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Autore: heles_allgood    07/05/2012    4 recensioni
Spin off di un libro attualmente in via di scrittura.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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“Avanti, mi sto annoiando…usciamo Tomi?” piagnucolò Deim, arricciando un boccolo attorno all’indice ingioiellato.
Aveva insistito con ogni mezzo a sua disposizione – minacce, promesse, lacrime, sesso, molto, molto, molto sesso – per trasferirsi a Venezia. Avevano vissuto a Praga per qualche anno, poi si erano spostati a Berlino, dove Deim aveva sterminato l’intera popolazione di un piccolo villaggio a pochi chilometri di distanza dalla città, nel giro di poche settimane, solo per divertimento. Tom si era reso conto della cosa quando era troppo tardi.
O forse se n’era voluto rendere conto quanto era troppo tardi. Inutile dire che, per Deim, si sarebbe gettato tra le fiamme dell’inferno, pur di trasformare quel suo adorabile broncino nel suo sfavillante sorriso in grado di sciogliere un ghiacciaio.
Così, aveva preferito far finta di nulla, e portarlo via solo quando ormai i dubbi si stavano concentrando su di loro.
Si erano trasferiti a Vienna, ma Deim aveva resistito solo poche settimane, poi aveva cominciato a insistere per trasferirsi a Venezia, patria di Giacomo Casanova e città cosi elogiata dal marchese de Sade, un altro libertino da lui tanto esaltato.
Tom si limitava ad ascoltarlo, a sorridere, e a fare soldi per accontentare ogni suo desiderio. In questo modo, almeno così pensava, teneva quella creatura così fragile, ma così speciale, al suo fianco, senza che l’altro si facesse troppe domande. Ammirava il suo coraggio e la sua determinazione, li ammirava dal primo momento in cui lo aveva visto. Era questo che lo aveva fatto innamorare di lui.
E nonostante fossero uniti da più di 200 anni, era ancora questo che gli faceva battere il cuore ogni volta che lo vedeva sorridere, o arrabbiarsi perche non otteneva qualcosa, o dissimilare la propria infelicità.
Deim era viziato, e parecchio, ma era anche capace di sacrifici immensi per le persone amava. Lo aveva dimostrato in diverse occasioni. Deim amava Tom nel profondo. Il loro legame non era solo lo stesso sangue nelle vene. Era la stessa anima divisa in due corpi.
“Allora?” chiese di nuovo Deim, la voce seccata ma petulante.
Tom era immerso nelle sue carte. Nel corso degli anni si era inventato identità diverse, che gli permettevano di camuffarsi amabilmente di volta in volta. A ciò bisognava aggiungere una perfetta conoscenza di inglese, francese, spagnolo, italiano, portoghese, russo, cinese e giapponese, alcuni dialetti arabi e diverse lingue antiche, tra cui l’ebraico, il latino e l’aramaico. Deim si fermava a quelle di uso corrente. Quanto Tom si era proposto di insegnargli un po’ di latino, lo aveva guardato come se gli avesse appena detto che bere sangue di donna fa cadere i capelli, e poi era scoppiato a ridere. Cosi il tentativo di Tom era morto nel nulla.
“Come?” chiese Tom, stralunato, riemergendo dalle sue carte come da una lunga apnea.
Deim si girò verso di lui, continuando ad avvolgersi un boccolo attorno al dito indice, quasi per tastarne la consistenza.
“Ti ho chiesto” disse a bassa voce, scandendo volutamente le parole come se stesse parlando a un idiota “se ti va di uscire”.
La sua voce era diventata suadente come una carezza, così come la sua camminata felina, mentre si avvicinava all’ingombrante scrittoio di legno in quercia, posizionato in un angolo.
Quando si erano trasferiti a Venezia, in fretta e furia come nella migliore tradizione di Deim, avevano cercato casa nello stesso stile. In fretta e furia, volendo qualcosa che accontentasse Deim e la sua voglia di “diverso dalla massa”.
