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Autore: Neal C_    06/05/2012    6 recensioni
“E così lei è Brian.”
“Il padre di Cody, si. Per piacere diamoci del tu.
Tu sei An…forse Antony? Devi scusarmi, ma non ricordo il tuo nome.”
“Andrew. Andrew Packard.”
- Pensavi fossi una puttana? -
“Si” mormorai convinto, rispondendo alla voce di lui che risuonava come il suono attutito di un gong.
“Cosa?” Brian mi scrutava con uno sguardo interrogativo, sinceramente all’oscuro di quanto mi stesse accadendo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Brian Molko, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Just a perfect man





Mi svegliai  battendo i denti per il freddo.
Mi strinsi nelle spalle, cercai la fonte degli spifferi che mi investivano mentre rabbrividivo come un pulcino intirizzito.
Mi sembrò tutto gelido e inospitale, troppo silenzioso e cercai di riconoscere l’appartamento in cui mi ero traferito appena cinque giorni prima.
Accanto a me il piumino era attorcigliato su sé stesso, mi lasciava il fianco scoperto e il matrimoniale era vuoto, di lui rimaneva solo un’impronta sul cuscino freddo.
Mi assalì la malinconia e sospirai stancamente, puntellandomi con i gomiti, lottai contro la pigrizia per alzarmi in piedi.
Mi fermai ad osservare la porta della stanza, stretta d’assedio fra  la vecchia libreria in legno massiccio e un ancor più vetusto baule su cui stava posata una valigia di vestiti.
Era piuttosto buffo il fatto che, dovendo condividere l’appartamento con Sebastian, non avessimo ancora concordato una sistemazione decente per i miei abiti e gli effetti personali.
Mi aspettavano ancora cinque mesi lì e poi chissà.
Non sapevo se avrei trovato lavoro o se me ne sarei tornato nella campagna dello Yorkshire.
Scacciai quei pensieri, volevo solo alzarmi e prepararmi un caffè forte per ricominciare un’altra giornata nella capitale;  sicuramente Sebastian mi aveva lasciato i piatti nel lavello, come promesso.
Il mio coinquilino aveva invitato a cena cinque o sei tizi semisconosciuti, incontrati qualche ora prima in un bar per un aperitivo a base di birra o gin and tonic.
Avrei passato la mattinata a rimettere a posto e a fare il lavapiatti come nei ristoranti all’ultimo grido.
Sbirciai ancora una volta il letto vuoto e pensai al ragazzino che avevo incrociato  in quel  disco-pub, due vicoli più avanti, nel bailam di Brixton.
Doveva essersene andato prima che mi svegliassi.
Ripensai con imbarazzo a quando, appena entrato nel locale, lo avevo visto insieme ad un suo amico, un tizio che gesticolava e parlava in maniera logorroica, un tantino troppo effeminato per i miei gusti.
Per almeno un’ora non avevo fatto altro che cercarlo con lo sguardo, con un moto involontario, e alla fine ci eravamo ritrovati al bancone.
Volevo semplicemente una birra da sorseggiare e poi contavo di tornare a casa;  avevo perso di vista il mio gruppo ed ero stanco.
Lui era scivolato lì, accanto a me, si era appoggiato ad uno degli alti sgabelli, comparso dal nulla e silenzioso come una pantera.
Mi chiese da dove venivo, dove andavo e, con una risatina che mi fece arrossire e irritare, se sapevo dove mi trovavo. Infastidito,  gli risposi che lo sapevo perfettamente e che ero venuto con amici.
Quando mi rivelò che era un locale gay ammutolii imbarazzato. 
Maledissi i miei amici per le loro stupide trovate, pensai che il ragazzino volesse attaccare bottone con me e sperava che ci stessi. Borbottai scocciato che non ero gay e che, quando ero entrato, non lo sapevo.
“Lo so, tesorino, ce lo hai scritto in faccia.”
fu la sua risposta laconica e affettata. Aveva una voce annoiata, quasi petulante, languida.
