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Autore: Mikaeru    09/05/2012    8 recensioni
John è un bambino delle elementari con il curioso potere di creare, attraverso il solo pensiero, quello che vuole. Si è per ora limitato a giocattoli e animali, ma il suo migliore amico Sherlock lo convince ad allargare i propri orizzonti e creare un essere umano con cui giocare. John, reticente all'inizio, al solito cede, e crea un uomo a immagine e somiglianza di Richard Brook, il cantastorie di un programma per bambini, e lo chiama Jim. Se inizialmente sembra essere andato tutto per il verso giusto, non ci vorrà molto perché John si renda conto del madornale errore che ha fatto.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“Bluebell! Bluebell, stupido coniglio, vieni qui!”
Mentre Sherlock aspettava di interrompere la corsa dell’animale in fondo al giardino, davanti ad un buco nel recinto, John gli correva dietro gridando nella speranza che improvvisamente il cervello del coniglio si sviluppasse e riuscisse a riconoscere il proprio nome. Esasperato dalla corsa, quando gli fu abbastanza vicino si buttò su di lui e lo acchiappò, stringendolo al petto. Il coniglietto azzurro elettrico tremava dalle zampe ai baffi, si dibatteva con le grosse zampe posteriori per cercare di ferire il proprio creatore, così da fuggire e addentrarsi nel mondo. Recentemente tutti gli animali di John mostravano quel desiderio, forse perché era John stesso a fantasticare di lunghi viaggi per i mari con Sherlock, che in quel periodo era fissato coi pirati, e lui sentiva sempre di più (sua madre diceva sempre che anche questo fosse dovuto all’influenza di Sherlock) soffocarsi dentro le mura domestiche. Avrebbe voluto vivere in un luogo più avventuroso di Londra. Una foresta, ad esempio. O un villaggio indiano, o l’Isola che Non C’è.
Sherlock si avvicinò, scontento per non essere stato lui a catturare la bestiola in fuga; Bluebell lo guardò altezzoso, irato, come se fosse tutta colpa sua – e in parte lo era, in realtà, ed era per questo che Bluebell stava profondamente desiderando, istintivamente, di saltargli al collo e morderlo per vendicarsi.
“Il tuo coso mi guarda male.”, sentenziò Sherlock. Accennò una carezza alla testa ma prese la scossa prima ancora di toccare il pelo. John, invece, gli stava accarezzando la schiena con piccoli movimenti ripetitivi, e Bluebell batteva i denti facendogli le fusa.
“Sherlock, è impossibile che un coniglio guardi male qualcuno.”
“Il tuo non è un coniglio normale, e quindi è possibilissimo che mi guardi male.”
“Beh, se lo fa c’è un motivo. Ad esempio perché lo hai preso per le orecchie, o perché lo hai messo sottosopra, o perché hai cercato di fargli il bagno.”
“Puzzava di morto.”
Bluebell, indignato come se avesse capito qualcosa, gli ringhiò contro, suscitandogli solo uno scoppio breve di risa. Il coniglio aveva gli occhi grandi e scuri e il pelo morbido come quello di una pecora, non era comprensibile come potesse pensare di fare paura a qualcuno.
“Non puzzava di morto! È colpa tua se è scappato, i conigli si spaventano subito. Sono conigli per questo.”
“Non è un coniglio normale, credevo non succedesse. Dovresti crearli più intelligenti e meno paurosi.”
“A me piacciono così. Sono carini anche se sono stupidi. E poi se li creassi più intelligenti andrebbero in giro per casa e la mamma mi scoprirebbe, o comunque mi sgriderebbe perché prendo animali in casa quando non posso farlo. Lo vuoi tu Bluebell? Si vede che casa mia non gli piace.”
“Noi li mangiamo e basta, i conigli.”
“Mangeresti Bluebell?”
“Non posso solo perché non è vero. Chissà di cosa sa.”
“Forse sa di me.”
“E tu di cosa sai?”
“Di marmellata, in questo momento. L’ho mangiata prima che venissi.”
“Quindi Bluebell sa di marmellata?”
“Non credo, l’ho creato tre giorni fa.”
“E tre giorni fa cos’hai mangiato, quando l’hai creato?”
Ci pensò un attimo, con gli occhi puntati per terra, mentre il coniglio si calmava tra le sue braccia, come un cucciolo al petto della madre. “Marmellata.”
“Mangi sempre marmellata?”