Anticipando lo stile bohemien di circa un centinaio di anni, avevano preso in affitto un attico completamente vuoto, che Deim aveva poi arredato a suo piacimento.
La prima cosa che aveva comprato era stata la scrivania per Tom. Aveva visto quel mastodonte in giro per le vie strette e un po’ buie dove gli artigiani avevano le loro botteghe, e l’aveva pagata quasi il doppio per farsela portare a casa. L’aveva fatta posizionare in un angolo, sotto a una delle tre grandi finestre che illuminavano quello spazio immenso.
Il pavimento era di assi di legno grezzo, ma lui lo aveva ricoperto di tappeti di ogni genere, e aveva provveduto all’illuminazione cospargendo di candele qualsiasi punto libero. Erano ovunque, letteralmente. Ma la loro luce tremolante e calda era meravigliosa, specie quando trasformava la pelle nuda di Deim da bianco latte ad ambra liquida. Tom adorava spogliarlo soprattutto per quello.
E per come facevano l’amore.
Tom si stropiccio il viso, affaticato e un po’ disorientato. “Non saprei Deim. Dove vuoi andare?”
Il suo tono di voce era stanco, proprio come il suo viso. Quei continui spostamenti nel giro di cosi poco tempo, lo avevano sfiancato. Adorava accontentare il suo uomo, ma farlo era una cosa estremamente sfinente. Così come lo era far quadrare i conti ogni volta che ci si spostava da un posto all’altro. Eppure mai una volta che si lamentasse. Per lui, vedere Deim sorridere, era quanto di più bello ci fosse.
Tom era felice anche solo in quel modo.
“Ho voglia di uscire, di farmi ammirare, di andare a una festa, e ballare tanto!” rispose Deim, piroettando felice in giro per il loro appartamento, la voce cristallina.
“Non so dove portarti” rispose Tom, alzandosi in piedi per cercare la sua pipa. Deim odiava quell’abitudine ma la tollerava, visto quando Tom lo viziava.
Quella risposta, però, non gli andava molto a genio.
Lui aveva voglia di uscire, e Tom aveva il dovere di occuparsi di tutto, dal momento che era lui l’uomo. Il compito di Deim era di curarsi della propria persona, e di rendersi sempre bello e affascinante per lui. A lui la scelta della prossima città, dei vestiti alla moda e di come arredare casa. A Tom, invece, i conti da pagare.
Ma il loro rapporto funzionava cosi da 200 anni, ed era più che collaudato. E non si riduceva solo a questo.
Il loro rapporto andava oltre il sesso, i soldi e i conti da pagare. Si sostenevano a vicenda, ma il più delle volte non avevano bisogno di farlo, perché loro due erano una cosa sola.
“Ma possiamo uscire, vedere cosa c’è in giro, cacciare…” le ultime parole se le fece scivolare fuori dalle labbra come se fossero seta su marmo liscio.
Deim adorava la caccia. Era cinico, spietato, e soprattutto senza scrupoli. Tom lo assecondava anche in questo.
Anche se il più delle volte non lo condivideva.
Eppure Tom sapeva essere anche più spietato di lui, se ci si metteva. Cosa che non faceva mai, come se fosse una specie di punizione auto inflitta, per nessuno sapeva quale motivo.
Tranne lo stesso Tom.
“Tesoro…” disse avvicinandosi a lui e stringendolo piano per le braccia sottili “…non mi va di andare a caccia questa sera. Sono ancora piuttosto stanco dopo il trasloco e…”
Per Deim la parola “no” non era contemplabile, né in quel frangente né in altri.
“Ho detto. Che ho voglia. Di uscire”. Tutto era cambiato in lui: il tono della voce, lo sguardo, il colore degli occhi.
“E io no”. Tom non era un novellino, e sapeva come trattare le sfuriate di Deim. Aveva imparato, nel corso degli anni, che non poteva sempre e solo essere accondiscendente. A volte doveva dire di no.
L’unica cosa che ebbe in cambio fu uno schiaffo, che era più simile al tentativo di artigliargli un occhio che ad altro, ma si concluse con 3 righe sanguinolente che partivano dallo zigomo e finivano vicino alla mascella sinistra.