Si fece offrire da bere e bevvi anch’io. Dopo aver buttato giù un’altra pinta, già brillo, feci per andare in bagno e lui mi seguì.
Ricordo che lo strinsi contro le piastrelle nere del bagno, sudice,  e osservai quegli occhi verdi e brillanti, da strega, che ghignavano, e in fondo a quelle pupille ardeva una luce strana: trionfo, di chi sa di aver vinto il gioco.
Si appiattì contro il muro, lentamente mi si strusciò contro, come un soriano si abbarbica alla gamba del padrone, suadente.
Realizzai a stento che era la mia prima volta con un uomo,  forse avrei voluto sentire paura, inquietudine ma quello che mi spaventava era invece il desiderio che brillava nei miei occhi, che vedevo riflessi nei suoi come in due specchi d’acqua.
Mi sentii rabbrividire quando lentamente il suo dito percorse il mio collo e scivolò sul petto.
Ripassò più volte quasi mi invitasse ad abituarmi al suo tocco mentre la sua espressione era mutata, più rassicurante, intima e quasi innocente, se è possibile.
“N-non posso….pagarti…io…”
Mi sentii mormorare e lui mi riservò un’altra risatina, stavolta quasi comprensiva, mentre dolcemente lasciava scivolare il suo ginocchio fra le mie gambe semi aperte.
Accusai il colpo, mi irrigidii e con impeto lo schiacciai di nuovo contro il muro, strofinando il bacino contro il suo. Cercai le sue labbra e le trovai appiccicose;  sapevano di ciliegia, rosse come la ciliegia.
Lui rispose accarezzandomi il palato con la sua lingua, morbida e scivolosa.
Non volli rimanere lì, quel posto era fetido e c’era un gran traffico di uomini, coppie che limonavano o semplici malcapitati che cercavano una cabina bagno libera, senza speranza.
Lo portai nell’unico posto che ritenevo sicuro: casa mia.
Fui doppiamente in imbarazzo quando mi accorsi di non avere preservativi e non ricordavo ce ne fossero nel bagaglio.  Lui, con naturalezza, aveva allungato una mano per afferrare il jeans, mezzo rivoltato, che giaceva per terra, e  ne aveva cacciato fuori uno dalla tasca.
Mi informò poi, candidamente, che ne aveva altri tre, se ne avevo bisogno e io distolsi lo sguardo come un ragazzino beccato dalla madre a leggere playboy sotto il letto a lume di torcia.
Lo avevo scopato sul letto, il mio primo uomo.
A ripensarci mi sentii quasi a disagio e rimasi a fissare il soffitto per un po’, in trance, cercando di cancellare il sapore di notte che mi inaridiva la bocca. 
Poi mi alzai, recuperai i boxer e i pantaloni a rigoni del mio pigiama.  Rovistai nella valigia alla ricerca di una maglietta pulita e ricordai a me stesso, a mezza voce, di passare in lavanderia.
Improvvisamente sentii la porta del bagno che si apriva con un familiare cigolio e mi girai istintivamente, stupito e quasi allarmato.
Vidi apparire lui, quello della sera prima, con addosso solo i suoi jeans a vita alta, sbottonati e con la zip aperta, che gli cadevano addosso, troppo larghi.
Sembrava che le sue forme fossero troppo minute per riempire il rude modello da uomo della Levi’s.
In mano stringeva un tubetto di lucido con cui si era ritoccato le labbra, rosse e piene come ciliegie.
Mi dava le spalle e così ne approfittai per osservarlo meglio, per ricordare quel corpo che avevo palpato, con cui però ora non sentivo nessuna familiarità.
Era basso, me lo ricordavo, per far coincidere i nostri bacini avevo dovuto abbassarmi, ed era sottile di vita e di fianchi, come una donna, cosa che mi aveva messo molto a mio agio. In realtà la sua magrezza mi aveva quasi preoccupato, e, in qualche raro momento di lucidità avevo temuto di schiacciarlo troppo, di fargli male. Non mi era sfuggito il suo gemito di dolore quando gli ero affondato dentro e mi aveva stretto i polsi con violenza, come se volesse trattenere la mia irruenza.
