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Autore: Nezu    01/05/2012    1 recensioni
[Tiger/Bunny e Edward/Origami, accenni Lunatic/Origami] Tiger si sta finalmente riprendendo dallo scontro con Jake, ma la riabilitazione è lunga e travagliata e Bunny non sa bene come rapportarsi con lui ora che sente di aver vendicato i propri genitori e di potersi finalmente fidare del compagno. Nel frattempo Ivan va regolarmente a far visita ad Edward in prigione, ma la possibilità di far uscire prima del previsto l'amico lo porterà a trattare direttamente con il giudice Yuri Petrov.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Barnaby Brooks Jr., Lunatic, Origami Cyclone, Wild Tiger
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Avvertimenti: shonen-ai, spoiler (ep. 16), missing moments
Note: Questa storia ha preso parte all'edizione 2011 del Big Bang Italia.
Gifter: [info]waferkya
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If I were you

 

“Come stai?”

Nonostante la smorfia di dolore, gli occhi dell’eroe brillavano pieni di calore.

“Benissimo, non preoccuparti.”

Bunny sbuffò distogliendo lo sguardo.

“Non mi sto preoccupando” borbottò seccato ficcandosi le mani in tasca, ma dal sorriso di Tiger il ragazzo capì di non essere stato abbastanza convincente.

“Che c’è?” domandò irritato nel sentire quello sguardo così riconoscente e – possibile? – affettuoso dell’altro su di sé.

“Niente.”

Kotetsu si sfiorò il fianco mentre osservava il suo compagno uscire dalla stanza con un breve saluto e non poté impedire ad un sorriso ancor più ampio di illuminargli il viso.

Era semplicemente contento che Bunny-chan dimostrasse un minimo di affetto e preoccupazione nei suoi confronti.

Ora che Jake era morto il ragazzo avrebbe potuto gettare alle spalle il proprio passato, ricominciare da capo; certo, ce n’era voluto di tempo per tutto questo: gli scontri, l’umiliazione, tutto fino all’inganno a fin di bene, la sua ultima risorsa.

L’aveva fatto per il suo compagno, solo per lui.

E, nonostante il dolore, era convinto che ne fosse valsa la pena.

 

Gli ospedali non gli erano mai piaciuti.

Quella era stata la prima scusa che gli era venuta in mente per non dover andare a visitare il suo impulsivo e catastrofico compagno di squadra.

Una piccola emorragia poi non doveva essere nulla di grave, era stato ricoverato solo per precauzione, nulla di più.

In fin dei conti gli aveva parlato solo il giorno prima e, pur bendato e un po’ sofferente, di certo non gli era sembrato troppo malridotto e sicuramente non in fin di vita.

Barnaby continuò a ripetersi il suo impeccabile ragionamento a mente, sempre più deciso a non entrare in quel dannato ospedale, anche quando Blue Rose si parò di fronte a lui, la quintessenza della rabbia.

Non l’aveva mai vista con uno sguardo così furioso, poteva addirittura distinguere la vena che pulsava pericolosamente sulla tempia mentre lei lo squadrava, le mani sui fianchi.

< Si può sapere che ci fai qui?!>

Il nuovo salvatore ed idolo di tutta la città sollevò un sopracciglio con aria interrogativa, per niente certo di aver compreso appieno la domanda.

< Come, scusa?>

La ragazza gli puntò un dito al petto, più arrabbiata ogni secondo che passava.

< Dovresti essere da lui, non ad allenarti, maledizione! Se non lo aiuti ora quando pensi di farlo?!>

Bunny sospirò seccato e passò oltre, cercando di ignorarla; un urlo indignato dietro di lui gli fece intendere che non sarebbe stato così facile far finta di niente.

< Perché diamine..?!>

< Il vecchio non ha bisogno del mio aiuto: è in una struttura specializzata, con i migliori medici di tutta Sternbild ad assisterlo. La mia presenza sarebbe solo un elemento di disturbo per chi lavora per la sua salute.> replicò con tono piatto anticipando e stroncando la domanda.

Il silenzio alle sue spalle lo tranquillizzò un poco e stava già per avvicinarsi ad una delle macchine della palestra quando qualcosa lo colpì con forza alla nuca: era l’asciugamano di Blue Rose.

Si voltò, stupendosi di trovare la ragazza prossima ad una crisi di pianto, le lacrime che già cominciavano a scivolare rapide lungo le guance.

< Sei davvero un idiota!> strillò con tutta la forza che aveva e girò sui tacchi, uscì dalla stanza sbattendo la porta. A Barnaby non restò che appoggiare l’asciugamano su un ripiano e tornare al proprio allenamento, chiedendosi che diamine fosse preso a quella ragazzina.

 

Due giorni dopo le condizioni di Kotetsu non era affatto migliorate, anzi. I medici non riuscivano a spiegarsi cosa stava succedendo, anche se supponevano che fosse a causa dell’eccessivo sforzo a cui si era sottoposto Wild Tiger per raggiungere Bunny sebbene fosse uscito gravemente ferito dallo scontro con Jake.

Nonostante ciò il suo partner era ancora restio ad andare a trovarlo: non che gli costasse così tanto fare pochi chilometri o trovare dieci minuti per fargli visita, ma qualcosa dentro di lui glielo impediva.

Dopo la battaglia si era sentito sollevato, non era mai stato così bene come in quel momento e le parole erano uscite spontanee, senza freni: il nome di quell’uomo, la fiducia che riponeva in lui…

Ma già poche ore dopo la situazione sembrava impossibile da gestire con così tanta facilità: era davvero tutto finito? Poteva ritenere l’assassinio dei suoi genitori vendicato, la lotta contro Ouroboros terminata, la sua vita restituita?
Si era aspettato che qualcosa cambiasse, che non fosse tutto dentro la sua testa, ma che qualche ripercussione della sua vittoria ci fosse anche nel mondo esterno, in Sternbild.

Invece tutto era come prima, non era cambiato assolutamente niente.

E poi, quello che aveva detto a Tiger… si era fatto trascinare dall’impeto della vittoria, non poteva essere altrimenti: come poteva fidarsi di un uomo inaffidabile e catastrofico come quello?

Certo, l’aveva aiutato, aveva rischiato la sua stessa vita per aiutarlo in ogni modo, ma non poteva dimenticare le bugie, i comportamenti strani, i disastri che combinava sette giorni su sette. E Bunny temeva che rivedendolo sarebbe potuto succedere qualcosa; cosa non lo sapeva neanche lui.

Sarebbe potuto tornare al punto di partenza, rimangiarsi le parole e diffidare del suo compagno. Oppure avrebbe potuto aprirsi a lui, cancellare un passato di screzi e ricominciare come una squadra vera e propria.

Aveva paura di scoprire cosa sarebbe accaduto.

Nel frattempo Blue Rose aveva iniziato a evitarlo, a non rivolgergli più la parola, addirittura a cambiare stanza quando lo vedeva. Quel che era peggio era che non era più la sola a biasimarlo per il suo comportamento: Rock Bison non l’aveva presa affatto bene e anche Dragon Kid e Fire Emblem sembravano avere delle riserve.

Erano felici che lui avesse risolto il caso dei suoi genitori, ma Kotetsu aveva rischiato la vita e l’ingratitudine che stava dimostrando non era affatto apprezzata dagli altri eroi.

Doveva essere un complotto, rifletté il ragazzo, una sorta di pressing psicologico per costringerlo ad andare a trovare il suo compagno, ma lui non aveva alcuna intenzione di stare al loro gioco.

Almeno, questo era quello che credeva.

Il giorno seguente Kotetsu stava peggio che mai e finalmente Barnaby decise di smetterla con il suo comportamento irresponsabile e trovò il tempo e il coraggio di salire in macchina e guidare fino a quell’odiato ospedale.

Fece le scale a fatica, una repulsione quasi fisica lo spingeva a tornare sui suoi passi con grande rapidità, ma si trattenne ed entrò con uno sbuffo in corsia: il fatto che medici, infermiere e tutto il personale lo salutassero con una tale allegria, come se lo stessero aspettando da tempo, non fece che peggiorare il suo malumore.

Sembrava che tutti si fossero aspettati una sua visita al collega e questo, per qualche assurdo ed illogico motivo, lo mandava in bestia.

Quando però entrò nella stanza dov’era ricoverato Tiger ogni suo funesto pensiero fu spazzato via: non aveva mai visto l’uomo così pallido e malridotto, gli occhi chiusi e i pugni serrati mentre si mordeva con forza il labbro inferiore.

< Vecchio?> balbettò con aria sconvolta, ma subito dopo recuperò il suo contegno e si diede dell’idiota per aver lasciato che l’emozione lo trasportasse troppo.

< Ah, Bunny… Come mai qui?>

Il giovane represse il desiderio di picchiarlo solo perché era già messo molto male e non voleva certo accollarsi la responsabilità della morte del suo poco gradito partner.

< Basta vederti per capire perché sono qui, idiota.> sbottò scocciato e si avvicinò a grandi passi al letto.

Era giunto in quel luogo con l’intenzione di scaricare i nervi con una bella sfuriata, magari qualche insulto o cose così, ma più si avvicinava a Kotetsu e più la sua rabbia svaniva.