Tom le asciugò con il dorso della mano, fissando il proprio sangue per qualche secondo.
“Giuro che stavolta ti ammazzo” disse con un sorriso, ma a voce bassa e calma. Odiava quando Deim si comportava in quel modo. Ma quando sollevò il viso e vide Deim negli occhi, si dovette mordere la lingua per non aggiungere altro.
I suoi occhi erano neri. Completamente. Non c’era più tracci del suo colore naturale. Erano solo due palle nere.
“Cosa vuoi fare?” sibilò a pochi centimetri dal suo viso.
“Vattene da qui” rispose Tom vedendo lo stato in cui si trovava il suo uomo. Non poteva rischiare la lotta con lui. Non sarebbe imploso il mondo, ma di sicuro non sarebbe nemmeno migliorato.
“Non so se tornerò” urlo Deim, allontanandosi furioso verso la porta. I suoi occhi erano tornati normali, anche se il suo umore era ben lontano dall’essere tranquillo.
“Non importa” rispose Tom, consapevole di far aumentare la sua rabbia, ma di stuzzicare le corde giuste. Deim sarebbe tornato, lo sapevano tutti e due, probabilmente ubriaco o ebbro di sangue fresco, o più probabilmente entrambi.
Deim usci di casa, sbattendo la porta alle sue spalle con una certa forza, al punto che le candele più vicine alla porta di spensero, mentre altre tremolarono per            qualche secondo, ma per fortuna continuarono a far luce.
“Idiota viziato” biascicò Tom, andando allo specchio per osservare il danno. Non era un graffio particolarmente profondo, ma si sarebbe visto il segno per qualche mese. Poco importava, non era cosi grave.
Piuttosto, Deim.
Chissà cosa avrebbe combinato.
In quello stato era in grado di fare le cose peggiori, senza il benché minimo segno di rimorso, ma con solo un estremo compiacimento alla fine delle sue scorribande. Più la sua rabbia era grande, maggiore era la cattiveria che metteva nelle proprie azioni. Era questo a preoccupare Tom. non tanto la dose di perfidia che guidava le sue azioni – anche quello, ma non principalmente quello – bensì il terrore che qualcuno lo potesse prendere. O peggio. Deim era difficile da uccidere, ma niente è impossibile, si sa. E se glielo avessero portato via, lui che avrebbe fatto? Di lui che ne sarebbe stato?
Deim fece le scale di corsa, ignaro di tutte quelle preoccupazioni che gravavano sulla sua testa, senza che nemmeno lo sapesse.
Era quasi buio nell’androne del palazzo, ma la sua vista gli permetteva di vedere i gradini come se fosse pieno giorno.
Dai vetri sottili di coloratissimo cristallo di Murano entravano gli ultimi timidi raggi del giorno, mentre le code della giacca svolazzavano dietro di lui come due piccoli uccellini. I tacchi di cuoio producevano un ticchettio regolare sul marmo, molto simile a quello di una mitraglia, anche se allora non esisteva ancora.
Quando aprì il pesante portone che collegava la corte interna alla strada, fu investito dal calore della luce al tramonto, dallo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato, urla in dialetto di artigiani e garzoni, il guaito di alcuni animali che scorrazzavano liberi lungo le strade senza padrone e il vocio dei gondolieri, che parlavano della laguna e del vento.
Ma soprattutto, erano gli odori a colpirlo.
Il vento leggero che si alzava sempre attorno alle sei di sera, mentre per la popolazione normale era solo una piacevole brezza che interrompeva l’afa estiva, e si portava dietro l’odore salmastro dell’acqua lagunare, per lui era un insieme di profumi, scelte e mistero. Era come una specie di menù.
Se annusava a fondo l’aria, avrebbe potuto dire chi era malato, dove c’erano donne gravide, dove trovare giovanotti freschi o ricche signore ormai anziane.
