poi
così male.
Per
tutto il tragitto verso il deposito delle loro tute Kotetsu non aveva
fatto
altro che rispondere agli sguardi interrogativi di Bunny con un sorriso
e le
parole “tranquillo, sto benissimo, non
preoccuparti”. Peccato che una volta
liberatosi finalmente della tuta, che probabilmente era
l’unica cosa che, essendo
così rigida, lo teneva ancora in piedi, si fosse accasciato
a terra con un
lamento.
Il
biondo gli fu subito accanto e cercò di passargli un braccio
attorno alla
schiena per aiutarlo ad alzarsi.
<
Non azzardarti a dire che stai benissimo.> lo avvertì
vedendo che il
compagno e collega stava già aprendo la bocca per protestare.
Tiger
lo fissò per un istante prima di lasciarsi andare in un
sorrisetto sofferente.
<
Bé, forse benissimo non proprio, ma non sono messo
così male…>
Non
aveva ancora finito la frase che una fitta lo colpì
all’altezza dello sterno;
doveva essere colpa di quel dannatissimo bidone delle immondizie che
gli era
stato lanciato addosso all’inizio
dell’inseguimento, o almeno lo sperava: non
avrebbe sopportato un altro soggiorno prolungato in ospedale a causa di
quello
psicopatico di Jake Martinez. Non c’era neanche di che
rallegrarsi se si fosse
davvero trattato di quello stupido bidone, Barnaby non se
n’era neanche reso
conto, pareva un colpo così banale che anche uno come Wild
Tiger l’avrebbe
superato senza problemi.
Questo
era vero in condizioni normali, probabilmente, non dopo essere stato
massacrato
di botte da un terrorista completamente fuori di testa e con strane
idee sul
concetto di divertimento e spettacolo.
<
Ho solo bisogno di un po’ di riposo.>
borbottò Kotetsu e
per confermare le sue parole cercò di rimettersi in
piedi facendo forza solo sulle gambe, ma se non fosse stato per il
partner
sarebbe crollato ancora una volta a terra.
<
Devi farti vedere da un medico, altro che riposo.>
replicò seccato
sollevandolo di peso; odiava quanto poco quel vecchiaccio idiota si
prendesse
cura di se stesso e aveva tutte le intenzioni di trascinarlo in pronto
soccorso
a forza, se avesse opposto resistenza.
Una
mano gli strinse il braccio con una presa ferma e si voltò a
fissare negli
occhi il collega.
<
Che c’è adesso?>
<
Non voglio tornare in ospedale. Non servirebbe…>
<
Senti, vecchio…>
<
Parlo sul serio, Bunny-chan. Ho già passato troppo tempo in
quel dannatissimo
posto e se sono ridotto così dopo un’infima
scaramuccia come quella che abbiamo
appena affrontato significa che le cure sono servite a ben poco. Non ho
alcuna
intenzione di passare un altro mese a farmi imbottire di pillole e
restare
fermo a letto tutto il giorno.>
La
parte razionale del ragazzo, che in genere era quella che prevaleva su
tutto,
gli stava urlando di non fidarsi, quel vecchio pazzo non aveva idea di
cosa
stava facendo, avrebbe finito per farsi del male da solo, per
ammazzarsi senza
rendersene conto; ma stranamente il suo istinto gli diceva
tutt’altro e per la
prima volta non sapeva cosa scegliere di seguire.
<
Mi basta solo un po’ di riposo, davvero.> insistette
Tiger appoggiandosi
alla parete con la schiena per non crollare ancora e peggiorare la
propria
posizione.
Cinque
minuti dopo erano entrambi nella macchina di Barnaby, che stava
guidando
diretto verso casa sua e lanciava ogni tanto un’occhiata
preoccupata all’uomo
seduto accanto a lui.
Kotetsu
aveva debolmente provato a convincerlo a riportarlo a casa sua, dove
avrebbe
potuto stravaccarsi sul divano e guardarsi qualche vecchia
registrazione di Mr.