Si guardarono per una manciata di secondi, Tiger aveva quella sua aria perplessa di quando una situazione gli sfuggiva di mano e lui finiva per non capire più niente.

< Bé?> chiese sconcertato dall’atteggiamento lunatico di Bunny.

< Come ti senti?>

< Un po’ uno straccio, ma grazie. Mi riprenderò in fretta.>

Barnaby annuì meccanicamente e rimase lì in piedi, senza sapere cos’altro dire; l’altro fu così gentile da iniziare un discorso qualunque, giusto per riempire il vuoto che stava per crearsi, chiedendo come stavano gli altri e com’erano gli ultimi casi che avevano affrontato.

Dopo quasi mezz’ora di visita, un tempo record considerato come si sentiva il giovane quand’era entrato in ospedale, il visitatore fece per andarsene, ma la voce di Kotetsu lo fermò.

< Quella volta, dopo la battaglia con Jake… mi hai chiamato per nome. Ora invece no.>

Bunny gelò sul posto: era quello che avrebbe voluto evitare, ma le parole, ancora una volta, gli sfuggirono dalle labbra.

< Scusa.>

Se non gli avesse dato le spalle avrebbe visto il collega sbarrare gli occhi e agitare confusamente le mani davanti al viso come per rimangiarsi quel che aveva detto.

< Ehi, ehi, tranquillo, non c’è nulla di cui scusarsi!>

Un sorriso sincero si dipinse sulle labbra del ragazzo mentre si voltava per dare un’ultima occhiata a Kotetsu.

< Rimettiti presto.>

< C-certo, sarò in piena forma! Non preoccuparti, Bunny-chan!>

Non appena la porta si chiuse dietro al suo compagno, si passò una mano tra i capelli: che diamine stava succedendo a quello lì?

 

Ivan non era mai sicuro di quel che faceva, neanche quando eseguiva semplicemente gli ordini o imitava i suoi colleghi durante conferenze, interviste e altri eventi mondani; aveva come la sensazione di commettere qualcosa di sbagliato, di essere lui stesso sbagliato.

Non aveva la stoffa per fare l’eroe, l’aveva sempre saputo: uno che sobbalzava al minimo rumore anche in pieno giorno o cercava di nascondersi il più possibile per non essere notato non poteva essere il salvatore della popolazione di Sternbild City, era solo uno scherzo di cattivo gusto.

Un eroe doveva essere spavaldo, disponibile, il sorriso stampato sulle labbra e lo sguardo di un uomo forte, sicuro di sé, affidabile, come Sky High o Barnaby, tanto per fare degli esempi.

O come Edward, tanto per rigirare il coltello nella piaga.

Deglutì istintivamente e si lanciò occhiate furtive alle spalle; se si sentiva insicuro di sé alla luce del sole, di certo le buie e tenebrose stradine secondarie di quella città non lo aiutavano a rilassarsi.

Aveva il terrore di essere seguito, che qualcuno vedesse, che qualcuno scoprisse.

Non tanto che continuava a coltivare amicizie “pericolose per la sua immagine”, come aveva messo in evidenza il suo capo, ma che avesse segreti da nascondere, rimorsi che non potevano essere condivisi e risolti con gli altri: erano la sua punizione, la pena da scontare per la sua colpa e – lui ne era profondamente convinto – se lo meritava sotto ogni punto di vista.

Sospirò, immerso nei suoi pensieri, nei ricordi che avrebbe volentieri dimenticato e quando il marciapiede sotto di lui finì realizzò di essere arrivato.

Alla luce della luna la prigione era ancora più spettrale, buia come la notte ad eccezione di qualche finestra illuminata al pian terreno, dove i custodi svolgevano il loro lavoro; per il resto le alte mura grigio cenere si stagliavano contro il cielo come i bastioni di una fortezza inespugnabile.

Un luogo senza vie d’uscita.

E lui era lì per colpa sua, solo ed unicamente sua.

In compagnia di una nuova ondata di malessere e sensi di colpa Ivan avanzò lentamente, i passi echeggiavano sul cemento e le gambe gli parevano fatte di piombo per quanto difficile era avanzare.

Ogni volta che incontrava il suo sguardo ricordava.

Ogni volta che incontrava il suo sguardo si odiava.

E non poteva non ripetersi che, ancora una volta, era tutta colpa sua.

Il custode gli sorrise all’entrata, ormai lo conosceva bene; veniva lì almeno una volta a settimana e sempre negli orari più disparati. Inizialmente il direttore aveva avuto qualcosa da ridire, l’orario delle visite era rigido e seguito al minuto per questioni indiscutibili di sicurezza, ma con un impiego ad orari flessibili come quello dell’eroe, Ivan non riusciva materialmente a rispettare quelle regole.

Così il suo capo, nonostante disapprovasse quelle escursioni sempre più frequenti, era riuscito a procurargli un permesso speciale per visitare il suo amico; in fin dei conti non era ritenuto in criminale troppo pericoloso, bastava una  guardia apposita per sorvegliarlo, rinforzi speciali e cose simili non erano necessari.

Scambiò due parole con l’uomo, che chiamò una guardia perché lo scortasse alla cella; in un minuto l’agente, uno sulla trentina, dalle guance scavate e gli occhi nascosti sotto la visiera del cappello della divisa, li raggiunse in fretta e lo accompagnò per quel dedalo di corridoi a cui il biondo si stava ormai abituando.

Da quanto tempo andava avanti? Tre mesi? Forse di più, non ricordava la data della sua prima visita, ricordava però come questa era passata, loro due seduti ai lati di un tavolo di ferro, fermi a guardarsi senza praticamente pronunciare una parola.

Lo sguardo di Edward quel giorno lo aveva devastato: non riusciva a reggerlo, sentiva il bisogno fisico di nascondersi, ficcare la testa sotto la sabbia, pretendere di non essere in quel luogo, in quel momento.

Aveva cercato con disperazione via via crescente di fissare la propria attenzione di qualche particolare della cella, ogni pretesto andava bene, ma quell’ambiente era talmente spoglio, talmente vuoto e impersonale che il ragazzo aveva finito per ammirare i lacci delle proprie scarpe per venti minuti.

Non sapeva dove aveva trovato la forza di tornare la settimana seguente, ma l’aveva fatto comunque.

Le cose erano andate migliorando, qualche mezza parola era stata borbottata, qualche sguardo di più scambiato tra i due.

Adesso, pensava Ivan con una punta di orgoglio, erano quasi in grado di sostenere una conversazione sufficientemente fluente per tutto il tempo della visita; in fondo al cuore sperava che, prima o poi, il loro rapporto si sarebbe ricucito, le cose sarebbero tornate come un tempo.

Ma nel profondo sapeva – sentiva – che tutto questo era impossibile.

< Siamo arrivati.> disse la sua guida. Ivan se ne era già reso conto, ma fu grato all’uomo per aver spezzato il silenzio e la tensione: ne aveva davvero bisogno.

Oltre a quelle pareti – tutte regolarmente di un materiale speciale, fatto apposta per i Next – e a quella porta cigolante c’era Edward, seduto su quello che sarebbe dovuto essere il suo materasso, se così si poteva definire, le gambe strette al petto, il mento appoggiato sulle braccia incrociate.

Il suo sguardo trafisse il biondo, che esitò un attimo prima di fare un passo avanti nella cella.

< Avete venti minuti.> ricordò la guardia allontanandosi di qualche metro per lasciare ai ragazzi la loro privacy, abbastanza lontano da non origliare le loro conversazioni, sufficientemente vicino per intervenire in caso di bisogno.

< Ciao.>

Il sussurro che lasciò le labbra di Ivan probabilmente non arrivò neanche alle orecchie dell’altro da quanto era debole, ma il giovane si accontentò di leggerne il labiale.

< Non credevo saresti venuto.>

Il visitatore prese posto sulla solita sedia di plastica, un po’ più vicino a Edward ad ogni sua visita.

< Perché?>

Lo sguardo di Edward era una tortura, ma cercò di non mostrare il proprio disagio.

< Lo scontro con Jake Martinez. Ho sentito che ve le ha suonate.>

< Ah, sì, quello…>

Calò un silenzio imbarazzato per un paio di minuti, fino a che il rosso non si decise a spezzarlo.

< Non sei ferito?>

Ivan sobbalzò: era preoccupato per lui? O era solo una domanda di circostanza, per non passare anche quella visita a fissarsi le scarpe e evitare sguardi?

< Sì, ho ancora le bende addosso… Sono dovuto restare in ospedale per parecchi giorni, è il motivo per cui la scorsa settimana non sono venuto.> mormorò come spiegazione, muovendosi sulla sedia alla ricerca di una posizione comoda, ma pareva un’utopia.

La pausa di silenzio che scese su di loro fu più breve della precedente e decisamente più rilassata: era come se entrambi fossero immersi nei loro pensieri, riflettendo con cura su cosa dire dopo. I minuti erano contati e, almeno per Ivan, era un delitto sprecarli.

< Ho sentito che hai avuto una parte importante nell’operazione.>

Questa volta fu il rosso a mormorare e l’altro dovette tendere le orecchie per comprendere la frase.