Chiuse gli occhi, sorridendo, alzando appena il mento per inspirare appieno quella brezza che avrebbe deciso il suo destino per quella serata, mentre il portone si richiudeva lentamente alle sue spalle, con un cigolio sinistro.
Per un momento il mondo si mosse introno a lui proprio come in un film, un’altra cosa che richiedeva ancora qualche secolo per vedere la luce.
In un’altra epoca, uscendo da un altro portone, con i capelli lunghi e sparati in aria e gli occhi pesantemente truccati e jeans e maglietta estremamente aderenti, a quel punto avrebbe inforcato i suoi inseparabili occhiali da sole, ma ancora etra troppo presto anche per quelli.
C’era una festa.
Lo sentiva. Ne poteva sentire l’odore, anche a diverse strade di distanza. Sentiva l’eccitazione che percorreva il sangue degli invitati. Anche il suo iniziò a scorrere più veloce nelle vene, mandandolo su di giri.
Era solo, una festa era in corso poco lontano, aveva fame, ma soprattutto era arrabbiato con Tom. Incazzato nero, per essere precisi. E quando Deim si trovava in quelle condizioni era impossibile. Era capace di tutto. Anche di scatenare un apocalisse, se solo lo avesse voluto.
Quando Tom avvertì il pericolo, era troppo tardi. Si affacciò alla finestra, ma Deim era già scomparso dietro l’angolo. Inutile inseguirlo, perché non lo avrebbe trovato facilmente.
I demoni non sono tutti uguali, esattamente come gli esseri umani. Mentre Tom era in grado di leggere nel pensiero, non era capace di seguire gli odori. Non ce l’avrebbe mai fatta a ritrovare Deim.
Lasciarlo sfogare era la soluzione migliore, quindi tornò ai suoi conti con una bottiglia di vino, e accese il fuoco. Quella casa era sicuramente bella e molto particolare, ma altrettanto fredda e piena di spifferi. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, Deim se ne sarebbe stancato in fretta.
Era solo questione di tempo, come per tutte le sue cose.
Mentre Tom continuava a cercare un modo per far quadrare i conti, Deim zompettava sul selciato di quella città per lui ancora sconosciuta, ma così affascinante nella sua lugubre decadenza.
All’improvviso un’idea. Se si fosse presentato a volto scoperto alla festa, sicuramente c’erano ottime probabilità che qualcuno si ricordasse di lui. Non voleva che lo notassero, perché seppure fosse in una città abituata a trattare con i forestieri, il suo viso era comunque facilmente identificabile come quello dell’intruso.
Quella sera aveva solo voglia di divertirsi tanto. Non voleva problemi di nessun genere. Non se lo poteva permettere.
Quando Tom, qualche minuto dopo, si affacciò alla finestra, in un ultimo disperato tentativo, per vedere se Deim fosse ancora in giro, di sotto non c’era più nessuno, se non qualche passante e alcuni garzoni che se ne stavano finalmente tornando a casa.
“Quello stupido!” esclamò a denti stretti, battendo il pungo chiuso sul davanzale. “Che si fotta” aggiunse, chiudendo di nuovo la finestra. Stupido lui che sperava di far qualcosa per fargli cambiare idea.
Deim aveva girato l’angolo, alla ricerca di un emporio aperto che facesse al caso suo. Aveva deciso di ovviare al suo problema con una mascherina. Non gli serviva una maschera integrale, ne bastava una che coprisse gli occhi.
L’aria della sera, fresca e frizzante, lo metteva di buon umore. La temperatura era incredibilmente piacevole, cosi come era un sogno la laguna, a quell’ora. Migliaia di riflessi rossi sull’acqua, che danzavano al ritmo delle piccole increspature portate dal vento, facendo somigliare il tutto a un immenso falò ballerino. I signorotti, accompagnati da eleganti dame, si stavano già muovendo lungo le vie del centro, per andare a feste e balli e sontuosi ricevimenti, le botteghe chiudevano le porte fino al giorno dopo, e le taverne aprivano e cominciavano a mescere i primi boccali.