“La mamma mi fa sempre pane e marmellata per merenda e di solito ho un sacco di fantasia dopo mangiato.”
“Non credo di voler mangiare un coniglio che sa di marmellata, che schifo. E poi non credo che neanche si possano mangiare, i tuoi animali. Il cibo che crei è commestibile?”
“Non ci ho mai provato, di solito tutto il cibo che voglio ce l’ho in casa.”
“Hai una torta con la panna e le fragole, in casa?”
Ci pensò un attimo, facendo il conto di tutto quello che aveva in frigo due ore prima, quando aveva preso un bicchiere di latte, prima che arrivasse Sherlock. “No.”
“Allora prova a immaginarla, che la voglio, così vediamo se è buona.”
“D’accordo. Però proviamo in cucina.”
John mise il coniglio a terra, che li seguì in casa trotterellando.
“Il tuo coniglio è diventato intelligente.”
“Credo che senta il mio odore. Quando sono tranquilli tutti gli animali mi seguono e mi fanno le festa a modo loro.”
“Ma hai detto che casa tua non gli piace.”
“Io non sono casa mia. Quand’è in camera da solo ha più paura.”
“E cosa credi che cambierebbe in casa mia?”
“Che ne so, non sono nel cervello di Bluebell!”
“Okay, okay, basta parlare di conigli, parliamo di torta.”
Sherlock fu il primo ad entrare in casa, superandoli; buttò le scarpe in un angolo del salotto, nonostante la mamma di John avesse ripetuto centinaia di volte di lasciarle sul portico, dopo che avevano giocato in giardino. Almeno John ubbidì. A piedi scalzi andò prima in camera sua, dove lasciò Bluebell a rosicchiare un vecchio mestolo di legno.
“Quanto la vuoi grande?”, domandò John, arrampicandosi sullo sgabello di suo padre, di fronte a quello di sua madre dove sedeva Sherlock, attorno ai fornelli. Per rispondere Sherlock allontanò le braccia dal petto, toccandosi le dita per descrivere un cerchio.
“Così è enorme.”
“Ma ho fame.”
“Se non la mangi tutta devi portarla a casa, d’accordo? Non voglio che la mamma se ne accorga.”
“Mamma dice sempre che il mio stomaco è più grande di me e Mycroft messi assieme, credo che riuscirò a finirla. Posso cenare da te, se non la finisco? Così la mangiamo per cena. Harry è fuori dalla sua amica Charlie e i tuoi non tornano fino a tardi, vero? Vero.”
John sorrise, stupefatto come ogni volta. “Devi avere anche tu i poteri.”
“No, io sono semplicemente intelligente. Muoviti a fare la torta, ho fame. E se non è buona andiamo a comprarla e poi ordiniamo la pizza.”
“Cerca di darmi un po’ di fiducia. Chiudi gli occhi, devo lavorare.”
John si voltò, lo sguardo fisso sul tavolo della cucina. Visualizzò davanti a sé una torta della dimensione voluta da Sherlock, pensò intensamente al sapore della panna e a quello delle fragole e a quello della crema pasticcera tra due strati di pan di spagna. Pensò a quanto se la sarebbero goduta lui e Sherlock, pensò con forza al gusto della torta nella sua bocca e alla sensazione di averne una fetta tra le mani, pensò a come sarebbe piaciuta a lui e a Sherlock, chiuse per un attimo gli occhi e la vide dietro le palpebre e, quando le aprì, la torta era lì davanti a lui.
Quando Sherlock aprì gli occhi aveva un piatto tra le mani e una fetta di torta grossa come la sua faccia da mangiare. John aveva già addentato la sua e aveva tutta la bocca sporca di panna. “È buona” fu l’unica cosa che Sherlock riuscì ad intendere quando il suo amico parlò con la bocca piena. Gli sputacchiò addosso e Sherlock meditò su come sarebbe stata dolce la vendetta a torta in faccia, ma poi pensò che sarebbe stato uno spreco imperdonabile. Gli disse solo che faceva schifo, ma John si limitò ad alzare le spalle.
Addentò un grosso boccone di torta, scoprendo che era buona come l’ingordigia di John aveva fatto intendere.