Legend assieme ad una buona bibita e qualche pacchetto di patatine, ma
l’opzione “lasciamo solo il povero degente che
potrebbe schiattare da un
momento all’altro senza qualcuno che lo aiuti” era
stata bocciata senza mezzi
termini appena formulata.
<
Ancora non ti fidi di me, vero?>
Se
doveva riconoscere lo stato emotivo del compagno dal suo tono avrebbe
avuto
qualche difficoltà: non c’era neanche una traccia
di rabbia in quelle parole,
né rancore o altro. Non sembrava seccato o stufo o lamentoso
o tutto quello che
in genere Tiger era quando si scontrava verbalmente con lui.
Ad
essere sincero quelle parole sembravano solo ed unicamente tristi;
Bunny
avrebbe preferito essere insultato piuttosto che sentire quel tono.
Si
voltò lentamente e inchiodò il compagno al sedile
con lo sguardo più duro che
gli venne.
<
Non dire idiozie, vecchio.>
<
Bé, non vedo perché allora tu non riesca a
credere che sono capace di badare a
me stesso.>
Eccolo
lì, il tono lamentoso del Wild Tiger di sempre.
Cercò
di ignorarlo e non rispose alla domanda mentre parcheggiava
l’auto e
raggiungeva l’altra porta per aiutare Kotetsu a scendere
prima che quell’uomo
gli rompesse la portiera nell’impaziente tentativo di
dimostrare che non aveva
bisogno di una balia.
Senza
prestare ascolto alle sue proteste Barnaby gli mise un braccio attorno
alla
vita per sicurezza e lo condusse verso l’ascensore che
portava ai suoi
appartamenti.
<
Allora? – sbuffò il più vecchio
fissando di sottecchi il ragazzo – C’è
un
motivo per cui non ti fidi affatto di me?>
Prima
che l’uomo potesse continuare il discorso in una lunga tirata
che comprendeva
tutte le cose buone che lui aveva fatto per il suo compagno, incluso
rischiare
la vita non una, ma ben due volte per Bunny ed i suoi ideali, il biondo
lo
fulminò con lo sguardo.
<
Solo perché non voglio che tu muoia mentre ti ingozzi come
un maiale steso su
un divano non vuol dire che io non mi fidi di te.>
Kotetsu
sbarrò gli occhi.
<
Dici sul serio?>
<
Mi pare ovvio. Altrimenti non ti avrei portato qui, idiota, ti avrei
trascinato
dritto dritto in ospedale senza sprecare un attimo di tempo.>
Tiger
pareva caduto dalle nuvole, non riusciva a credere alle sue orecchie;
il
tintinnio che annunciava che l’ascensore era finalmente
arrivato al piano
voluto lo riscosse per un momento dalle sue elucubrazioni mentali, ma
era così
assorto nei suoi pensieri da non accorgersi neanche che il biondo gli
stava
porgendo la mano come appiglio.
Bastò
un attimo, si sbilanciò un po’ troppo in avanti,
le gambe stremate cedettero
sotto il peso, chiuse gli occhi aspettando l’impatto e un
secondo dopo era sul
pavimento della sala, che stranamente non era così duro come
si sarebbe
immaginato.
Un
mugolio sotto di lui gli fece aprire gli occhi.
<
Ehi, vecchio… >
Che
il pavimento non fosse duro era un’ovvietà una
volta aperti gli occhi, perché
non era del pavimento che si trattava, ma di Barnaby Brooks Jr. che si
era per
sua sfortuna trovato lungo la traiettoria di caduta del suo
catastrofico e
alquanto pesante partner.
<
Ti dispiacerebbe alzarti?> proseguì il giovane
cercando inutilmente di
sgusciare da sotto il corpo del più vecchio. Pessima mossa.