Ogni cosa sembrava in perfetto equilibrio con il mondo e Deim sorrideva sereno, camminando per le vie del centro come un turista.
Per puro caso trovò sul suo cammino ciò che cercava.
Era un negozio di abiti da donna, ed entrò senza esitazione. Aveva diversi abiti da donna, ogni tanto si divertiva a indossarli e uscire, mettendo Tom nel più completo imbarazzo.
“Buona sera, signorinella. Tua madre è in negozio?” esordì con la proprietaria, chiaramente ultra cinquantenne, facendola ridere. Quella battuta funzionava sempre.
“In cosa posso esserle utile, audace giovanotto?” disse lei, fingendo di ricomporsi.
“Mi servirebbe una mascherina per coprire gli occhi. Questa sera ho un invito speciale a una festa” disse Deim con fare cameratesco.
“E’ giusto che un bel giovanotto come voi esca a divertirsi” disse lei con tono altrettanto complice.
Deim era semplicemente disgustato, ma continuò a sorridere come se niente fosse.
“Voi dite signora?” chiese, facendo un passo in avanti.
In fin dei conti era solo, ed era giusto ora di uno spuntino.
“Certo, siete un giovanotto molto elegante, e dai modi raffinati. Immagino avrete la fila fuori dalla porta!” rispose lei, accarezzandogli una guancia, il tono fintamente ingenuo.
“Non proprio. Sono molto esigente” il suo tono si era notevolmente abbassato. Lentamente Deim si spostò dietro di lei, scostandole i capelli dal collo. Odiava quella stupida mania delle parrucche. Erano scomode, puzzolenti e servivano solo a nascondere un sacco di sporcizia.
Ma la sua vena, pulsante e calda, era lì, così vicina e invitante, che non sapeva come dire di no.
Era fuori, solo e senza freni, e la notte era giovane.
Affondò i denti senza ripensamenti.
Probabilmente la donna gemette, con ogni probabilità cerco di liberarsi, ma lui non se ne accorse nemmeno. Il suo sangue non era fresco e, soprattutto, non era puro, ma era delizioso in ogni caso, vagamente speziato, e caldo al punto giusto.
Quando si staccò da lei, la sua faccia era irriconoscibile. Gli occhi erano si nuovo completamente neri, gli si era formata una vistosa solcatura proprio al centro della fronte e i canini erano scesi, proprio come quelli dei vampiri.
La lasciò cadere a terra, completamente inerme, due fori profondi sul lato destro del collo, due sottili rivoletti di sangue le scendevano verso la scollatura, per perdersi tra i sui seni, strizzati dal bustino del vestito. Per il resto sembrava morta, ma non lo era. Probabilmente sarebbe rimasta in stato di incoscienza per un paio di giorni, e le ci sarebbe servita almeno una settimana per riprendersi, ma non sarebbe morta.
Non in quel momento, almeno.
“Maledetta vecchia” sussurro, pulendosi la bocca con il dorso della mano. “Merda!” esclamò notando che sulla manica c’erano alcuni schizzi di sangue.
Imprecò in un antico dialetto inglese, come faceva quando era arrabbiato sul serio.
Doveva abbandonare quello splendido completo di sera che Tom gli aveva fatto fare su misura a Praga.
“Maledetta!” urlo più forte, tirandole un calcio nelle costole, che fece sussultare il suo corpo già provato.
“E ora? Come faccio?” chiese al negozio vuoto. Poi si guardò meglio intorno. Era pur sempre in un negozio di vestiti, no? Anche se erano abiti da donna, erano pur sempre abiti.
Ne scelse uno nero, di velluto, con inserti rossi di broccato, e una balza sul davanti che metteva in mostra il tessuto sottostante, un delizioso taffetà bianco con ricami dorati. Le maniche a palloncino arrivavano a coprire tre quarti del braccio, mentre i polsi erano lasciati scoperti.
Infilarsi in un bustino di stecche di balena fu un’operazione più complicata del previsto fatta da solo, ma da lì in poi fu tutta in discesa.
