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Autore: candycotton    07/05/2012    0 recensioni
La luce illuminò un volto, con un sorriso divertito che pareva non doversene andare mai, stampato sulle labbra, rosse e leggermente carnose. Occhi azzurri e vispi vagavano sulle facce dei presenti. Capelli biondo spento gli incorniciavano il volto.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Secondo.

 

 

 

 

Toc Toc.

Due colpi secchi gli fecero aprire gli occhi, di scatto. Ansimò e si guardò attorno. La sua stanza era buia. Alzò un braccio e accese la piccola lampada da tavolo. Socchiuse gli occhi per la luce, fastidiosa, da appena svegliato qual era.

Mugugnò, seccato.

“Avery, sono Celina, ti ho portato la colazione”, disse la voce della ragazza che faceva da aiutante della signorina Wighby, dall’altra parte della porta.

Avery lasciò cadere il capo all’indietro, sui cuscini e richiuse gli occhi.

“Sto entrando…”, fece Celina.

Quando lo vide, ancora sotto le coperte, stanco e mezzo addormentato, Celina restò a fissarlo con il vassoio in mano. Poi avanzò verso di lui, sedendo sulla coperta sgualcita.

“Non è un po’ presto…?”, mormorò Avery, con gli occhi mezzi chiusi.

Celina lo guardava, comprensiva. “Mi dispiace, la signorina Wighby…”

“La vecchia strega, c’è sempre lei di mezzo”, farfugliò lui.

“… mi ha detto di portartela adesso”, concluse Celina, cercando di trattenersi dal ridere, indicando con un cenno del capo il vassoio della colazione.

Avery si alzò, appoggiandosi sui gomiti. Guardò Celina, che ricambiò con un sorriso. Poi fece scivolare la sua attenzione al vassoio. In effetti un po’ di fame ce l’aveva. Allungò una mano a prendere il toast rancido imburrato e se lo ficcò tra i denti. Lo masticò con una smorfia.

“Sì, fa schifo lo so”, fece Celina.

Avery continuò a mangiare, fissandola negli occhi ad ogni smorfia.

“È stato davvero un gran bello spettacolo, comunque”.

Avery vide le sue guance arrossarsi, sotto la luce della lampada. Gli venne da ridere, e ricomparve quel suo consueto sorrisetto. Si tirò su a sedere e terminò di consumare il pasto.

“Fai i complimenti alla cuoca da parte mia”, scherzò, mentre si alzava.

Celina si fece da parte goffamente, un po’ imbarazzata. Cercò di guardare da un’altra parte, quando si accorse che Avery indossava dei calzoncini corti.

Lui parve accorgersene, si infilò i pantaloni, senza smettere di ridere.

“Be’, che stai facendo? Non avevi sonno?”

Avery scrollò il capo. “Ora non più. Mi dispiace, è tutta colpa tua”. Le andò vicino, ridendo, e le sfiorò il vestito, poi si allontanò di nuovo e uscì dalla stanza.

Celina rimase per un lungo istante immobile dov’era. Lo fissò, con il vassoio in bilico tra le dita. “Dove stai andando? Non puoi uscire di qui, Avery”, gli ricordò, aggrottando la fronte, confusa.

Lo seguì nel corridoio.

“Vuoi controllarmi anche mentre sono in bagno?”, Avery le inviò un altro dei suoi ambigui sorrisi.

Celina abbassò il mento. “Il tempo di riportare questo in cucina”, disse alzando il vassoio.

Avery annuì e si fiondò in bagno.

Celina tornò dopo una manciata di minuti, e nel corridoio, di Avery non c’era nemmeno l’ombra. Si appoggiò allo stipite della porta della sua stanza e aspettò che uscisse dal bagno. Si chiedeva se la signorina Wighby non lo facesse apposta a ordinarle di controllarlo.

La Wighby era sì un po’ rincitrullita, ma era strano che non avesse capito quello che c’era nell’aria. Era più che evidente che Avery era piuttosto ricercato, ma non rendersi conto che a lei piaceva, doveva proprio essere tonta. Celina scrollò il capo e in quel momento la porta del bagno si aprì; Avery tornò in camera sua.

Si mise sul ciglio della porta, mentre Celina era sul ciglio opposto, dalla parte del corridoio.

“Mi lasci qui così?”, si lamentò lui.

Quanto si divertiva a prenderla in giro in quel modo? Parecchio, di sicuro parecchio, data la sua espressione.

“Devo tornare dalla Wighby”, rispose lei.

“Non ho alcuna speranza, eh?”

Celina scosse il capo, dispiaciuta.

“D’accordo, mi arrendo”.

Celina gli accennò un sorriso fiacco, e lo salutò con un cenno della mano. Chiudere la porta con un giro di chiave gli parve un’idiozia.

 

 

Avery si bloccò un istante, per guardare la sua camera. Ormai la sapeva a memoria, dopo tutte le volte che ci aveva passato chiuso dentro, in punizione.

L’armadio grande, la scrivania di legno, tagliuzzata e consumata in modo ormai irrecuperabile, il letto stipato addosso al muro, che all’inizio gli era parso così scomodo ma a cui poi aveva fatto l’abitudine, la finestra, bianca a quadrata, che era la cosa che più gli piaceva, perché gli permetteva di guardare fuori, gli permetteva di sperare in qualcosa che andasse oltre quelle quattro dannate mura.

 

 

Celina sospirò, una volta arrivata nella modesta cucina. “Ho fatto, signorina”.

Cecilia Wighby si voltò verso di lei, con le sopracciglia arcuate e la squadrò in un istante, poi mugugnò qualcosa in segno di assenso.

“Non crede che sia tempo sprecato, in questo modo?”, disse Celina, inclinando il capo.