Non
sapeva se era colpa della scarica elettrica che gli era passata lungo
la spina
dorsale al movimento improvviso di Bunny oppure se era rimasto
così privo di
forze vitali da non poter neanche tirarsi su puntellandosi con le mani,
ma il
punto era che, nonostante la richiesta del compagno, non
riuscì a muoversi
neanche di un millimetro.
Il
massimo che poté fare fu spostare un poco la testa per non
sbattere fronte a
fronte con il biondo.
Nel
sentire la barba di Kotetsu – quel dannato ed inutile
vecchiaccio – strusciarsi
contro la sua guancia, Barnaby si irrigidì: tutto questo non
era previsto, né
rotolare sul pavimento come due idioti né essere
così appiccicati né avere il
fiato del suo disastroso collega che gli soffiava
nell’orecchio.
Tentò
di spostare il corpo sopra di lui, ma aveva paura di ferirlo e
peggiorare le
sue condizioni, perciò non riuscì ad ottenere
nulla di quanto avrebbe voluto.
<
Scusa Bunny-chan, temo dovrai aspettare un poco… non riesco
proprio a muovermi.>
Il
biondo non sapeva se essere più irritato dalla cattiva
notizia o da
quell’orribile nomignolo che l’altro continuava ad
affibbiargli.
<
Il mio nome è Barnaby, vecchio!>
La
pressione contro il suo corpo si fece più accentuata, le
labbra di Tiger sfiorarono
il lobo dell’orecchio – accidentalmente, questo era
certo, quel vecchiardo
combina guai non sarebbe mai riuscito volontariamente a fargli venire i
brividi
come stava accadendo in quel momento.
<
Dì il mio nome.>
A
Barnaby mancò il fiato: ripagato con la stessa moneta, ma
dal suo punto di
vista era complicato, molto più complicato.
<
Non dovrebbe essere così difficile, l’hai
già fatto una volta.>
Quella
parola sembrava essersi congelata in gola e non voleva assolutamente
uscire,
ogni sforzo pareva inutile; Allora
fece l’unica cosa che gli pareva avesse senso in quel
frangente: tentare la
fuga.
Provò
a scrollarsi di dosso il collega, ma tutto ciò che ottenne
fu incastrare le
proprie gambe con le sue mentre il vecchio faceva di tutto per
mantenere la sua
posizione con le poche forze che gli restavano; più
cercavano di separarsi e
più i loro sforzi erano vani, trovandosi alla fine ad
agitare confusamente le
braccia senza alcun risultato.
Finché
per puro caso le labbra di Wild Tiger non si scontrarono con quelle del
compagno; per Barnaby fu come essere colpito da una scossa elettrica e
restò
lì, immobile, senza continuare ad attaccare, sconvolto.
Tiger
approfittò del momento di pausa per chiederglielo ancora una
volta.
E
mentre il nome di Kotetsu gli scivolava fuori dalle labbra, senza
rendersene
contro si sporse in avanti per cercare ancora quel contatto di prima,
deciso a
dare al signor Kaburagi una possibilità.
<
La seduta è sciolta.>
Quel
colpo di martelletto gli era parso uno sparo, lo stesso che era partito
dalla
pistola di quel malvivente e che aveva centrato in pieno una povera
donna
innocente. Come in quel grigio giorno sul marciapiede anche
là, nell’aula del
tribunale, il mondo aveva preso a girare, le facce si confondevano, i
colori
divenivano sfuocati e l’unica visione nitida era il volto
terrorizzato di
Edward, incredulo per quanto era successo, disperato perché
non poteva tornare
indietro.
Lo
vide alzarsi, cercare di mascherare la propria espressione ferita, ma
con
scarso successo: entrambi ci avevano davvero creduto che quella sera
non si
sarebbero visti dietro le sbarre, ma avrebbero potuto conversare come
ai vecchi
tempi seduti ad un ristorante di cucina orientale.
Ivan
sarebbe crollato da un momento all’altro a terra, come anni
prima, se qualcuno
non lo avesse afferrato per le spalle quando ormai l’aula si
era svuotata e nel
corridoio in cui si trovava giravano solo un paio di visitatori e
qualche impiegato.