Sul momento non avevo capito, mi ero risentito di questo suo atto di ribellione e, con un ringhio, avevo continuato a spingere, strappandogli un grido di dolore.
Intravidi sulle sue labbra i tagli dei morsi che si era procurato allora e, istintivamente, mi accarezzai i dorsi delle mani in cui lui aveva piantato le sue piccole unghie laccate di nero.
Seguii i suoi passi fino al vistoso impermeabile argentato che aveva abbandonato su una sedia dal cui tirò fuori un pacchetto di sigarette; in quel momento vidi le sue scapole sporgenti avvicinarsi, la colonna vertebrale, a fior di pelle, incurvarsi e il suo fondoschiena fare mostra di sé.
In quel momento pensai che non aveva molto delle dolci curve di una donna, aveva tratti spigolosi, forse le fattezze di una modella brutta, dalle guance scavate, le ginocchia secche, sui trentotto chili.
Cos’era allora che mi aveva affascinato la sera prima?
Non seppi spiegarmelo e mentre ci provavo lui finalmente si girò verso di me e mi squadrò dall’alto in basso, per quanto gli consentiva la sua piccola altezza.
Mi gelò e, per un attimo, rimpiansi di non aver finto di dormire e di non aver aspettato che se ne andasse di casa indisturbato.
Poi il suo volto si raddolcì, come rassicurato, e con un gesto fluido e sicuro, a modo suo elegante, sfilò fuori una sigaretta dal pacchetto abbandonandolo sul tavolino, vuoto. Soffiò e la accese, ispirando a fondo una prima boccata.
Avrei voluto chiedergli di uscire, ho sempre odiato il fumo, fin da quando ero bambino;
fuggivo mio padre e il suo alito puzzolente, quando tornava dalla campagna dove lavorava e, in una sera, consumava un intero pacchetto di sigarette, a volte anche due. Era un uomo nervoso mio padre, insoddisfatto, non del suo lavoro o della sua famiglia, di qualcosa, e né io né la mamma riuscimmo a scoprirne il perché.
Di sera, dopo cena, si chiudeva in un mutismo fatto di lunghi sospiri e profonde boccate di fumo e teneva le finestre chiuse finché l’aria non si faceva pesante, quasi irrespirabile.
Una sola volta mi era capitato di rimanere con lui in quella camera a gas, appena undicenne, e da quel momento ero sempre fuggito via, in camera mia.
Da allora avevo sempre evitato i fumatori, avevo costretto tutti i miei amici a non fumare in mia presenza se non in spazi molto ampi e ad una distanza ragionevole dal mio naso, lo stesso avevo fatto con le mie ex e l’ultima, che avevo appena lasciato dopo tre anni di fidanzamento, aveva persino smesso di fumare grazie a me.
Eppure non ebbi il coraggio di chiedere ad un perfetto sconosciuto con cui avevo scopato la sera prima di spegnere la sigaretta, tanto più che mi sentivo a disagio, nei miei tremendi pantaloni a righe, e non sapevo cosa dire.
Decisi di dare voce ai miei pensieri con un tono che mi suonò tremendamente sciocco e puerile:
“Non pensavo che saresti rimasto a dormire.”
“Erano solo poche ore, dovevo passarle in qualche modo.”
rispose, masticando le parole e con loro il filtro della sigaretta che gli scivolava fra i denti.
Rimanemmo in piedi, lui a guardarmi, io a sfuggire i suoi fari verdi animati da una punta di divertimento.
Cominciai a chiedermi stupidamente cosa lo aspettasse una volta fuori dal mio appartamento, e dalla mia vita perché sapevo che non lo avrei più incontrato, chi fosse, se lavorava o se studiava, come mi sembrava più probabile. Mi venne anche lo scrupolo che potesse essere minorenne, aveva le fattezze di un diciassettenne e cercai una smentita tornando a fissarlo, ansioso.
Non so come, sembrò afferrare al volo il motivo della mia agitazione:
“ho ventidue anni.”