“Il prossimo passo sarà creare le persone.”, sentenziò Sherlock quando furono seduti sul divano. Aveva allungato le gambe su quelle di John come se fosse un suo diritto inalienabile. John lo lasciava sempre fare, ed era per questo che Sherlock si era abituato a fare di tutto, a trasgredire ogni regola di convivenza e normalità convenuta. Viveva quasi in simbiosi con John che gli permetteva qualsiasi cosa, e lui si era calibrato su quel tenore di vita.
“Non credo di poter creare le persone, Sherlock, è troppo complesso.”, ribatté John, dispiaciuto all’idea di non riuscire a fare qualcosa – o qualcosa che Sherlock richiedeva, non sapeva bene fare la distinzione, ancora. Forse da grande avrebbe imparato.
“Non puoi sapere cosa sai o non sai fare finché non ci provi. Hai dieci anni e le tue capacità sono nuove – beh, circa. Le hai scoperte da sei mesi, circa quasi sono nuove. In fondo sei in grado di fare gli animali, non c’è molta differenza con le persone, alla fine siamo una forma evoluta di animale, il principio dovrebbe essere lo stesso. Non hai fatto qualcosa di diverso quando hai fatto la torta, no?”
“No, ma le persone hanno un’anima, Sherlock, non sono Dio, non posso creare le anime e neppure voglio farlo.”
“Le anime non esistono e Dio è una leggenda al pari delle divinità greche.”
John si limitò a sbuffare; avevano già litigato sulla questione e aveva lo stomaco troppo pieno per poterne discutere ancora.
“Dovresti provarci. Dovremmo creare qualcuno che giochi con noi.”
“Non possiamo chiedere ai nostri compagni di classe di giocare con noi?”
“Se lo volessi sarei già andato a chiederlo, no? Non li voglio, sono stupidi. Dobbiamo creare qualcuno di intelligente, né uno come i nostri compagni, che sono scemi e noiosi, né un adulto, che ci sgriderebbe e non farebbe nessuno dei nostri giochi pericolosi o gli esperimenti.”
Neppure John era particolarmente contento degli esperimenti – dei giochi pericolosi sì – perché finiva sempre con Sherlock che sanguinava da qualche parte, suo fratello Mycroft che li sgridava e sua mamma che lo metteva in punizione (però il giorno dopo era già fuori a giocare; Sherlock diceva che la mamma gli voleva troppo bene per punirlo davvero, e a quel punto John si domandava se sua mamma gli volesse meno bene, perché lei quando lo puniva lo faceva davvero), ma in un modo o nell’altro Sherlock riusciva sempre a trascinarlo con lui. Negli ultimi tempi avevano cominciato a farli lontano da entrambe le case, così John aveva preso l’abitudine di portarsi l’alcool, il cotone e i cerotti nello zaino.
“Dovremmo provarci.”
“Dovremmo? Tu che c’entri? E poi non voglio.”
“Io ti do il supporto morale e l’idea da costruire.”
“Non voglio creare un essere umano, Sherlock, e questa è la mia ultima parola.”
A quel punto, imbronciato, Sherlock ritirò le gambe e le piegò al petto. Tirò fuori il telecomando da un angolo nascosto del divano, tra i cuscini, e accese la televisione, mettendo il muso a John che sembrava aver scoperto una propria individualità. Non gli piaceva quando John non gli ubbidiva subito.
Su Nickelodeon c’erano le repliche dei Fantagenitori che aveva già visto un sacco di volte, ma era preferibile a dover parlare con John. Era stupido che non gli ubbidisse, perché lui diceva sempre cose sensate, utili, intelligenti, perché doveva ascoltare se stesso sapendo di essere in errore? Era stupido, e Sherlock non sopportava le cose stupide.
Si piantò bene nel divano come se volesse rimanerci fino a crescere due metri, come un ramo, nutrito dal copri divano di pelle.
“Ma ti sei arrabbiato?”
Sherlock si allontanò un po’ di più da lui in segno di risposta. Che domanda idiota, fra le altre cose, perché chiedere qualcosa di così evidente? Aveva le sopracciglia aggrottate e le labbra strette, erano chiari segni. Stava diventando già scemo.
John sbuffò e piantò il muso a sua volta, ma il suo non durò che qualche secondo prima che il verme del senso di colpa si infilasse dentro di lui cominciando a strisciare in ogni anfratto. Ogni tanto ci ripensava, a come si faceva fregare da Sherlock, e si arrabbiava con se stesso per essere stato così stupido, ma in quei precisi momenti preferiva sentirsi stupido che in collera con lui
“Non posso creare un essere umano.”