Ma questa volta a sorreggerlo non era un vecchio gentile che aveva
assistito
all’orrenda scena senza poter fare nulla.
Questa
volta le mani che lo sostenevano erano le stesse che avevano fatto
battere il
martelletto pochi minuti prima.
Doveva
davvero essere sconvolto e fuori di sé, in uno stato di coma
ad occhi aperti,
perché si ritrovò seduto al tavolino di un bar
senza sapere come c’era
arrivato; chi l’avesse portato lì era invece
evidente, il giudice Yuri Petrov
era seduto davanti a lui, intento a mescolare il proprio
caffè.
<
Come ti senti?>
Meglio,
decisamente più cosciente di prima, ma appena riacquistata
la consapevolezza di
cosa era successo il biondo pregò di tornare a non capire
più niente per altri
dieci minuti.
<
Edward è…>
Non
riuscì a concludere la frase, ma alzò lo sguardo
per cercare conferma di quel
che intendeva nel volto dell’uomo. Era indecifrabile come
sempre, ma
nell’osservarlo Ivan notò un qualcosa che lo
faceva sembrare terribilmente
stanco, più del solito, e in qualche modo triste.
Non
per Ed, quello era difficile, ma per Ivan sì, per quello che
stava passando
adesso.
<
C’era ben poco che si potesse fare. La famiglia di quella
donna non ha ancora
dimenticato quant’è successo; credo che abbiano
capito che tutta la faccenda è
stata un terribile incidente, ma è difficile perdonare
quando ci sono due
bambini costretti a crescere senza una madre.>
Il
biondo ascoltava quelle parole, ma non le capiva appieno, la testa gli
girava
ancora; si aggrappò con le mani al bordo del tavolo, le dita
bianche per lo
sforzo.
<
Ti conviene bere, ti sentirai meglio.>
In
un attimo di lucidità si chiese da quando il giudice fosse
passato dal “lei” al
“tu”, ma in quel momento al ragazzo faceva piacere,
lo aiutava a non provare
rancore contro l’uomo che aveva appena condannato il suo
migliore amico ad
altri lunghi mesi di prigione.
<
Io… sarei dovuto finire anch’io… in
prigione. – la voce gli tremava come la
tazza di caffè stretta tra le dita, non osava ricambiare lo
sguardo di Yuri –
Sarei dovuto intervenire quel giorno… forse quella donna non
sarebbe morta.
Edward non sarebbe mai finito lì dentro.>
Petrov
lo guardò severamente e la sua voce risuonò ferma
alle orecchie del giovane.
<
Non devi sentirti in colpa per quanto è successo. Non eri
l’unico ad assistere
alla scena, c’erano almeno altre venti persone che avrebbero
potuto farsi
avanti.>
<
Edward l’aveva chiesto a me, aveva chiesto il mio
aiuto.>
Il
giudice allungò una mano e la appoggiò sopra
quella di Ivan, che sobbalzò
appena: era fredda, ma riuscì in maniera un po’
impacciata a calmarlo. Era
evidente che il signor Petrov non fosse abituato a confortare qualcuno
–
probabilmente la sua vita non era esattamente colma di rapporti sociali
e
uscite con gli amici – ma al biondo in quel momento bastava
davvero poco per
stare meglio.
<
Credo che tu non sappia che oltre ai poliziotti che tenevano sotto tiro
i
criminali sulla scena c’erano anche un paio di agenti in
borghese e altre
persone che per lavoro era molto più qualificate ad
intervenire di quanto non
foste tu e il tuo amico. Nonostante questo neanche loro hanno osato
muovere un
dito. Credo che debbano essere loro a provare dei sensi di colpa, non
un
ragazzino che all’epoca dei fatti aveva cominciato da poco
l’accademia. Né tu
né… Edward eravate abbastanza esperti per poter
gestire una situazione di quel
tipo.>
Per
quanto sensato quel discorso non fece sparire il rimorso che
attanagliava Ivan,
ma un’altra idea, totalmente diversa da quelle che gli
avevano attraversato la
mente negli ultimi minuti, apparve dal nulla.