Non aveva trucco, ma la mascherina avrebbe aiutato. Aveva trovato solo cipria e rossetto, che potevano comunque andare, il fatto che fosse vestito da donna, poi, era sicuramente la copertura migliore di tutte.
Aveva il problema dei capelli. Erano sciolti. Una dama che si rispetti non si mostra così. Di certo non aveva il tempo per acconciarli. C’erano delle parrucche in giro, ma il solo pensiero di indossarne una gli faceva venire l’ittero.
Optò per la soluzione più immediata: legarli in una morbida coda con un semplice nastro di seta rossa che aveva trovato in giro.
Aveva anche quello per cui era entrato: una semplice mascherina in pizzo nero che copriva solo gli occhi, ma non il resto del viso. La legò dietro la nuca, stretta abbastanza da non farla cadere, ma non troppo da lasciargli il segno.
Ton non avrebbe dovuto vedere, né tantomeno sapere, nulla.
Si osservò nello specchio per un paio di minuti. Non era perfetto come piaceva a lui, ma era sicuramente un lavoro più che buono, considerate le circostanze.
Per uscire scavalcò il corpo della proprietaria, sollevando in modo piuttosto teatrale la gonna.
“Vecchia megera” sibilo uscendo, camminando rapido sui tacchi. Sulla porta ebbe come un ripensamento, e tornò indietro. Prese un paio di monete e le getto sul corpo svenuto della donna. “Per il disturbo, cara” disse sprezzante, prima di tacchettare di nuovo verso l’uscita.
Ora si che la serata era tutta per lui.
Si diresse verso l’imbarcadero, dove salì su una gondola, che lo portò dritto alla festa.
Uno scalone immenso ricoperto di velluto rosso conduceva a una sala enorme, ricoperta di specchi, grandi candelabri scintillanti appesi al soffitto e persone ben vestite che danzavano elegantemente intorno alla sala.
Deim si guardava intorno come un bambino nel paese delle meraviglie. Gente. Tanta gente. Sangue ribollente a non finire. Sangue per placare la sua rabbia e il suo dolore.
Fu subito avvicinato da un elegante giovanotto, che lo invitò a ballare, più che convinto di avere una bella donna tra le braccia. Era stupendo vedere come gli uomini presenti facessero quasi a gara pur di danzare con lui, tutti convinti che fosse una lei. Era piacevole, lo doveva ammettere. Salire le scale scortato con lo sguardo, entrare in una sala e far girare un sacco di teste, avere contendenti che quasi facevano a botte per avere l’onore di un ballo. Era decisamente piacevole.
Soprattutto se era un modo per farla pagare a Tom. Ma lui era li per altro. La sua rabbia, al contrario del suo orgoglio, non aveva ancora ricevuto piena soddisfazione.
Era ora di darsi da fare.
O rischiava di non fare in tempo.
Si impossessò dei corpi dei due valletti giù all’ingresso, che chiusero il portone con il paletto, mettendosi poi a piantonarlo ritti come due statue, gli occhi completamente neri e inespressivi.
A quel punto poteva concentrarsi sulla sala.
“Gradite qualcosa da bere, madamigella?” chiese il cicisbeo che stava facendo volteggiare il suo vestito sotto i lampadari di fine cristallo.
“Oh, puoi giurarci” rispose lui, cambiando completamente espressione. Il sorriso da creatura ingenua se n’era andato nel giro di una frazione di secondo, per lasciare spazio a una freddezza e a una determinazione senza pari. “Non hai idea di quanto”.
In un secondo gli aveva azzannato la giugulare. In cinque lo aveva quasi completamente dissanguato. In dieci gli aveva spezzato l’osso del collo.
Solo quando volò dal terzo al quarto collo, la gente intorno a lui cominciò a rendersi conto di qualcosa che non andava.
Vedendo la sua bocca sporca di sangue e il suo viso deformato, il terrore si propagò per la sala. I musicisti smisero di suonare, mentre le urla delle donne raggiunsero quasi il livello degli ultrasuoni.