< In un primo momento. Era l’unico modo per rendermi utile.>

< Racconta.>

Non era un ordine o un semplice tentativo di non restare muti l’uno davanti all’altro, era una richiesta quasi implorante, nonostante il tono non lo desse a vedere. Era un tentativo di tornare a sognare il mondo degli eroi, quello a cui Ed avrebbe dovuto appartenere.

E al contempo di rivedersi, per una volta, al fianco dell’amico, a condividerne i pensieri, le sensazioni, le paure, le ansie, i successi. Anche lui sapeva che indietro non si poteva tornare, che il passato sarebbe rimasto là fermo, una presenza inquietante e inamovibile a ricordo di ciò che era successo e non si poteva cambiare.

Ma la tentazione di rivivere quello che era stato prima era troppo forte per entrambi e Ivan cominciò a raccontare come non faceva da anni, le parole uscivano spontaneamente mentre metteva al corrente il suo compagno di come si era infiltrato, di come gli tremavano le mani, del groppo alla gola mentre Jake gli parlava, del terrore quando aveva scoperto che l’altro aveva capito che era tutta una montatura.

Quando la guardia si affacciò alla porta per annunciare quasi timidamente che il tempo era scaduto, Ivan stava ancora parlando.

Si arrestò disorientato, come se non si fosse reso conto di quanto aveva detto e di quanto aveva ancora da dire.

< Va pure. – gli disse Edward stirando le labbra in un mezzo sorriso stentato – Finirai di raccontarmi la prossima volta.>

Il biondo annuì e con un saluto a mezza voce uscì seguendo l’agente.

Solo quando il portone di ingresso si chiuse alle sue spalle e si trovò a respirare l’aria frizzante della notte, davanti a sé l’intera Sternbild che brillava di luce, solo allora si rese conto che per la prima volta Edward gli aveva chiesto, in maniera traversa, di tornare.

 

Il lunedì della settimana seguente vide Ivan indaffarato fin dalle prime ore del mattino per smaltire tutto il lavoro che gli era stato affidato; il suo manager e la troupe di Hero TV non l’avevano mai visto così impegnato, così dedito alla causa come quel giorno.

< Va tutto bene, Ivan?>

Il ragazzo sorrise al suo capo mentre era intento a firmare una serie di album di figurine che sarebbero stati messi sul mercato tre giorni dopo. L’uomo si stupì di tutto questo, Origami Cyclon era il meno entusiasta nel compiere quel genere di attività per i fans (per via di tutte quelle scemenze sul fatto che in realtà lui non piaceva a nessuno e l’unico motivo per cui restava nella lista degli eroi di Sternbild era perché era bravo a far pubblicità).

Forse l’unico meno felice di lui nel svolgere quel lavoro era Wild Tiger, sempre pronto a lamentarsi di tutte le scartoffie che doveva firmare, ma in quel momento l’uomo era ancora ricoverato, anche se le sue condizioni sembravano migliorare.

< Dimmi, Ivan.> cominciò e si interruppe finché gli occhi del giovane non si sollevarono per fissarlo in viso. < Questo tuo… particolare impegno è dovuto alle tue visite settimanali?>

Non serviva essere degli esperti conoscitori dell’animo umano per interpretare correttamente il sorriso che illuminò il volto del biondo, gli occhi che brillavano.

< Oh, capisco. Bé, in questo caso spero che tu possa continuare quelle tue escursioni ancora a lungo.>

Come ricompensa per il suo duro lavoro Ivan si ritrovò con il pomeriggio completamente libero e prima di avere il tempo di organizzare attentamente quel che restava della giornata correva sul marciapiede che portava all’istituto circondario di Sternbild.

Il custode fu alquanto sorpreso di vederlo in quell’orario così “ordinario”, ma gli aprì ben volentieri la porta.

< Sarebbe bene che aspettaste qui, il signor Keddy ha già un visitatore al momento. Non appena il suo tempo scadrà vi farò accompagnare da una guardia.>

Ivan rimase a bocca aperta, allibito.

< Una visita? Di chi?>

< Un giudice famoso, ma mi sfugge il nome al momento. Viene qui spesso, comunque.>

< E ha già fatto visita ad Edward in passato?>

< Non che io ricordi. Credo che quand’è successo il fattaccio non fosse ancora nel giro… sapete, è molto giovane, davvero.>

Origami Cyclon si sedette su una di quelle terribile sedie in plastica che pareva dovessero rompersi da un momento all’altro e attese: non era mai stato così nervoso, tralasciando le classiche crisi che l’avevano assalito le prime volte che era andato a trovarlo.

Chi era quel visitatore? Cosa voleva un giudice dal suo migliore amico? Era… era successo qualcosa per quanto riguardava la sentenza? Volevano riaprire il caso?

Si morse un labbro mentre pensieri sempre più foschi gli si ammassavano in testa; solo pochi minuti prima sprizzava gioia da tutti i pori, pronto a finire il suo racconto come gli aveva promesso, ma quella felicità pareva evaporata al momento.

Aveva paura, paura che succedesse qualcosa di brutto al suo amico, che la sua situazione peggiorasse ulteriormente.

Era così assorto nei propri pensieri da non accorgersi dei passi pesanti che si avvicinavano a lui, solo quando qualcuno, alto e magro come si poteva evincere dalla tetra ombra che proiettava, gli si fermò davanti alzò il viso per fissarlo.

Per un istante lo guardò sotto shock, ma quando il suo cervello riprese a lavorare più o meno normalmente si chiese perché non ci avesse pensato subito: non poteva che essere lui, il giudice sempre più famoso a Sternbild e curatore della Hero TV.

Scattò in piedi e si inchinò brevemente, tenendo lo sguardo incollato sul pavimento.

< Buongiorno…>

Gli occhi di Yuri Petrov si assottigliarono quando riconobbero quel volto così spesso ignorato: Ivan Karelin, meglio conosciuto come Origami Cyclon. Non poteva dimenticare l’ultima volta che si erano visti, era stato un faccia a faccia alquanto interessante, anche se alla fine l’uomo non era riuscito nel suo intento di eliminare la feccia che tentava la fuga.

Ma poco importava, dato che l’assassino era tornato in cella, dove avrebbe scontato fino all’ultimo giorno di pena.

Ivan non sapeva, non poteva neanche immaginare, cosa stesse passando per la mente dell’altro, per quanto ne sapeva non si erano mai incontrati in vita loro; l’aveva riconosciuto per le interviste e le foto su giornali e programmi televisivi, il signor Petrov stava acquistando sempre più fama.

< Le chiedo scusa se L’ho fatta aspettare.>

La voce bassa del giudice costrinse il biondo a portare lo sguardo su di lui e deglutì, l’imbarazzo e una sensazione spiacevole si facevano strada in lui; da quell’uomo che lo sovrastava, da quelle labbra sottili e da quelle iridi di ghiaccio dipendeva il destino di Edward e quel terribile pensiero gli fece venire la pelle d’oca.

< Non si preoccupi, sono appena arrivato…> mormorò senza sapere esattamente dove fissare lo sguardo.

Se si fosse concentrato sul viso del più grande avrebbe potuto scorgere uno stiramento di labbra che assomigliava terribilmente ad un sorriso; Yuri Petrov decise che valeva la pena seguire le formalità, giusto una piccola presa in giro visto che entrambi sapevano chi era l’altro e in una particolare occasione il giudice l’aveva quasi ucciso, anche se questo Ivan non poteva saperlo.

Non lo immaginava e pareva terribilmente impacciato in sua presenza, un dettaglio che non dispiaceva affatto a Lunatic. Ed effettivamente, quando gli porse la mano, poté vederlo sobbalzare, preso in contropiede.

Dopo un attimo di esitazione il tocco di quella mano calda e sudata.

< Yuri Petrov.>

< I-ivan Karelin.>

Bé, per essere la prima volta ufficiale poteva anche accontentarsi.

< Le chiedo nuovamente scusa, signor Karelin. Non Le farò perdere altro tempo, La lascio alla sua visita. Buona giornata.>

Prima che il giovane potesse replicare o aggiungere qualcosa con un cenno del capo si congedò.

< Arrivederci…> borbottò Ivan in uno stato di totale confusione mentale.

Non aveva capito bene cos’era successo, ma la sensazione di freddo che aveva percepito quando aveva stretto quella mano era ancora su di lui.

La guardia che era rimasta in disparte per tutto il tempo gli chiese gentilmente di seguirlo e il ragazzo gli andò dietro senza discutere; tempo di arrivare alla cella di Edward e la confusione aveva lasciato il posto ad un febbrile lavoro di congetture e ipotesi sul perché della visita di quell’uomo al suo amico.

< Ivan?>

Il rosso non cercò di nascondere il proprio stupore nel vederlo , di certo non si aspettava una sua visita così presto o almeno non in orario normale; ma ciò che lo preoccupò era l’aria stravolta che il ragazzo aveva, assolutamente diversa dal suo solito atteggiamento ansioso e discreto.

< Cos’è successo?> domandò prendendolo per le spalle – Ivan sobbalzò a quel contatto – e facendolo accomodare sulla sedia.