Il
ragazzo finì in fretta il caffè e salutando il
giudice fece per alzarsi e
andarsene, ma non era riuscito a fare neanche un passo che la stessa
mano
gelida di prima gli bloccò il polso.
Voltandosi
di scatto Ivan si ritrovò a fissare gli occhi freddi di
Yuri, che in quel
momento avevano un qualcosa di sinistro, un avvertimento.
<
Ivan. Non fare niente di stupido.>
Non
rispose né ribatté, ma quando uscì dal
bar e lungo tutto il tragitto fino a
casa sua pareva che il gelo di quel tocco non svanisse dal suo polso e
che quello
sguardo così pericoloso fosse ancora fisso su di lui.
Dopo
tutte le visite compiute negli ultimi mesi era riuscito a elaborare
mentalmente
un piano; non che fosse molto particolareggiato, ma con ogni
probabilità
avrebbe funzionato senza intoppi.
Una
pastiglia di sonnifero nel caffè della guardia che lo
accompagnava sempre alla
cella (aveva preso il vizio di fermarsi alle macchinette che si
trovavano
subito dopo l’ingresso, un modo per sopravvivere a
quell’estenuante turno
notturno e infilare la pastiglia nella bevanda per Ivan era stato uno
scherzo),
poi subito a nascondere il corpo in un angolo prima di prendere
l’aspetto della
guardia stessa e infine imboccare il corridoio costellato di telecamere –
aveva studiato la loro posizione tutte le volte
che era passato per quel percorso, ce n’era solo una piazzata
all’ingresso (e
aveva fatto molta attenzione ad entrare passando per l’angolo
cieco) mentre le
altre erano tutte nel corridoio che portava alle celle. Aveva fatto
attenzione
anche a scegliere l’ora in cui il custode generalmente
entrava in ufficio a
sistemare le ultime scartoffie; non l’aveva visto nessuno se
non la guardia che
giaceva addormentata in un angolo. Se tutto fosse andato come sperava,
si
sarebbe svegliata che lui e Edward erano già ben lontani.
Si
sistemò l’uniforme e controllò di
essere perfettamente in ordine; sfiorò con
lentezza le chiavi attaccate alla cintura e
s’incamminò.
Trasformarsi
in un’altra persona, specie un totale estraneo come quella
guardia, era una
sensazione stranissima, ma nonostante ora fosse più alto di
diversi centimetri
e incredibilmente più magro riuscì a camminare
con naturalezza fino alla cella.
Sarebbe
riuscito ad ingannare tutte le telecamere, ma con Edward era un altro
discorso;
lo riconobbe subito, neanche fatti tre passi oltre la porta.
<
Ivan?>
Il
ragazzo, ancora trasformato nell’uomo, sbatté le
palpebre, preso in
contropiede.
<
Come hai fatto a capire che ero io?>
<
Le guardie non entrano mai in una cella da sole, genio. Devono essere
sempre in
due. Cosa ci fai qui?>
Riprese
le sue abituali sembianze; gli bastò una sola occhiata per
capire che, a
dispetto del tono alquanto naturale, il suo amico non aveva affatto
preso bene
la sentenza di quel giorno.
<
Sono qui per portarti fuori.>
Cercò
di prendergli la mano per fargli capire che diceva sul serio, ma il
rosso lo
evitò, guardandolo come se fosse improvvisamente ammattito.
<
Non dire idiozie.>
<
Sto dicendo sul serio.>
<
Sei impazzito? Pensi che non ci scoprirebbero nel giro di due
minuti?>
<
Posso riprendere le sembianze della guardia, posso farti uscire di qua.
Fidati,
ho studiato un piano.>
Non
era esattamente vero, ma poteva dire con sicurezza di averci provato e
di avere
una traccia sufficientemente
dettagliata da
seguire… anche se faceva buchi in diversi punti.