La Wighby la guardò alzando un sopracciglio. “Di cosa stiamo parlando, Celina?”, chiese, rivolgendosi a lei come se stesse conversando con una povera imbecille.

“Delle punizioni che impartisce ad Avery, se ogni volta ripete i suoi errori significa che non sono molto utili”.

La Wighby arricciò le labbra. “Se non sono molto utili è perché Grover è soltanto uno stupido che trova ogni modo per apparire migliore e superiore agli altri”.

Celina abbassò il capo. “Lo punirà a vita, se continua così”, mormorò.

Cecilia le arrivò un’altra occhiata sprezzante.

“… signorina”, si affrettò ad aggiungere lei, come per alleggerire il tono.

Sebbene l’espressione di Cecilia Wighby era profondamente dura e composta, i suoi occhi furono per un momento attraversati da un lampo di incertezza.

 

 

Avery scese dal letto, in seguito ad una serie di colpi di nocche alla porta. Ci si schiacciò contro, piegando la testa di lato.

“Avery”, sussurrò qualcuno dall’altra parte.

Avery sorrise. “Frank, che stai facendo?”

“Porto buone notizie, amico”, rispose Frank, sghignazzando.

“Ehi Avery, tutto bene da quelle parti?”, un’altra voce, più calma si aggiunse a quella agitata di Frank.

“Una meraviglia, Louis”, rispose Avery, ironicamente, senza smettere di ridere.

“Aha, e ora andrà ancora meglio”, continuò Frank. Mugugnò, infastidito in seguito ad una spinta di Louis.

“Che sta blaterando, Louis?”, fece Avery, aggrottando le sopracciglia, divertito.

Non ricevette risposta. Dalla fessura sotto la porta apparve una busta bianca, un po’ spiegazzata e aperta con uno strappo secco e irregolare.

Avery la raccolse a l’aprì. Dentro c’era un foglietto giallo, riempito da una scrittura fitta ed elegante.

Avery lo lesse velocemente e gli scappò da ridere. “Che roba è?”, chiese, per averne conferma da loro.

Frank, dall’altra parte, ridacchiò come una iena, e Louis gli intimò di chiudere la bocca.

“Le belle ricche danno una festa per l’anno nuovo e una certa tu-sai-chi ha invitato un certo… tu-sai-chi”. Frank scoppiò ancora a ridere e Louis gli diede una botta sulla nuca, a giudicare dal suono secco e dall’esclamazione di Frank.

“È un invito di Olivia?”, esclamò Avery, sgranando gli occhi.

“Uuuuuuh”, fece Frank.

“Se non te la finisci ti tappo la bocca con lo sturatore del water”, accennò Louis che stava perdendo un po’ della sua naturale indifferenza.

“Wow, Louis non puoi non andarci”, continuò Avery, cercando di rimanere serio abbastanza per parlare.

“Infatti non ha mica intenzione di farsela scappare, il nostro Louis”, ghignò Frank, rischiando di prendersi un’altra botta. “Ma il bello è che può portarsi dietro i suoi cari vecchi amici, una volta tanto!”

Avery sgranò gli occhi, ancora. “Dici davvero?”

“Certo, amico. Ma l’hai letto quel biglietto?”

Avery lo scorse di nuovo, nel p.s. Olivia diceva chiaramente: porta pure i tuoi amici, se ti va.

“Non è geniale?”, riprese Frank.

“Sì che lo è”.

“Oh, io non vedo l’ora. Ma ci pensi Avery? Un mucchio di ragazze belle e ricche che ci invitano ad una loro festa… belle… ricche…”, gorgheggiò Frank, con la testa ormai persa nel mondo dei sogni.

“Già, peccato che io non possa venirci”, disse Avery, afflitto.

“Come? Perché non puoi venirci?”, il tono di voce di Frank si ristabilizzò, tornando alla normalità.

“Sono chiuso qui in punizione, ricordi? A meno che non sia tra una settimana…”

“Be’, io credevo avessi già pensato ad un piano per uscire di là”, borbottò Frank, quasi deluso.

Avery piegò le sopracciglia. “Ragazzi, credo che dovrete andarci senza di me”, fece scrollando il capo.

“Come? Non se ne parla, Avery, ci servi, senza di te non è lo stesso”.

Avery sorrise amaramente, pensando a cosa alludesse Frank con quelle parole. Ad agganciare le ragazze, ad attirarle, a quello serviva in realtà. Era sempre stata un amicizia un po’ approssimata quella con Frank, lui era un po’ a modo suo, non badava troppo a preoccuparsi degli altri, e cercava il più delle volte di trarre profitto per se stesso; semplicemente quello era il suo carattere e dava modo di pensare ad Avery che se fosse andato avanti in quel modo non avrebbe mai trovato dei veri amici.

“Ehi, Avery, pare a me o stai perdendo la voglia di fare lo scemo e metterti nei guai?”, intervenne la voce tranquilla di Louis.

Avery immaginò di vedere i suoi occhi verdi e l’espressione neutra, l’atteggiamento del corpo calmo e rilassato. Fece una smorfia. Per qualche ragione, e non sapeva ancora quale, Louis lo conosceva fin troppo bene, forse molto meglio di quanto lui conoscesse sé stesso. E questo lo mandava in bestia, perché avrebbe tanto voluto avere quel suo stesso potere.

“Be’, ragazzi… vi farò sapere, quand’è che c’e questa festa?”

“Venerdì! È scritto nel biglietto…”, rispose Frank, che dal tono si capiva si stesse ancora chiedendo se Avery avesse veramente letto o meno quel biglietto. “Se decidi di venire, ricordati che non ci saranno grossi problemi a farti uscire da lì”.

Avery annuì vago e passò indietro il biglietto dalla fessura sotto la porta.

  
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