< Quell’uomo… il signor Petrov… che ci faceva qui?>

La faccia di Edward si scurì, ma non fece altro che sedersi sul suo giaciglio e attendere che l’eroe si tranquillizzasse un poco.

< Il direttore ha inoltrato la richiesta di riduzione della pena per buona condotta. Petrov e la gentaglia del tribunale sono costretti a riprendere in mano il mio caso per decidere se è possibile farmi uscire prima o se sarò costretto a scontare la pena completa.>

< Se ti facessero uscire per buona condotta…>

< Da qui a sei mesi sarei fuori. Ma non credo sarà possibile.>

< Perché?>

< Quel tipo non mi lascerà mai andare… è risaputo che sia un osso duro, uno di quelli che non concede nulla. Mi terrà qui per altri tre fottutissimi anni.>

Tutta la forza che aveva animato Ivan fino a quel momento scomparve nel sentire quell’ultima affermazione e un nuovo silenzio cadde su di loro.

Nonostante tutto Edward sorrise, stiracchiandosi e facendo scricchiolare le ossa.

< Allora… sbaglio o dovevi finire di raccontarmi qualcosa?>

 

Era buffo, se uno ci rifletteva attentamente, quanto il fato potesse essere ironico.

Yuri si portò il bicchiere di scotch alle labbra e sorseggiò il liquido con calma, assaporandolo mentre fissava il mondo dalla sua finestra, la stanza completamente immersa nell’oscurità. Dal salotto al di là della porta proveniva la voce di Agnes, intenta a descrivere l’ultimo, splendido intervento di Barnaby Brooks per salvare due bambini che avevano rischiato la vita.

Almeno in quei momenti avrebbe preferito non sapere nulla di eroi, imprese impossibili e cose simili, ma finché la televisione restava accesa sua madre sarebbe rimasta in silenzio a guardarla, senza chiedere del suo piccolo Yuri o interloquire con un uomo che era morto da anni.

Non poteva sopportare di vederla in quelle condizioni pietose, non poteva sentire quei discorsi senza senso e così dolorosi da riportare alla mente avvenimenti, tragedie del suo passato che avrebbe solo voluto rimuovere dalla memoria.

Bevve un altro bicchiere, svuotandolo più rapidamente del primo.

A volte gli sembrava di essere di nuovo lì, in quella rimessa, il corpo carbonizzato di suo padre davanti a lui, sua madre che gridava fino a perdere la voce. A volte poteva sentire ancora l’odore della carne arsa viva e le gambe che cedevano facendolo crollare al suolo.

Aveva solo voluto proteggerla. Aveva solo cercato di aiutare chi amava.

Proprio come quel ragazzo.

Eccola lì, l’ironia della sorte: quel giovane, Ivan, che tentava di aiutare chi gli stava più a cuore. Ma in questo momento il cattivo era stato lui, Yuri.

C’era voluta tutta la sua forza di volontà per mantenere Thanatos puntato contro il ragazzino che gli ricordava così tanto se stesso ed era riuscito a non cedere solo perché era profondamente convinto che quel che faceva fosse veramente giusto.

Suo padre avrebbe approvato tutto. Il suo vero padre, non quell’ubriacone violento che picchiava la moglie, avrebbe approvato anche la sua stessa morte.

Era stata fatta giustizia, in fin dei conti.

L’unica cosa che importava.

In ogni caso Yuri Petrov sperava davvero con tutto il cuore di non essere nuovamente costretto a puntare la sua arma contro Ivan Karelin: aveva già abbastanza incubi da affrontare senza doverne aggiungere altri alla lista.

 

Finalmente, dopo quasi un mese di ricovero, Kotetsu Kaburagi uscì dall’ospedale e, con grande gioia dei suoi colleghi, poté tornare al lavoro. Inutile dire che, essendo un esibizionista di natura, cominciò subito ad allenarsi il doppio per dimostrare di essere in forma smagliante.

Bunny era certo che, continuando con quel ritmo, presto o tardi avrebbe avuto un tracollo. In tutta onestà il ragazzo era convinto che ciò sarebbe successo quanto prima.

< Dovresti cercare di darti una calmata.> borbottò passandogli accanto e pregò con tutte le sue forze di non essere parso troppo apprensivo.

< Ah, tranquillo Bunny! Come puoi notare sono in ottima forma!>

Tipico di quell’idiota. Una vocina maliziosa dentro la sua testa gli chiese se davvero ci si poteva fidare di un uomo che non sapeva neanche badare a se stesso.

Scosse la testa, irritato.

Lui e Kotetsu non avevano più affrontato l’argomento e Barnaby non aveva intenzione di farlo a breve: aveva bisogno di tempo per riflettere e di tempo da passare assieme al suo compagno, per essere sicuro di prendere in esame la realtà e non qualche suo stupido pregiudizio.

Era tempo di dare a Wild Tiger una vera possibilità di dimostrare chi era e voleva giudicare in maniera imparziale. Ne aveva bisogno se non voleva pentirsi della sua scelta.

 

Analizzando la situazione con un po’ più di lucidità, Ivan si chiese se non potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutare Edward. Era finito in prigione per colpa sua, non c’era istante in cui il ragazzo potesse dimenticare com’erano andate realmente le cose.

Ora che c’era la possibilità che fosse rilasciato prima del tempo, ad Ivan sembrava più che logico fare in modo che questo accadesse sul serio: forse la sua parola poteva valere qualcosa, una raccomandazione ai piani alti poteva fare miracoli.

Fino a poche settimane prima il timido e introverso Origami Cyclon non avrebbe neanche mai pensato che la sua parola potesse valere qualcosa, era solo la parola di un fallito, ma ora, ora era diverso.

Era l’eroe, Santo Cielo, il salvatore di Sternbild che aveva messo a repentaglio la propria vita in un’importante quanto delicata missione da infiltrato, non era più la mezza tacca che appariva sullo sfondo di dirette e cartelloni pubblicitari.

Per questo aveva deciso di fare la sua mossa, anche a costo di incontrare nuovamente il giudice Petrov.

Ad essere sincero era convintissimo che provare a convincere quell’uomo fosse un’assoluta perdita di tempo; di comprarlo non se ne parlava nemmeno, era quasi un insulto. Però forse, parlandoci un poco, poteva ottenere qualcosa.

Così aveva preso appuntamento tramite la sua segretaria, un incontro formale che non lasciasse dubbi sulla sua trasparenza e le sue buone intenzioni: sentiva di poter puntare unicamente sulla pietà, era certo di riuscire, grazie alla sua aria da bravo ragazzo, a suscitare una certa compassione nella gente.

In quel caso specifico non avrebbe neanche dovuto sforzarsi di fingere, era davvero terribilmente preoccupato per Edward e un’espressione pietosa gli veniva naturale quando pensava alla sua situazione.

Dopo essersi fatto coraggio e aver chiamato la segretaria Ivan si preparò psicologicamente a quel colloquio, fissato per la mattina seguente.

Il tanto aspettato rientro di Wild Tiger lo aiutò a dimenticare momentaneamente la sua delicata missione, ma quando si trovò ad attendere nella sala d’aspetto la realtà gli si presentò davanti in tutta la sua crudezza.

Non era mai stato nell’ufficio del giudice, non era mai stato così attivo da distruggere luoghi e strutture pubblici o di altro tipo, al contrario di Kotetsu che a quanto pareva era dovuto passare per quella stanza fin troppe volte.

Quando la segretaria si schiarì la gola per annunciargli che il signor Petrov lo stava aspettando, Ivan trasalì e saltò su in piedi come se fosse stato punto da qualche insetto tremendamente perfido.

A passi lenti, come un condannato si avvicina al patibolo, si accostò alla porta e bussò nervosamente: nonostante tutti i suoi buoni propositi nei confronti di Edward, si chiese se davvero servisse a qualcosa quel tentativo.

Quell’uomo lo metteva in soggezione e l’impressione di stare per fare qualcosa di ben poco legale lo terrorizzava ancora di più.

Appena quella voce profonda gli ingiunse di entrare mise piede nella stanza e deglutì: era tutto come si sarebbe aspettato di vedere in quei film in cui il protagonista si avvicina inconsapevolmente al perfido cattivo che tenta di avvelenarlo con dell’arsenico nel bicchiere. L’ambiente era in penombra, le imposte lasciavano filtrare pochi raggi di sole che colpivano in pieno una pila di fogli ben ordinati sulla scrivania; tutto sembrava gridare ordine e rigore, dalla disposizione dello scarso mobilio ai libri sugli scaffali, raggruppati per tematiche e autore.

Anche il materiale che si trovava sopra l’imponente scrivania era sistemato in maniera precisa, le penne l’una accanto all’altra perfettamente parallele, i documenti sui vari casi separati con meticolosità. Non un errore, una macchia, un foglio sgualcito, assolutamente nulla di umano.

Lo stesso giudice, seduto dietro al tavolo, sembrava parte dell’arredamento, una statua di cera perfettamente ordinata in una stanza perfettamente ordinata; solo quella massa incredibile di capelli era fuori posto, assieme ad un leggero stiramento di labbra che Ivan classificò come sorriso.