Fece
un altro passo avanti, sicuro di aver rassicurato a
sufficienza il suo amico, ma lo sguardo che Ed gli lanciò
gli fece cambiare
improvvisamente atteggiamento.
<
Si può sapere che c’è adesso?>
<
Ti rendi conto di quello che stai facendo?!>
<
Sto aiutando il mio migliore amico, dannazione! E ti conviene muoverti,
quella
guardia non potrà dormire in eterno.>
Edward
non si spostò di un centimetro.
<
Ivan…>
<
Che c’è?>
<
Smettila, non sei d’aiuto a nessuno.>
<
Ma..!>
<
Sei un eroe, l’hai dimenticato? Un eroe non dovrebbe
comportarsi in questa
maniera.>
Il
biondo stava valutando attentamente se era un’opzione
migliore prenderlo a
pugni o dargli le spalle e lasciarlo alla miseria di quella stupida
cella; fece
un respiro profondo nel tentativo di riprendere il controllo, anche se
una
vocina nella sua testa continuava a sussurrargli che Ed aveva
perfettamente
ragione.
<
E’ colpa mia se ti trovi qui dentro ed è giusto
che sia io a tirarti fuori.
Tutto questo non sarebbe successo se io non fossi stato un
codardo.>
<
E’ acqua passata ormai.>
<
Se lo fosse non avresti cercato di uccidermi!>
Fu
la volta del rosso di reprimere la propria frustrazione impedendosi di
strangolare l’amico dalla singolare testa dura; non era stato
facile
dimenticare quello che era successo, farsene una ragione, assolvere
l'amico e
se stesso per incolpare solo un fato dannatamente crudele, ma in
qualche modo
c'era riuscito. Le visite di Ivan lo avevano aiutato, tornare di nuovo
a parlare
con lui era stato... strano; si era convinto, dopo la sua improvvisa
fuga di
mesi prima, di aver chiuso con la sua vecchia vita, di poterci dare un
taglio
netto, preciso, indolore, ma quando si era ritrovato il biondo davanti,
bé...
non si era mai reso conto di quanto veramente gli era mancato.
E
certo l'offerta di una libertà immediata era allettante, se
gli fosse stata
offerta da chiunque
altro anche solo il
giorno prima del
suo tentativo di
vendetta, avrebbe colto l'occasione senza troppi problemi.
Ora
era diverso, tutto diverso.
<
Sei un eroe, Ivan. Non dovresti comportarti in questa maniera.>
Forse
l'avrebbe ferito, forse no, ma quel che contava in quel momento era
fargli
capire in che guaio si stesse cacciando.
<
Edward...>
<
Ascoltami bene: voglio che tu mi lasci qui. Uscirò da questo
posto alla luce
del sole, non certo ora e non certo compromettendo te. Sei un eroe,
devi
esserlo... non sai quanto darei per poter essere te. Visto che questo
non sarà
possibile, voglio che tu sia un eroe anche per me. E ora voglio che tu
mi
permetta di uscire da questa prigione da uomo libero. Avremo un'intera
vita
davanti, allora.>
Ivan
non si era reso conto di quanto il NEXT si fosse fatto più
vicino mentre
parlava, ma quando si sentì prendere le mani e il naso di Ed
sfiorò il proprio
arrossì improvvisamente: non solo aveva invaso completamente
il suo spazio
personale, ma non era mai stato così vicino da che il biondo
aveva memoria.
Abbassò lo sguardo cercando di non osservare in faccia il
carcerato, ma una
mano gli sollevò il mento con delicatezza.
Origami
Cyclon, l'eroe reso famoso dalla vicenda di Jake Martinez, il giovane
che stava
per buttare all'aria una carriera ormai consolidata preferendo far
evadere il
suo miglior amico, avrebbe voluto dire qualcosa in quel momento,
davvero. Ci
provò, ad essere sinceri, ma prima che dei suoni articolati
lasciassero le sue
labbra la bocca di qualcun altro le ricacciò indietro con
una certa prepotenza.