Silenzio.
“Sherlock, non puoi arrabbiarti solo perché per una volta ti ho detto di no.”
Silenzio.
“E poi se anche lo faccio come lo nascondo? È una persona, non un coniglio o un cucciolo di cane! Non sono sicuro di poterlo fare sparire a comando come faccio con gli animali o coi giocattoli!”
Silenzio.
“Sherlock, smettila, non devo fare sempre come vuoi tu!”
Sherlock si strinse di più le ginocchia al petto. Cosmo aveva appena detto qualcosa di molto stupido su cui, la prima volta che avevano visto l’episodio, avevano riso entrambi.
“Sherlock…”
Il tono lamentoso di John e le sue stupide scuse lo stavano irritando molto di più di quanto avesse creduto. Si girò per guardarlo, gli occhi che luccicavano di rabbia, e piantò le ginocchia nei cuscini per avvicinarsi a lui e parlargli il più vicino possibile, affinché le parole gli entrassero ben bene in testa e le capisse tutte, senza lasciarsene sfuggire neppure una.
“Provarci non ti costa nulla, posso essere arrabbiato quanto mi pare perché è uno dei diritti inalienabili dell’uomo, se puoi far sparire uno stupido cucciolo di cane puoi far sparire qualsiasi cosa, facendo quello che dico io non ti è mai successo nulla di male, quindi è stupido che all’improvviso tu non lo faccia più.”
“Ma ho paura! E se poi creo una persona cattiva, o un assassino?”
“Quanto sei idiota! Se pensi di creare una persona buona verrà una persona buona. La torta è venuta dolce perché l’hai pensata dolce, no?”
“Sì, ma una persona…”
“Una persona creata da te sarà come Bluebell, diventerà cattiva solo se spaventata, ne sono certo. Dovresti provarci, solo fare un piccolo esperimento. Per far sparire tutti quei gatti e cani e uccellini hai solo dovuto pensare che dovessero andarsene, no? Sarà la stessa cosa con la persona. Maschio o femmina? Io lo voglio maschio, grande, intelligente come me. Però l’aspetto fisico puoi deciderlo tu. Puoi farlo basso come sarai basso tu da grande.”
“Chi ha detto che da grande sarò basso?”
“Tuo padre e tuo nonno e tuo zio sono bassi.”
“La mamma è alta.”
“Per favore, John. Andiamo in camera tua e proviamoci, d’accordo?”
Sherlock scese dal divano e imboccò il corridoio. A metà si fermò e guardò l’amico con impazienza. “Ti vuoi muovere? Fra un’ora dobbiamo chiamare per la pizza. Io la voglio con i funghi.”
John, con uno sbuffo, si arrese al suo volere. Lo seguì in camera propria, dove Bluebell aveva finito di rosicchiare il mestolo e si stava dedicando ai compiti di John, imprudentemente abbandonati sulla scrivania.
“Stupido coniglio!”, gridò, prendendolo e lanciandolo per terra. Il coniglietto lo guardò offeso e dolorante.
“Io direi di farlo sparire, John. Sta diventando noioso, oltre che dannoso. Ma i tuoi animali lo sono sempre.”
“Non sono ancora così esperto da farli del tutto innocui, okay? La prossima volta li fai tu.”
“Che permaloso che sei.”
“Hai sempre da ridire sui miei animali e i giocattoli e tutto il resto! Rompiscatole!”
Sherlock aveva già iniziato ad ignorarlo dopo avergli risposto. Aveva preso Bluebell per le orecchie e glielo aveva porto. “Tieni, assorbilo.”
“Che schifo, io non li assorbo gli animali!”
“Fai quel che vuoi, basta che lo fai sparire. Sta cominciando anche a perdere pelo, è proprio un fallimento.”
“Ripeto, la prossima volta –”
“Ti vuoi muovere? Non abbiamo tutto il giorno.”
Con uno strattone John prese il coniglio tremante tra le braccia, chiuse gli occhi e visualizzò la camera, se stesso e Sherlock – tutto come al solito, salvo che il coniglio non doveva più esserci. Strizzò le palpebre e le braccia furono più leggere.
“Cominci a metterci meno.”
“Perché mi alleno.”
“Bravo. Ora fai l’uomo.”
“Perché non una donna?”
“Perché le donne sono stupide.”
“Non sono stupide. Tua mamma è stupida, forse?”
“Lei non è una donna, è una mamma.”