Ma Deim era veloce, sapeva come gestire la situazione, e come usare il materiale trovato sul campo per fare in modo che si rivelasse a suo favore.
Prese il controllo del corpo dei musicisti, che si occuparono di evitare fughe da improvvisate uscite secondarie, mentre lui si muoveva rapido da un collo all’altro, da un corpo all’altro, bevendo e ridendo, di quella sua risata pura e cristallina che faceva rabbrividire il sangue.
Non ci mise molto.
In 40 minuti non era rimasto più nessuno in piedi, a parte i musicisti e i valletti alla porta.
Fece tornare i musicisti a suonare, mentre lui danzava, felice ed estremamente aggraziato, tra i corpi per la maggior parte senza vita, stesi scompostamente sul pavimenti.
La sua aura si era rafforzata al punto che stava urlando di gioia. Nemmeno volendo Tom ci avrebbe potuto mettere molto a trovarlo.
Uscì di casa, quasi controvoglia, per andare da lui. Doveva solo raggiungerlo. Perché aveva paura che si potesse mettere nei guai. Sempre che non lo avesse già fatto.
Quando arrivò davanti al palazzo giusto non ebbe nemmeno bisogno di farsi annunciare. Le porte gli si aprirono di fronte quasi per magia.
I valletti, ancora posseduti da Deim,  indicarono con un cenno la scala al piano superiore.
Tom guardò verso l’alto per un solo istante, poi si apprestò a salire le scale a testa bassa, lentamente, come se stesse accettando, rassegnato, un destino inesorabile. Non notò gli splendidi arazzi appesi ai muri, non sentì la morbidezza del tessuto che stava calpestando, non fece caso alla bravura dei musicisti che accompagnavano la serata.
Nella sua testa scorrevano solo immagini raccapriccianti di quello che aveva potuto fare il suo uomo.
Quando però entro nella sala, rimase colpito, ma soprattutto spiazzato.
Nel mezzo del sala, ricoperta di cadaveri tutto sommato decorosi, visto che sembrava stessero dormendo, c’era una ragazza, che danzava divinamente bene.
“Amore mio!” urlo la ragazza cinguettante, correndogli incontro. “Come sono felice che tu sia qui” aggiunse togliendosi la mascherina, rivelando finalmente la sua identità.
“Deim, sei…sei stato tu?” chiese Tom, incredulo, ancora non tendendosi bene conto della situazione. Deim aveva fatto una carneficina. Sul pavimento si contavano senza problemi almeno una sessantina di cadaveri.
E ovviamente era strafatto di sangue ed estremamente su di giri.
Deim annui in risposta alla domanda fattagli, un sorriso smagliante e fanciullesco dipinto sulle labbra non più ricoperte di rossetto ma sporche di sangue.
Era di nuovo felice. E Deim felice era contagioso. Non potevi non sorridere se lui stava sorridendo. Cosi Tom si fece coinvolgere. Non poteva farci niente.
Deim alzo la mano destra, e con l’unghia incise la pelle sottile del collo.
“Bevi amore mio” bisbiglio a Tom a fior di labbra.
Tom era semplicemente ipnotizzato da quella visione. Il suo sangue era quanto di più dolce avesse mai assaggiato.
“Bevi” ripete Deim.
E Tom non se lo fece ripetere una terza volta.
Uscirono da qual palazzo che era quasi l’alba. Avevano fatto l’amore quasi tutta la notte in mezzo ai cadaveri, ma nessuno dei due sembrava averci fatto troppo caso.
Erano molto più interessati a bere a vicenda il proprio sangue.
Uscirono da quel posto mano nella mano, scomparendo nella nebbia del primo mattino.
Quando furono di nuovo nel loro attico, e Deim si fu tolto quegli scomodi vestiti da donna, disse, quasi contrito: “Credo sia già il momento di andarsene da qui”.
“E dove vorresti andare?” chiese pigramente Tom, già rintanato sotto le coperte.
“Che ne dici delle Americhe?” rispose Deim.
Il suo sorriso nella prima luce del mattino era tutt’altro che rassicurante.
   
 
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