In
quel momento, quando sentì il respiro caldo di Edward su di
sé, le ultime
briciole residue di volontà di opporsi vennero spazzate via
in un soffio.
Quando il rosso si staccò da lui, dopo pochi secondi per
l'orologio, dopo
secoli per Ivan, al biondo tremavano le gambe.
<
E' meglio che tu vada.>
La
voce di Ed risuonava distante, ovattata, e il ragazzo con il volto in
fiamme
annuì e senza pensarci recuperò l'aspetto della
guardia e si allontanò di corsa
dalla cella. Mentre risvegliava la vera guardia e usciva dalla prigione
di
Sternbild le gambe continuavano a tremargli.
C'era
mancato poco.
Yuri
Petrov sospirò passandosi una mano sul volto, ancora sudato
a causa della
maschera che si era appena tolto: sarebbe bastato un passo falso, un
cenno del
signor Keddy e Lunatic avrebbe lasciato andare il suo fuoco, il colpo
già
caricato sulla balestra.
Per
fortuna Edward Keddy non era un idiota.
Per
fortuna Yuri Petrov non era stato costretto a uccidere Ivan Karelin,
perché in
quel caso avrebbe avuto solo un altro, tormentato spettro a ricordargli
le sue
colpe. Uno bastava, davvero.
Sorseggiò
il suo the con aria assorta, aveva ancora un nodo allo stomaco per
quanto aveva
visto, spiato con occhi indiscreti, attraverso le sbarre della finestra
della
cella, appostato sul tetto del fabbricato adiacente.
Cercò
di dimenticare l'immagine fin troppo nitida di quel viso arrossato, dei
ciuffi
biondi che coprivano disordinatamente quegli occhi smarriti... doveva
trattenersi, certe cose non poteva permettersele.
Tentò
con tutte le sue forze di convincersi di ciò, ma una parte
di lui, quella che
provava a reprimere costantemente, non poteva che agitarsi all'idea che
il
giorno dopo avrebbe potuto rivedere quel volto.
Ivan
non era più andato a trovare Edward dopo quella notte. Ogni
volta che il suo
corpo automaticamente si incamminava verso la prigione la sua mente si
risvegliava di soprassalto e lo costringeva a fermarsi prima che fosse
troppo
tardi.
Questo
accadde due, tre volte al massimo, poi il suo corpo ebbe la meglio.
Non
era andata poi così male, il biondo non faceva che
ripeterselo: Edward era
sempre Edward e per quel che era successo quella notte... avrebbe avuto
modo di
rifletterci, col tempo. Intanto né lui né il
rosso avevano più accennato alla
faccenda.
D'altro
canto il ritmo sostenuto di lavoro gli permetteva di non lasciarsi
andare in
lunghi e complicati trip mentali, non troppo almeno.
<
Bunny-chan, muoviti!>
Wild
Tiger superò Origami con un balzo continuando ad incitare il
suo molto più
prudente compagno: di certo quell'uomo aveva fiato da vendere.
<
Ti conviene non stancarti troppo, Kotetsu-san. Potresti non arrivare a
fine
missione.>
Tiger
non si rese conto di quanto accadeva alle sue spalle, ma Ivan
poté osservare
perfettamente la reazione degli altri, Rock Bison che per poco non
inciampava
in avanti, Blue Rose che li fissava a bocca aperta, Sky High e Dragon
Kid si
bloccavano sul posto come se fossero certi di non aver sentito bene
mentre Fire
Emblem si portava le mani alla bocca e con gli occhi sgranati strillava
"da quando tutta questa confidenza tra voi due?!".
Ma
Wild Tiger e Barnaby Brooks, quand'erano impegnati nel loro lavoro,
sapevano
diventare stranamente sordi.
Ivan
avrebbe comunque giurato che il più giovane dei due, in quel
preciso istante, stesse
sorridendo.