< Buongiorno, signor Karelin.>

Non era esattamente un buon giorno, quello, ma il biondo evitò di fare dello spirito e si limitò a inchinarsi leggermente.

< Buongiorno, signor Petrov.>

< Prego, si sieda.>

Quella terza persona dovuta alla pura formalità cominciava ad innervosirlo, anche perché usata da quell’uomo pareva essere una velata allusione al fatto che Ivan lì dentro contava ben poco, una sottile insinuazione che gli ricordava chi teneva le redini del gioco.

Una finta cortesia decisamente logorante.

< A cosa devo la Sua visita, signor Karelin?>

Era arrivato il momento di giocare la propria carta e, contrariamente a quanto si aspettava, recitò la sua parte in maniera impeccabile: spiegò con semplicità che Edward gli aveva accennato al riesame della sua causa, che lui aveva assistito al terribile incidente e della sua enorme preoccupazione per l’amico. Il giudice Petrov lo ascoltò attentamente senza battere ciglio e se Ivan non avesse notato che stava ancora respirando si sarebbe chiesto, in certi momenti, se l’uomo era ancora vivo o se era stato fulminato da una morte improvvisa.

< Insomma, volevo solo chiederLe se Lei crede che per Edward ci sia qualche speranza di usufruire della buona condotta. Analizzando la situazione in maniera oggettiva, cosa che io non sono in grado di fare.> concluse Origami abbassando lo sguardo sul tavolo, incapace di fissare gli occhi gelidi del giudice.

Yuri fece un respiro profondo e Ivan si domandò seriamente se fosse possibile morire per la tensione.

< Capisco la Sua preoccupazione, signor Karelin. Effettivamente la situazione del Suo amico è molto complessa e, sinceramente, il fatto che si tratti di omicidio colposo e non volontario depone a suo favore. Tuttavia è sempre di omicidio che si tratta e credo che Lei capisca la gravità della questione. C’è una qualche possibilità che il signor Keddy venga rilasciato con un certo anticipo, ma non posso assicurarLe niente, bisognerà analizzare la situazione con cura.>

Era una risposta che non prometteva nulla e Ivan si rese conto di quanto stupido fosse stato anche solo pensare di poter scucire qualcosa all’incorruttibile giudice di Sternbild: la professionalità di quell’uomo era innegabile e lui si ritrovava con niente in mano, solo tempo sprecato.

Si alzò ricambiando finalmente lo sguardo di Yuri e si inchinò leggermente.

< La ringrazio, signor Petrov, e La prego di perdonarmi per averLe rubato del tempo prezioso.>

Per un istante gli parve di scorgere negli occhi spenti dell’uomo un lampo che di certo non lo faceva sembrare scontento di aver perso tempo prezioso in sua compagnia; in effetti Ivan aveva la netta sensazione che il giudice uscisse per qualche bizzarra ragione sempre soddisfatto dai loro incontri.

La mano che gli porse confermò in un certo senso la sua impressione, così come quello stiracchiamento di labbra che il ragazzo cominciava a classificare come “il sorriso standard del giudice Petrov”.

< Non si preoccupi, è stato un piacere poterLa rincontrare. Spero che accada anche in futuro, per motivi più felici possibilmente.>

 

Se Barnaby avesse dovuto descrivere Kotetsu con una sola espressione di certo avrebbe scelto “testardo come un mulo”; aveva cercato di fargli capire in ogni modo che era troppo presto per lui per tornare sulla scena, che nel frattempo poteva cavarsela anche senza il suo supporto, che era meglio che si rimettesse completamente se non voleva rischiare di tornare in ospedale, ma non una singola parola gli era rimasta nella testa, entrando piuttosto da un orecchio e uscendo dall’altro.

Per di più il signor Maverick, con la sua solita discrezione, premeva anch’egli perché l’ormai famoso Wild Tiger tornasse in azione, pronto a riproporre alle migliaia di spettatori il duo più amato di sempre, i due eroi che aveva liberato Sternbild dalla minaccia di Jake Martinez.

Le proteste del biondo vennero quindi ignorate e Kotetsu riprese la solita routine, facendo però attenzione a non assegnargli missioni troppo complicate o pericolose: un paio di rapine in banca, qualche scippo, un serial killer evaso di prigione. Finché doveva affrontare esseri umani comuni e non altri NEXT non c’era alcun problema.

Peccato che quello che sembrava un semplice rapinatore un po’ più scaltro degli altri si era rivelato un bestione di tre metri per tre con il potere della telecinesi.

C’erano Bunny e Tiger a fronteggiarlo assieme a Fire Emblem, gli altri eroi erano impegnati a catturare gli altri complici che si erano sparpagliati per ogni dove.

< Ma che razza di NEXT è questo?!> gridò Kotetsu evitando per un pelo l’autobus che gli veniva lanciato contro.

< Ho un piano. Voi cercate di distrarlo, io provo a colpirlo di petto.> suggerì Bunny adocchiando il compagno con la coda dell’occhio: aveva già il fiatone, il che era davvero un brutto segno. Dovevano concludere quello scontro in fretta e Tiger doveva assolutamente restare in secondo piano, non era pronto ad un combattimento come ai vecchi tempi.

< Conta pure su di noi, Handsome!> lo incoraggiò Fire Emblem sfuggendo con un’elegante piroetta all’estintore che finì a sfracellarsi contro il muro dietro al focoso eroe.

Il biondo si tenne pronto ed attese il momento opportuno per scattare: ogni secondo sprecato era una possibilità in più che il suo compagno fosse ferito. Non era esattamente il pensiero più adatto in una situazione in cui doveva mantenere la calma e la concentrazione, ma non poteva farne a meno.

Poi come a rallentatore vide l’uomo dare le spalle a Fire Emblem e cominciare a correre dritto dritto verso Wild Tiger, trascinandosi dietro due automobili parcheggiate nei dintorni; prima di poter anche solo riflettere il giovane si slanciò in avanti, la modalità Good Luck si attivò automaticamente.

Quando sentì un tonfo sordo e avvertì di aver colpito qualcosa di decisamente duro capì di aver preso in pieno il bersaglio.

L’elicottero della Hero TV atterrò rapidamente vicino a loro, dando un bel primo piano del cattivo steso a terra e di Bunny che sorrideva alle telecamere come se fosse nato per farlo; per sua fortuna la troupe corse subito verso il luogo dove gli altri si stavano dando da fare con i complici di quel brutto ceffo.

Quando il biondo si voltò a fissare il proprio compagno impallidì: quel minimo di pelle che si intravedeva dalla visiera alzata era verdognola e pareva proprio che l’uomo stesse per collassare da un momento all’altro.

Prima che potesse porre una delle tante domanda che lo assillavano Kotetsu alzò una mano.

< Sto bene, tranquillo.>

Che era una bugia bella e buona era evidente, ma Barnaby immaginò che la presenza di Fire Emblem lo trattenesse dal mostrare il suo dolore; inoltre avevano ancora le tute addosso e l’ultima cosa che Tiger voleva era essere rispedito in ospedale da un risentito Maverick,

< Ne parliamo dopo.> commentò Bunny mentre la voce del commentatore di Hero TV annunciava che anche gli altri criminali erano stati catturati.

 

< Domani è il grande giorno.>

Edward e Ivan si fissarono con aria trepidante: non sapevano se lasciarsi andare all’ottimismo e sprizzare gioia da tutti i pori o trattenersi in una più cauta diffidenza per il risultato del riesame.

< Ci sarai al processo, vero?> domandò il rosso senza preamboli; visita dopo visita i due stavano lentamente tornando alla loro normale routine relazionale, Ivan aveva smesso di comportarsi come se l’altro potesse alzarsi in ogni momento e attentare alla sua vita ed Edward era decisamente più naturale nel chiedergli notizie delle sue imprese, della sua giornata e di tutte quelle piccole cose che facevano parte dell’essere un eroe.

In certi momenti ad entrambi sembrava di essere tornati ai tempi dell’accademia, con le battute sarcastiche di Edward e i momenti esaltati di Ivan, quando non riusciva a trattenere la sua vena da otaku e partiva con citazioni o lunghissimi discorsi sull’ultimo modellino uscito della sua serie preferita.

Anche ora, con l’ombra del riesame che incombeva, si sentivano a loro agio nonostante la delicata questione.

< Certo che ci sarò. Sono con te, sappilo.>

Edward si lasciò andare ad un ghigno amaro.

< Mi chiedo cosa potrei fare una volta uscito di qui… Hai qualche idea?>

Il biondo rimase a bocca aperta per qualche secondo: no, non ne aveva proprio idea.

Insomma, nella sua mente Ed era sempre stato l’eroe per eccellenza, nato e cresciuto per fare quello e solo quello; con il suo coraggio, il suo spirito d’iniziativa, l’audacia che aveva sempre dimostrato non poteva non trovare posto tra gli eroi di Sternbild.

Anche dopo quella terribile tragedia Ivan aveva continuato a pensarla in quel modo, pur sapendo che ogni speranza per il suo amico era naufragata con quello sparo. Un accidentale macchia sul suo curriculum, sulla sua fedina penale, che gli avrebbe impedito per sempre di diventare uno di loro.