lo guardai incredulo, non sapendo se credergli. Forse si prendeva gioco di me sebbene non ci fosse traccia di ironia nella sua voce melliflua.
A corto di idee, cercai di intavolare una conversazione nel più banale dei modi:
“Non ci siamo presentati. Sono Andrew. E tu…”
“Pensavi che fossi una puttana?”
Ammutolii ancora una volta, mi sentii bruciare in volto per la vergogna e mi immaginai paonazzo, cosa che mi fece arrossire ancora di più.
Aveva letto i miei pensieri con una precisione sconcertante e per un momento ero tentato di rispondergli con sincerità. Temetti di averlo offeso eppure lui sembrava rilassato, assolutamente a suo agio, mentre finalmente muoveva a passo deciso verso il letto e si andava a sedere sul bordo.
“Scusami, non volevo offenderti…”
“Non mi hai offeso. Ogni tanto capita.”
Da come lo disse sembrò quasi che ci fosse abituato, che gli capitasse quasi tutti i giorni.
Lo osservai per un po’ fumare a grandi teatrali boccate, le gambe accavallate, la schiena rigidamente eretta, piegando graziosamente il collo a destra e a sinistra mentre percorreva con sguardo vagamente interessato i quadretti a fiori attaccati alle pareti, qualche acquerello di poco valore di un canale veneziano, un paio di vasi di gerani semi appassiti sulla finestra con le tendine bianche e merlettate. Di mio non c’era nulla, solo qualche libro di economia, un manuale di statistica e contabilità, una calcolatrice scientifica e una matita appuntita, tutto appoggiato sul piccolo scrittoio a muro, subito sotto la finestra.
Era tutto anonimo, ordinario, noioso. La mia vita era noiosa, a lui era bastato uno sguardo per capirlo, quanto a me, erano serviti ventotto anni e quelle poche ore per constatarlo.
Non mi dette il tempo di dirgli neppure una parola. Non saprei spiegare come me lo ritrovai davanti, a pochi centimetri dal mio viso, con la sigaretta semi consumata fra le labbra che mi solleticava il naso, volevo starnutire. Non rispondevo più della mia bocca che rimaneva lì, semi aperta, mi sentivo un perfetto idiota e la saliva mi schiumava in gola;  dovetti ingoiare tutto, lo starnuto e la saliva.
“Me la tieni un istante?”
mi domandò con una dolcezza insinuante e avvicinò la sua bocca alla mia che si spalancava meccanicamente. Appoggiò delicatamente il mozzicone fra le mie labbra che si chiusero a stringerlo per evitare che la cenere mi bruciasse la lingua. Lo sentii aspirare dal filtro e poi una nuvola di fumo mi investì facendomi tossicchiare ma mi sforzai di mantenere la sigaretta fra i denti, di non farla cadere per terra.
Il ragazzino nel frattempo aveva lasciato la presa e si stava infilando la sua maglietta.
L’odore acre del tabacco bruciato mi faceva lacrimare gli occhi e mi dava la nausea ma mi rifiutai di lasciarla andare, forse per dimostrare qualcosa a me stesso o a lui. Ero solo confuso, spaurito, come un bambino, ubriaco senza aver bevuto una goccia dopo sei ore di sonno.
Lui si passò le mani fra i capelli, un caschetto spettinato, cercando di portarli dietro l’orecchio, di mettere a tacere i ciuffi ribelli e i capelli elettrizzati.
Mi salutò con un cenno e, con l’impermeabile indosso, lasciò la camera con la naturalezza di chi esce da casa propria per andare a fare una passeggiata.
Ci misi ancora un minuto per realizzare che se ne era andato e che il fumo mi stava soffocando.
Presi la sigaretta con due dita e, sputacchiando in aria, cercai un cestino dove buttarla.
Infine aprii la finestra per far prendere aria alla stanza e quasi mi sembrò di intravedere la sua figuretta che si infilava nel sottopassaggio della tube, una scintilla d’argento fra il grigio marroncino delle giacche a vento londinesi.




********************


Era la prima volta che rimanevo a casa da solo con Cody ed ero orgoglioso di me.
Il bambino era stato buonissimo, aveva fatto i compiti, non si era rimpinzato di schifezze anzi aveva fatto una merenda leggera, mi aveva raccontato del suo ultimo viaggio a Parigi con la mamma e mi aveva avvisato che sarebbe arrivato il papà a prenderlo per passare un pomeriggio con lui.
Aveva già progettato di andare a pattinare sul ghiaccio e a prendere un gelato, poi sarebbero andati al cinema a vedere un film di pirati, un altro di quelli della nuova serie con Johnny Depp.
Ne avevo parlato con Helena e, dopo una lunga serie di discussioni interrotte, portate avanti nei ritagli di tempo o in orari assurdi, a notte fonda o all’alba, finalmente lei aveva decretato che dovevo conoscere Brian. Non mi spiegavo perché mai avesse ritardato così tanto il nostro incontro, come se temesse che fra noi potesse scoppiare una lite o che tutto potesse andare storto.
Me lo aveva descritto come una persona molto garbata, estremamente educata, amichevole anche se riservata, dai gusti difficili e dagli umori variabili.
Avevo appreso, con grande stupore, che era una specie di rockstar, cantava e suonava la chitarra in una famosa band amata da folle di fan e abbastanza nota a livello internazionale.
Helena mi aveva raccontato come era stata difficile per lei accettare che il marito era spesso fuori, specie durante la gravidanza e che non era riuscito a seguire molto i primi passi di Cody; Brian Molko non aveva tempo per fare il padre.
Lei si era fatta carico di tutto e alla fine aveva avuto tutto: si era conquistata la sua pace, la custodia del figlio, la casa di Londra.
Ma, con grande sollievo, avevo appreso che fra i due correvano ottimi rapporti, che la convivenza era pacifica nei limitati momenti in cui si riuniva la famiglia per amore del figlio, e che Brian rispettava gli orari e le scadenze con una precisione ammirevole.
Sembrava talmente perfetta la loro intesa che qualche volte ero arrivato a chiedermi perché mai si fossero separati.
Molto spesso avevo assecondato il desiderio di Helena di rimandare l’incontro in parte per compiacerla ma soprattutto perché l’idea di incontrare Brian Molko, l’uomo perfetto, mi dava una certa ansia.
E non potevo nascondere, almeno a me stesso, una punta di gelosia quando sentivo la mia nuova compagna parlarne in tono così lusinghiero.
Le avevo strappato la promessa che, per il primo incontro lei ci sarebbe stata e così, quel giorno, lui aveva promesso di venire un’oretta prima che iniziasse il film, giusto per scambiare due parole.
Ebbi un fremito quando udii lo scampanellio della porta e Cody abbandonò la nostra partita a scarabeo per andare ad aprire la porta. Io attesi ancora qualche minuto, in ascolto.
Lo sentii esclamare con entusiasmo “mamma!” e poi “papà” e udii la voce eccitata, quasi infantile di Brian che lo chiamava amorevolmente per nome e lo sollevava da terra deliziando il bambino.
Ritenni di aver concesso loro abbastanza tempo per i saluti e mi avviai rapidamente all’ingresso per fare la mia parte.
Brian distolse la sua attenzione dal figlio, gli occhi ancora brillanti per la gioia e mi sorrise apertamente, con grande cordialità e simpatia, cosa che mi fece subito una buona impressione.
Ma quando osservai meglio quel verde brillante il sorriso svanì rapidamente dalle mie labbra lasciandomi basito. Mi parve di conoscere quegli occhi, come se richiamassero un verde altrettanto intenso, ma troppo lontano perché potessi ricordarmi dove lo avevo veduto.
Erano simili ad un profumo esotico che si affaccia alla memoria ma che la mente è incapace di ricostruire.
Helena per un attimo aveva osservato la scena con sollievo poi, allarmata dall’ombra sul mio volto, aveva invitato Brian a sedersi in salotto dove Cody lo attendeva, smanioso di mostrargli i disegni fatti con i pastelli ad olio nell’ultima settimana.
Io li avevo seguiti tremendamente inquieto e Molko aveva elegantemente glissato sul mio strano comportamento sorridendo e precedendomi in salotto.
Ma stavolta avevo avvertito una sorta di fastidio, lo avevo trovato affettato e cerimonioso, quasi falso.
Ci sedemmo sul divano, Helena si rifugiò in cucina annunciando che avrebbe preparato un thé e aveva invitato Cody a seguirla per preparare i vassoi di biscotti.
Il bambino, un po’ a malincuore, attirato solo dalla prospettiva di muphins e altri dolcetti, ci aveva lasciati da soli, a tu per tu.
“E così lei è Brian.”
“Il padre di Cody, si. Per piacere diamoci del tu.