< Ora che ci penso temo di non avere più neanche una casa…> borbottò il rosso sovrappensiero.

I suoi genitori erano in Inghilterra, ma non aveva mai avuto un buon rapporto con loro e dopo quegli anni di carcere era fermamente convinto che non lo avrebbero accolto a braccia aperte; e poi il biglietto per l’aereo costava e lui era assolutamente al verde.

< Bé, per quanto riguarda la casa puoi venire a stare da me.>

< Perché, ti fidi?>

Edward aveva stampata in faccia un’espressione incredula, con quel sopracciglio inarcato come a dire che avrebbe creduto più facilmente ad un elefante che vola piuttosto che alla proposta così spontanea dell’altro.

< Certo. – ribatté Ivan, ma visto che l’amico pareva ancora scettico proseguì – Dici che non dovrei?>

< Bah, se non hai paura di portarti in casa un criminale che ha cercato già una volta di ucciderti…>

Non era la prima volta che finivano sull’argomento in questione e il biondo non si scompose minimamente.

< Dubito che riproverai a farlo, a meno che tu non voglia tornare in prigione non appena rilasciato.>

< Ok, un punto per la tua logica di ferro. Resta ancora la domanda: cosa diavolo farò una volta uscito?>

Ivan provò a riflettere su cosa avrebbe fatto lui se non fosse diventato un eroe: il disegnatore di manga non sembrava però un lavoro adatto a Ed o a qualsiasi persona normale che non fosse un fan sfegatato di tutto ciò che aveva un marchio “made in Japan”.

Continuarono la conversazione fino a che la solita guardia si avvicinò per avvisarli con discrezione che il tempo era scaduto, proprio quando il biondo aveva quasi convinto l’amico che portare pizze d’asporto in giro per Sternbild non era poi così male.

 

Per tutto il tragitto verso il deposito delle loro tute Kotetsu non aveva fatto altro che rispondere agli sguardi interrogativi di Bunny con un sorriso e le parole “tranquillo, sto benissimo, non preoccuparti”. Peccato che una volta liberatosi finalmente della tuta, che probabilmente era l’unica cosa che, essendo così rigida, lo teneva ancora in piedi, si fosse accasciato a terra con un lamento.

Il biondo gli fu subito accanto e cercò di passargli un braccio attorno alla schiena per aiutarlo ad alzarsi.

< Non azzardarti a dire che stai benissimo.> lo avvertì vedendo che il compagno e collega stava già aprendo la bocca per protestare.

Tiger lo fissò per un istante prima di lasciarsi andare in un sorrisetto sofferente.

< Bé, forse benissimo non proprio, ma non sono messo così male…>

Non aveva ancora finito la frase che una fitta lo colpì all’altezza dello sterno; doveva essere colpa di quel dannatissimo bidone delle immondizie che gli era stato lanciato addosso all’inizio dell’inseguimento, o almeno lo sperava: non avrebbe sopportato un altro soggiorno prolungato in ospedale a causa di quello psicopatico di Jake Martinez. Non c’era neanche di che rallegrarsi se si fosse davvero trattato di quello stupido bidone, Barnaby non se n’era neanche reso conto, pareva un colpo così banale che anche uno come Wild Tiger l’avrebbe superato senza problemi.

Questo era vero in condizioni normali, probabilmente, non dopo essere stato massacrato di botte da un terrorista completamente fuori di testa e con strane idee sul concetto di divertimento e spettacolo.

< Ho solo bisogno di un po’ di riposo.> borbottò Kotetsu e per confermare le sue parole cercò di rimettersi in piedi facendo forza solo sulle gambe, ma se non fosse stato per il partner sarebbe crollato ancora una volta a terra.

< Devi farti vedere da un medico, altro che riposo.> replicò seccato sollevandolo di peso; odiava quanto poco quel vecchiaccio idiota si prendesse cura di se stesso e aveva tutte le intenzioni di trascinarlo in pronto soccorso a forza, se avesse opposto resistenza.

Una mano gli strinse il braccio con una presa ferma e si voltò a fissare negli occhi il collega.

< Che c’è adesso?>

< Non voglio tornare in ospedale. Non servirebbe…>

< Senti, vecchio…>

< Parlo sul serio, Bunny-chan. Ho già passato troppo tempo in quel dannatissimo posto e se sono ridotto così dopo un’infima scaramuccia come quella che abbiamo appena affrontato significa che le cure sono servite a ben poco. Non ho alcuna intenzione di passare un altro mese a farmi imbottire di pillole e restare fermo a letto tutto il giorno.>

La parte razionale del ragazzo, che in genere era quella che prevaleva su tutto, gli stava urlando di non fidarsi, quel vecchio pazzo non aveva idea di cosa stava facendo, avrebbe finito per farsi del male da solo, per ammazzarsi senza rendersene conto; ma stranamente il suo istinto gli diceva tutt’altro e per la prima volta non sapeva cosa scegliere di seguire.

< Mi basta solo un po’ di riposo, davvero.> insistette Tiger appoggiandosi alla parete con la schiena per non crollare ancora e peggiorare la propria posizione.

Cinque minuti dopo erano entrambi nella macchina di Barnaby, che stava guidando diretto verso casa sua e lanciava ogni tanto un’occhiata preoccupata all’uomo seduto accanto a lui.

Kotetsu aveva debolmente provato a convincerlo a riportarlo a casa sua, dove avrebbe potuto stravaccarsi sul divano e guardarsi qualche vecchia registrazione di Mr. Legend assieme ad una buona bibita e qualche pacchetto di patatine, ma l’opzione “lasciamo solo il povero degente che potrebbe schiattare da un momento all’altro senza qualcuno che lo aiuti” era stata bocciata senza mezzi termini appena formulata.

< Ancora non ti fidi di me, vero?>

Se doveva riconoscere lo stato emotivo del compagno dal suo tono avrebbe avuto qualche difficoltà: non c’era neanche una traccia di rabbia in quelle parole, né rancore o altro. Non sembrava seccato o stufo o lamentoso o tutto quello che in genere Tiger era quando si scontrava verbalmente con lui.

Ad essere sincero quelle parole sembravano solo ed unicamente tristi; Bunny avrebbe preferito essere insultato piuttosto che sentire quel tono.

Si voltò lentamente e inchiodò il compagno al sedile con lo sguardo più duro che gli venne.

< Non dire idiozie, vecchio.>

< Bé, non vedo perché allora tu non riesca a credere che sono capace di badare a me stesso.>

Eccolo lì, il tono lamentoso del Wild Tiger di sempre.

Cercò di ignorarlo e non rispose alla domanda mentre parcheggiava l’auto e raggiungeva l’altra porta per aiutare Kotetsu a scendere prima che quell’uomo gli rompesse la portiera nell’impaziente tentativo di dimostrare che non aveva bisogno di una balia.

Senza prestare ascolto alle sue proteste Barnaby gli mise un braccio attorno alla vita per sicurezza e lo condusse verso l’ascensore che portava ai suoi appartamenti.

< Allora? – sbuffò il più vecchio fissando di sottecchi il ragazzo – C’è un motivo per cui non ti fidi affatto di me?>

Prima che l’uomo potesse continuare il discorso in una lunga tirata che comprendeva tutte le cose buone che lui aveva fatto per il suo compagno, incluso rischiare la vita non una, ma ben due volte per Bunny ed i suoi ideali, il biondo lo fulminò con lo sguardo.

< Solo perché non voglio che tu muoia mentre ti ingozzi come un maiale steso su un divano non vuol dire che io non mi fidi di te.>

Kotetsu sbarrò gli occhi.

< Dici sul serio?>

< Mi pare ovvio. Altrimenti non ti avrei portato qui, idiota, ti avrei trascinato dritto dritto in ospedale senza sprecare un attimo di tempo.>

Tiger pareva caduto dalle nuvole, non riusciva a credere alle sue orecchie; il tintinnio che annunciava che l’ascensore era finalmente arrivato al piano voluto lo riscosse per un momento dalle sue elucubrazioni mentali, ma era così assorto nei suoi pensieri da non accorgersi neanche che il biondo gli stava porgendo la mano come appiglio.

Bastò un attimo, si sbilanciò un po’ troppo in avanti, le gambe stremate cedettero sotto il peso, chiuse gli occhi aspettando l’impatto e un secondo dopo era sul pavimento della sala, che stranamente non era così duro come si sarebbe immaginato.

Un mugolio sotto di lui gli fece aprire gli occhi.

< Ehi, vecchio… >

Che il pavimento non fosse duro era un’ovvietà una volta aperti gli occhi, perché non era del pavimento che si trattava, ma di Barnaby Brooks Jr. che si era per sua sfortuna trovato lungo la traiettoria di caduta del suo catastrofico e alquanto pesante partner.

< Ti dispiacerebbe alzarti?> proseguì il giovane cercando inutilmente di sgusciare da sotto il corpo del più vecchio. Pessima mossa.

Non sapeva se era colpa della scarica elettrica che gli era passata lungo la spina dorsale al movimento improvviso di Bunny oppure se era rimasto così privo di forze vitali da non poter neanche tirarsi su puntellandosi con le mani, ma il punto era che, nonostante la richiesta del compagno, non riuscì a muoversi neanche di un millimetro.