 Tu sei An…forse Antony? Devi scusarmi, ma non ricordo il tuo nome.”
“Andrew. Andrew Packard.”
“Pensavi fossi una puttana?”
“Si”  mormorai convinto, rispondendo alla voce di lui che risuonava come il suono attutito di un gong.
“Cosa?” Brian mi scrutava con uno sguardo interrogativo, sinceramente all’oscuro di quanto mi stesse accadendo.
Io per conto mio continuavo a sentire la sua voce che parlava e ripeteva quelle poche parole come un eco lontano. Sentivo montare l’agitazione ma mi sforzai di rimanere calmo e tranquillo, gli regalai un sorrisino tirato mentre conficcavo le unghie nel cuscino del divano, di fianco alla mia coscia, dall’altro lato e al riparo dal suo sguardo.
“Scusami, non volevo offenderti…”
“Offendermi? E perché mi avresti offeso?” ridacchiò lui in risposta, ma ancora una volta il suono di quella risata mi sembrò quanto di più falso e artificioso ci fosse sulla faccia della terra.
Cominciò ad invadermi la nausea, sentivo odore di fumo, un fumo soffocante che mi terrorizzava, ingoiai ancora una volta sperando di cancellare uno strano sapore amaro che mi insudiciava la bocca.
Mi costrinsi a sorridergli per sdrammatizzare ma mi uscì  solo una risatina isterica, che smascherava il mio malessere. Vidi Brian farsi più vicino, con aria preoccupata, mentre smetteva la maschera di allegria, vidi le sue sopracciglia inarcarsi ma alla sua faccia apprensiva si sovrapposero altre immagini, noia, apatia, malizia, sottile divertimento. 
“Ogni tanto capita, eh?”  commentai e sentii un fondo di amarezza in quelle parole.
Non capivo perché ma quest’uomo mi dava la nausea.
Ormai ero praticamente certo di averlo già incontrato anche se lo ricordavo ragazzino, saranno stati almeno vent’anni fa. Lui recepì il messaggio perplesso, come era naturale che fosse; non gli ricordavo nulla.
 “Sigaretta? ” proposi e lui accettò con un cenno. Poi, mentre mi alzavo a recuperare il pacchetto di Helena dalla mensola in alto  - troppo in alto perché Cody potesse raggiungerlo, come d’accordo – commentò, cercando di dare una parvenza di normalità alla nostra conversazione.
“Helena mi aveva detto che non fumavi.” Notai che si rilassava, accavallando le gambe – sottili, da donna, me le ricordavo ancora più magre! –  distendeva la schiena e stendeva le braccia larghe sui cuscini – il colletto della camicia sbottonato, il collo bianco, le clavicole, un tempo tanto evidenti, scomparivano- .
Risposi prontamente, con una sicurezza feroce come se lui volesse o potesse veramente contraddirmi:
“Infatti la sto offrendo a te. Tu fumi.”
“Te lo ha detto Helen?”
“No.” Rise, divertito, come se gli avessi appena raccontato una storiella e io sorrisi educatamente cercando di non indugiare troppo sui tratti del viso  – un tempo più spigolosi, si erano addolciti con l’età –  sulla capigliatura corta, praticamente rasata – erano neri, lunghi e quasi stepposi al tatto, capelli malati, rovinati da un qualche trattamento, una tintura – sulle labbra piccole e rosee, illuminate da un filo di lucido – non c’era traccia delle ciliegie turgide che avevo assaporato – piuttosto finii a fissare la fantasia variegata del tappeto persiano che dava un tocco di antico al design minimale della casa.
“Hai indovinato.” Mentre si sporgeva per prendere il pacchetto.
Finalmente emersero Helena e Cody dalla cucina, a toglierci dall’imbarazzo;  lei portava un vassoio con del caffè, del thé , un bricco di latte e la zuccheriera, il piccolo, un piatto di dolcetti al miele, biscotti al cioccolato o al burro e qualche pasta di mandorle al limone.
“Allora Andy, tesoro, di cosa stavate parlando?”
La sua dolcezza e le sue attenzioni mi riempirono di orgoglio e finalmente cominciai a calmarmi e a schiarirmi le idee. Cody mi invitò a prendere il vassoio di biscotti e non appena ebbe le mani libere si arrampicò sul divano, andandosi a sedere vicino a Brian, stringendosi al suo fianco.
Il padre nel frattempo aveva appoggiato il pacchetto su bracciolo, abbandonando l’idea della sigaretta.
Helena gli versò del caffè, senza zucchero, senza offrirgli nient’altro, un gesto tanto abitudinario che mi fece ripensare a quanta complicità ci fosse fra i due.
Non ebbi il tempo di risentirmi, Brian rispose serenamente, giocondo, accarezzando la testa del figlio e facendogli il solletico sul collo, come si solletica un cucciolo: 
“A dir la verità, ci siamo detti poco.
Per lo meno adesso ci diamo del tu.”
“è già qualcosa”
scherzò Helena e, fra le risate e il divertimento generale, l’atmosfera sembrò finalmente riscaldarsi un po’.



*******************


Ci eravamo intrattenuti circa una mezz’oretta a parlare delle solite formalità, del mio lavoro, del suo, di amici che potevamo aver avuto in comune  – lui sembrava finalmente ricordare qualcosa, forse pensava ci fossimo incrociati in passato tramite amici di amici –  come avevo conosciuto Helena.
Non aveva reagito quando gli avevo parlato del mio primo soggiorno a Londra, a ventotto anni,  dei miei trascorsi di mancato studente a Brixton  – dove ci eravamo incontrati – e  di come avessi messo la testa a posto dopo la morte di mio padre, quando avevo venduto terreno e fattoria, avevo investito in borsa e su qualche talento artistico e adesso gestivo una rete di gallerie d’arte in America e facevo affari in tutto il mondo, con risultati piuttosto soddisfacenti.
Brian sembrò rassicurato dalla mia posizione di benessere economico, come se si fosse posto, come primo problema, la necessità di garantire al figlio uno stile di vita all’altezza del suo, nei suoi giorni migliori.
La cosa mi intenerì ma questo non mi impedì di avvicinarlo, poco prima di uscire, mentre Helena seguiva Cody nella preparazione del suo zainetto in vista di “un favoloso pomeriggio con papà”.
Quando attirai la sua attenzione eravamo entrambi in attesa, nel vestibolo, ciascuno immerso nei propri pensieri. Sparai a bruciapelo, non avevamo tempo da perdere.
“Noi ci siamo già incontrati.”
“Si, lo penso anche io. Ma non saprei dire quando.”  Replicò, pensieroso, tornando ad osservarmi come se questo potesse aiutarlo a ricordare.
“Io mi ricordo.” Buttai lì, sforzandomi di mantenere un tono neutro.
Perché l’idea di dirglielo mi agitava così tanto?
Lui si fece più interessato, sinceramente colpito e forse anche preso di sorpresa.
Mi fece un cenno, un chiaro invito a continuare, mentre io cercavo le parole.
“Abbiamo scopato nel mio appartamento, a Brixton.  Era giugno. Vent’anni fa.”
“Oh, e faceva bel tempo?” cercò di sdrammatizzare dinanzi alle mie affermazioni dette con la serietà profetica di un oracolo.  Mi sentii in dovere di ridacchiare, ancora una volta non del tutto sincero.
“Questo spiega tutto” aveva poi commentato, tranquillamente, come se gli avessi raccontato di un picnic con Helena e il piccolo la prima settimana maggio.
“Tutto cosa?”
“Non potrei mai ricordare tutti quelli con cui ho scopato.” Aggiunse con naturalezza e accolse Helena e il piccolo nel vestibolo con un incantevole sorriso, alieno da spacconaggine o derisione.
Cody subito sgusciò via, infilò la porta di casa e si precipitò giù per le scale, giocando a rincorrere l’ascensore che scendeva lentamente.
Lui fu più rapido di me; aiutò la mia donna ad infilare il cappotto con delicatezza, con la sua solita eleganza varcò la porta lasciando che fossimo noi a chiudere, chiamò l’ascensore e ci precedette, avviandosi per le scale. Helena dovette richiamarmi, dovevo avere davvero un’espressione stupida sul volto:
“Direi che è andata bene.” Commentò, sollevata.
“Oh si” riuscii a mugugnare io.
 Brian Molko, l’uomo perfetto.


“Me la tieni un istante?”



Disclaimer

soggetto inventato, personaggi che non corrispondono assolutamente alla realtà, tutto frutto della mia fantasia, tanto per cambiare.

Non ci lucro sopra, altrimenti adesso non starei qua.




Angolo dell'autrice


Titolo adattato da una splendida canzone di Lou Reed "Perfect Day" che consiglio a tutti.
Soggetto non molto originale, scritta a notte fonda come vuole mater nostra ispirazione (tanto per essere romantici, solo un pochino), davvero nulla di speciale e forse troppo pathos.
Poi, in fondo in fondo, sono contenta di averla scritta.
è un tentativo di rappresentare  un Brian "idealizzato", come commentavamo con la Nai , uno di quelli che mi hanno affascinato e che continuano ad affascinarmi in questa sezione.
Chissà se sono riuscita nell'impresa...

Neal C.

  
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