Il massimo che poté fare fu spostare un poco la testa per non sbattere fronte a fronte con il biondo.

Nel sentire la barba di Kotetsu – quel dannato ed inutile vecchiaccio – strusciarsi contro la sua guancia, Barnaby si irrigidì: tutto questo non era previsto, né rotolare sul pavimento come due idioti né essere così appiccicati né avere il fiato del suo disastroso collega che gli soffiava nell’orecchio.

Tentò di spostare il corpo sopra di lui, ma aveva paura di ferirlo e peggiorare le sue condizioni, perciò non riuscì ad ottenere nulla di quanto avrebbe voluto.

< Scusa Bunny-chan, temo dovrai aspettare un poco… non riesco proprio a muovermi.>

Il biondo non sapeva se essere più irritato dalla cattiva notizia o da quell’orribile nomignolo che l’altro continuava ad affibbiargli.

< Il mio nome è Barnaby, vecchio!>

La pressione contro il suo corpo si fece più accentuata, le labbra di Tiger sfiorarono il lobo dell’orecchio – accidentalmente, questo era certo, quel vecchiardo combina guai non sarebbe mai riuscito volontariamente a fargli venire i brividi come stava accadendo in quel momento.

< Dì il mio nome.>

A Barnaby mancò il fiato: ripagato con la stessa moneta, ma dal suo punto di vista era complicato, molto più complicato.

< Non dovrebbe essere così difficile, l’hai già fatto una volta.>

Quella parola sembrava essersi congelata in gola e non voleva assolutamente uscire, ogni sforzo pareva inutile; Allora fece l’unica cosa che gli pareva avesse senso in quel frangente: tentare la fuga.

Provò a scrollarsi di dosso il collega, ma tutto ciò che ottenne fu incastrare le proprie gambe con le sue mentre il vecchio faceva di tutto per mantenere la sua posizione con le poche forze che gli restavano; più cercavano di separarsi e più i loro sforzi erano vani, trovandosi alla fine ad agitare confusamente le braccia senza alcun risultato.

Finché per puro caso le labbra di Wild Tiger non si scontrarono con quelle del compagno; per Barnaby fu come essere colpito da una scossa elettrica e restò lì, immobile, senza continuare ad attaccare, sconvolto.

Tiger approfittò del momento di pausa per chiederglielo ancora una volta.

E mentre il nome di Kotetsu gli scivolava fuori dalle labbra, senza rendersene contro si sporse in avanti per cercare ancora quel contatto di prima, deciso a dare al signor Kaburagi una possibilità.

 

< La seduta è sciolta.>

Quel colpo di martelletto gli era parso uno sparo, lo stesso che era partito dalla pistola di quel malvivente e che aveva centrato in pieno una povera donna innocente. Come in quel grigio giorno sul marciapiede anche là, nell’aula del tribunale, il mondo aveva preso a girare, le facce si confondevano, i colori divenivano sfuocati e l’unica visione nitida era il volto terrorizzato di Edward, incredulo per quanto era successo, disperato perché non poteva tornare indietro.

Lo vide alzarsi, cercare di mascherare la propria espressione ferita, ma con scarso successo: entrambi ci avevano davvero creduto che quella sera non si sarebbero visti dietro le sbarre, ma avrebbero potuto conversare come ai vecchi tempi seduti ad un ristorante di cucina orientale.

Ivan sarebbe crollato da un momento all’altro a terra, come anni prima, se qualcuno non lo avesse afferrato per le spalle quando ormai l’aula si era svuotata e nel corridoio in cui si trovava giravano solo un paio di visitatori e qualche impiegato. Ma questa volta a sorreggerlo non era un vecchio gentile che aveva assistito all’orrenda scena senza poter fare nulla.

Questa volta le mani che lo sostenevano erano le stesse che avevano fatto battere il martelletto pochi minuti prima.

Doveva davvero essere sconvolto e fuori di sé, in uno stato di coma ad occhi aperti, perché si ritrovò seduto al tavolino di un bar senza sapere come c’era arrivato; chi l’avesse portato lì era invece evidente, il giudice Yuri Petrov era seduto davanti a lui, intento a mescolare il proprio caffè.

< Come ti senti?>

Meglio, decisamente più cosciente di prima, ma appena riacquistata la consapevolezza di cosa era successo il biondo pregò di tornare a non capire più niente per altri dieci minuti.

< Edward è…>

Non riuscì a concludere la frase, ma alzò lo sguardo per cercare conferma di quel che intendeva nel volto dell’uomo. Era indecifrabile come sempre, ma nell’osservarlo Ivan notò un qualcosa che lo faceva sembrare terribilmente stanco, più del solito, e in qualche modo triste.

Non per Ed, quello era difficile, ma per Ivan sì, per quello che stava passando adesso.

< C’era ben poco che si potesse fare. La famiglia di quella donna non ha ancora dimenticato quant’è successo; credo che abbiano capito che tutta la faccenda è stata un terribile incidente, ma è difficile perdonare quando ci sono due bambini costretti a crescere senza una madre.>

Il biondo ascoltava quelle parole, ma non le capiva appieno, la testa gli girava ancora; si aggrappò con le mani al bordo del tavolo, le dita bianche per lo sforzo.

< Ti conviene bere, ti sentirai meglio.>

In un attimo di lucidità si chiese da quando il giudice fosse passato dal “lei” al “tu”, ma in quel momento al ragazzo faceva piacere, lo aiutava a non provare rancore contro l’uomo che aveva appena condannato il suo migliore amico ad altri lunghi mesi di prigione.

< Io… sarei dovuto finire anch’io… in prigione. – la voce gli tremava come la tazza di caffè stretta tra le dita, non osava ricambiare lo sguardo di Yuri – Sarei dovuto intervenire quel giorno… forse quella donna non sarebbe morta. Edward non sarebbe mai finito lì dentro.>

Petrov lo guardò severamente e la sua voce risuonò ferma alle orecchie del giovane.

< Non devi sentirti in colpa per quanto è successo. Non eri l’unico ad assistere alla scena, c’erano almeno altre venti persone che avrebbero potuto farsi avanti.>

< Edward l’aveva chiesto a me, aveva chiesto il mio aiuto.>

Il giudice allungò una mano e la appoggiò sopra quella di Ivan, che sobbalzò appena: era fredda, ma riuscì in maniera un po’ impacciata a calmarlo. Era evidente che il signor Petrov non fosse abituato a confortare qualcuno – probabilmente la sua vita non era esattamente colma di rapporti sociali e uscite con gli amici – ma al biondo in quel momento bastava davvero poco per stare meglio.

< Credo che tu non sappia che oltre ai poliziotti che tenevano sotto tiro i criminali sulla scena c’erano anche un paio di agenti in borghese e altre persone che per lavoro era molto più qualificate ad intervenire di quanto non foste tu e il tuo amico. Nonostante questo neanche loro hanno osato muovere un dito. Credo che debbano essere loro a provare dei sensi di colpa, non un ragazzino che all’epoca dei fatti aveva cominciato da poco l’accademia. Né tu né… Edward eravate abbastanza esperti per poter gestire una situazione di quel tipo.>

Per quanto sensato quel discorso non fece sparire il rimorso che attanagliava Ivan, ma un’altra idea, totalmente diversa da quelle che gli avevano attraversato la mente negli ultimi minuti, apparve dal nulla.

Il ragazzo finì in fretta il caffè e salutando il giudice fece per alzarsi e andarsene, ma non era riuscito a fare neanche un passo che la stessa mano gelida di prima gli bloccò il polso.

Voltandosi di scatto Ivan si ritrovò a fissare gli occhi freddi di Yuri, che in quel momento avevano un qualcosa di sinistro, un avvertimento.

< Ivan. Non fare niente di stupido.>

Non rispose né ribatté, ma quando uscì dal bar e lungo tutto il tragitto fino a casa sua pareva che il gelo di quel tocco non svanisse dal suo polso e che quello sguardo così pericoloso fosse ancora fisso su di lui.

 

Dopo tutte le visite compiute negli ultimi mesi era riuscito a elaborare mentalmente un piano; non che fosse molto particolareggiato, ma con ogni probabilità avrebbe funzionato senza intoppi.

Una pastiglia di sonnifero nel caffè della guardia che lo accompagnava sempre alla cella (aveva preso il vizio di fermarsi alle macchinette che si trovavano subito dopo l’ingresso, un modo per sopravvivere a quell’estenuante turno notturno e infilare la pastiglia nella bevanda per Ivan era stato uno scherzo), poi subito a nascondere il corpo in un angolo prima di prendere l’aspetto della guardia stessa e infine imboccare il corridoio costellato di telecamere – aveva studiato la loro posizione tutte le volte che era passato per quel percorso, ce n’era solo una piazzata all’ingresso (e aveva fatto molta attenzione ad entrare passando per l’angolo cieco) mentre le altre erano tutte nel corridoio che portava alle celle. Aveva fatto attenzione anche a scegliere l’ora in cui il custode generalmente entrava in ufficio a sistemare le ultime scartoffie; non l’aveva visto nessuno se non la guardia che giaceva addormentata in un angolo. Se tutto fosse andato come sperava, si sarebbe svegliata che lui e Edward erano già ben lontani.

Si sistemò l’uniforme e controllò di essere perfettamente in ordine; sfiorò con lentezza le chiavi attaccate alla cintura e s’incamminò.

Trasformarsi in un’altra persona, specie un totale estraneo come quella guardia, era una sensazione stranissima, ma nonostante ora fosse più alto di diversi centimetri e incredibilmente più magro riuscì a camminare con naturalezza fino alla cella.

Sarebbe riuscito ad ingannare tutte le telecamere, ma con Edward era un altro discorso; lo riconobbe subito, neanche fatti tre passi oltre la porta.

< Ivan?>

Il ragazzo, ancora trasformato nell’uomo, sbatté le palpebre, preso in contropiede.

< Come hai fatto a capire che ero io?>

< Le guardie non entrano mai in una cella da sole, genio. Devono essere sempre in due. Cosa ci fai qui?>

Riprese le sue abituali sembianze; gli bastò una sola occhiata per capire che, a dispetto del tono alquanto naturale, il suo amico non aveva affatto preso bene la sentenza di quel giorno.

< Sono qui per portarti fuori.>

Cercò di prendergli la mano per fargli capire che diceva sul serio, ma il rosso lo evitò, guardandolo come se fosse improvvisamente ammattito.

< Non dire idiozie.>

< Sto dicendo sul serio.>

< Sei impazzito? Pensi che non ci scoprirebbero nel giro di due minuti?>

< Posso riprendere le sembianze della guardia, posso farti uscire di qua. Fidati, ho studiato un piano.>

Non era esattamente vero, ma poteva dire con sicurezza di averci provato e di avere una traccia sufficientemente dettagliata da seguire… anche se faceva buchi in diversi punti.

Fece un altro passo avanti, sicuro di aver rassicurato a sufficienza il suo amico, ma lo sguardo che Ed gli lanciò gli fece cambiare improvvisamente atteggiamento.

< Si può sapere che c’è adesso?>

< Ti rendi conto di quello che stai facendo?!>

< Sto aiutando il mio migliore amico, dannazione! E ti conviene muoverti, quella guardia non potrà dormire in eterno.>

Edward non si spostò di un centimetro.

< Ivan…>

< Che c’è?>

< Smettila, non sei d’aiuto a nessuno.>

< Ma..!>

< Sei un eroe, l’hai dimenticato? Un eroe non dovrebbe comportarsi in questa maniera.>

Il biondo stava valutando attentamente se era un’opzione migliore prenderlo a pugni o dargli le spalle e lasciarlo alla miseria di quella stupida cella; fece un respiro profondo nel tentativo di riprendere il controllo, anche se una vocina nella sua testa continuava a sussurrargli che Ed aveva perfettamente ragione.

< E’ colpa mia se ti trovi qui dentro ed è giusto che sia io a tirarti fuori. Tutto questo non sarebbe successo se io non fossi stato un codardo.>

< E’ acqua passata ormai.>

< Se lo fosse non avresti cercato di uccidermi!>

Fu la volta del rosso di reprimere la propria frustrazione impedendosi di strangolare l’amico dalla singolare testa dura; non era stato facile dimenticare quello che era successo, farsene una ragione, assolvere l'amico e se stesso per incolpare solo un fato dannatamente crudele, ma in qualche modo c'era riuscito. Le visite di Ivan lo avevano aiutato, tornare di nuovo a parlare con lui era stato... strano; si era convinto, dopo la sua improvvisa fuga di mesi prima, di aver chiuso con la sua vecchia vita, di poterci dare un taglio netto, preciso, indolore, ma quando si era ritrovato il biondo davanti, bé... non si era mai reso conto di quanto veramente gli era mancato.

E certo l'offerta di una libertà immediata era allettante, se gli fosse stata offerta  da chiunque altro anche solo il giorno prima  del suo tentativo di vendetta, avrebbe colto l'occasione senza troppi problemi.

Ora era diverso, tutto diverso.

< Sei un eroe, Ivan. Non dovresti comportarti in questa maniera.>

Forse l'avrebbe ferito, forse no, ma quel che contava in quel momento era fargli capire in che guaio si stesse cacciando.

< Edward...>

< Ascoltami bene: voglio che tu mi lasci qui. Uscirò da questo posto alla luce del sole, non certo ora e non certo compromettendo te. Sei un eroe, devi esserlo... non sai quanto darei per poter essere te. Visto che questo non sarà possibile, voglio che tu sia un eroe anche per me. E ora voglio che tu mi permetta di uscire da questa prigione da uomo libero. Avremo un'intera vita davanti, allora.>

Ivan non si era reso conto di quanto il NEXT si fosse fatto più vicino mentre parlava, ma quando si sentì prendere le mani e il naso di Ed sfiorò il proprio arrossì improvvisamente: non solo aveva invaso completamente il suo spazio personale, ma non era mai stato così vicino da che il biondo aveva memoria. Abbassò lo sguardo cercando di non osservare in faccia il carcerato, ma una mano gli sollevò il mento con delicatezza.

Origami Cyclon, l'eroe reso famoso dalla vicenda di Jake Martinez, il giovane che stava per buttare all'aria una carriera ormai consolidata preferendo far evadere il suo miglior amico, avrebbe voluto dire qualcosa in quel momento, davvero. Ci provò, ad essere sinceri, ma prima che dei suoni articolati lasciassero le sue labbra la bocca di qualcun altro le ricacciò indietro con una certa prepotenza.

In quel momento, quando sentì il respiro caldo di Edward su di sé, le ultime briciole residue di volontà di opporsi vennero spazzate via in un soffio. Quando il rosso si staccò da lui, dopo pochi secondi per l'orologio, dopo secoli per Ivan, al biondo tremavano le gambe.

< E' meglio che tu vada.>

La voce di Ed risuonava distante, ovattata, e il ragazzo con il volto in fiamme annuì e senza pensarci recuperò l'aspetto della guardia e si allontanò di corsa dalla cella. Mentre risvegliava la vera guardia e usciva dalla prigione di Sternbild le gambe continuavano a tremargli.

 

C'era mancato poco.

Yuri Petrov sospirò passandosi una mano sul volto, ancora sudato a causa della maschera che si era appena tolto: sarebbe bastato un passo falso, un cenno del signor Keddy e Lunatic avrebbe lasciato andare il suo fuoco, il colpo già caricato sulla balestra.

Per fortuna Edward Keddy non era un idiota.

Per fortuna Yuri Petrov non era stato costretto a uccidere Ivan Karelin, perché in quel caso avrebbe avuto solo un altro, tormentato spettro a ricordargli le sue colpe. Uno bastava, davvero.

Sorseggiò il suo the con aria assorta, aveva ancora un nodo allo stomaco per quanto aveva visto, spiato con occhi indiscreti, attraverso le sbarre della finestra della cella, appostato sul tetto del fabbricato adiacente.

Cercò di dimenticare l'immagine fin troppo nitida di quel viso arrossato, dei ciuffi biondi che coprivano disordinatamente quegli occhi smarriti... doveva trattenersi, certe cose non poteva permettersele.

Tentò con tutte le sue forze di convincersi di ciò, ma una parte di lui, quella che provava a reprimere costantemente, non poteva che agitarsi all'idea che il giorno dopo avrebbe potuto rivedere quel volto.

 

Ivan non era più andato a trovare Edward dopo quella notte. Ogni volta che il suo corpo automaticamente si incamminava verso la prigione la sua mente si risvegliava di soprassalto e lo costringeva a fermarsi prima che fosse troppo tardi.

Questo accadde due, tre volte al massimo, poi il suo corpo ebbe la meglio.

Non era andata poi così male, il biondo non faceva che ripeterselo: Edward era sempre Edward e per quel che era successo quella notte... avrebbe avuto modo di rifletterci, col tempo. Intanto né lui né il rosso avevano più accennato alla faccenda.

D'altro canto il ritmo sostenuto di lavoro gli permetteva di non lasciarsi andare in lunghi e complicati trip mentali, non troppo almeno.

< Bunny-chan, muoviti!>

Wild Tiger superò Origami con un balzo continuando ad incitare il suo molto più prudente compagno: di certo quell'uomo aveva fiato da vendere.

< Ti conviene non stancarti troppo, Kotetsu-san. Potresti non arrivare a fine missione.>

Tiger non si rese conto di quanto accadeva alle sue spalle, ma Ivan poté osservare perfettamente la reazione degli altri, Rock Bison che per poco non inciampava in avanti, Blue Rose che li fissava a bocca aperta, Sky High e Dragon Kid si bloccavano sul posto come se fossero certi di non aver sentito bene mentre Fire Emblem si portava le mani alla bocca e con gli occhi sgranati strillava "da quando tutta questa confidenza tra voi due?!".

Ma Wild Tiger e Barnaby Brooks, quand'erano impegnati nel loro lavoro, sapevano diventare stranamente sordi.

Ivan avrebbe comunque giurato che il più giovane dei due, in quel preciso istante, stesse sorridendo.

   
 
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