“Per essere intelligente hai delle idee molto strane. Comunque lo voglio come Richard Brook.”
“Chi, il cantastorie? È uno di un programma per neonati!”
“A me piace.”, arrossì, “E visto che lo faccio io lo voglio come dico io. E poi non è un programma per neonati.”
Sherlock fece spallucce e si voltò, dandogli la schiena. “Mettiti al lavoro.”
“Forse devo anche decidere come chiamarlo. Forse mi aiuta. Tu che dici?”
“Forse. Proviamo. Come vuoi chiamarlo? Non Richard.”
“Allora James, come mio cugino. Jim.”
Sherlock, per una volta, non ebbe nulla da dire. John si sentiva particolarmente potente quando diceva qualcosa e Sherlock non ribatteva né lo contraddiceva e tutte quelle cose antipatiche che faceva lui di solito. “Vada per Jim. Ora concentrati e fallo.”
John si rilassò completamente mentre chiudeva gli occhi. Pensò al cantastorie, gli tolse la voce, visualizzò unicamente la sua faccia e il suo corpo. Se lo era sempre immaginato alto come suo padre. Lo vestì come suo cugino, coi jeans e il cappellino e la maglietta a maniche corte. Adesso aveva una sua immagine perfetta davanti agli occhi. Pensò che doveva essere intelligente come Sherlock, un po’ di più perché era un adulto, ma non di più di quanto lo sarebbe diventato Sherlock da grande. Cominciava ad avere mal di testa. Visualizzò di nuovo camera sua e Jim in mezzo a loro, a giocare. Avrebbero giocato in giardino con lui. Ai giochi di società. A carte, perché stavano imparando a giocare a poker. Jim sarebbe stato un esperto di poker. E sarebbe stato un cantastorie, come Richard Brook, e sarebbe stato un loro segreto perché non lo avrebbe mai detto a Sherlock che lo avrebbe preso in giro. Gli avrebbe narrato racconti di mostri e draghi e cavalieri, prima di dormire. Lo immaginò seduto sul letto, di fianco a lui, che parlava di avventure di pirati fino a farlo addormentare, quando la mamma era troppo stanca per farlo. Però non voleva che gli accarezzasse i capelli, perché quello poteva farlo solo la mamma. Pensò, poi, che alla sera gli avrebbe detto di sparire, e poi lo avrebbe fatto tornare il giorno dopo, quando sarebbe tornato a giocare con Sherlock. Pensò che sarebbe stato come metterlo in un angolo un po’ nascosto del cervello, poi sarebbe stato facile recuperarlo. Pensò che sarebbe dovuto essere gentile, non come Sherlock che trattava tutti male tranne lui, Jim sarebbe dovuto essere gentile con chiunque – non che avrebbe avuto la possibilità di vedere qualcuno che non fossero loro due, sarebbe stato difficile spiegare alla madre perché un uomo adulto mai visto prima (che assomigliava in modo incredibile a uno della televisione) stava nella camera di suo figlio come se niente fosse, ma non gli costava nulla pensare che potesse essere gentile ed educato, immaginava che Richard Brook lo fosse con chiunque, quindi anche Jim doveva esserlo, visto che aveva la sua faccia doveva portargli rispetto. Immaginò tutto questo e nella sua testa Jim si creò come da un blocco d’argilla, cominciò con una sagoma bruna, poi grigia, poi nera, infine rosa pallido, e da quell’ammasso informe Jim, con la faccia di Richard Brook, si creò, e quando John fu sicuro di averne immaginato ogni particolare, aprì gli occhi e il suo primo essere umano era lì davanti a lui che lo fissava, muto.
Gridò forte per la sorpresa, facendo spaventare Sherlock, perché non ci aveva creduto neppure un secondo, perché non si credeva così forte e abile da arrivare a tanto. Eppure la copia sorridente del cantastorie lo guardava, gli occhi grandi e neri e molto dolci, gli sembravano lucidi, come commossi.
“Grazie.”, pronunciò piano, colmo di gratitudine. John aveva la bocca impastata e non riuscì a rispondere niente, ma quasi sicuramente non ci sarebbe riuscito comunque.
Sherlock fissava a turno Jim e John, sbalordito, così emozionato che sentiva il cuore battere in ogni angolo del corpo, in ogni vena. “Hai visto che ce l’hai fatta, hai visto che avevo ragione?”, esclamò con entusiasmo, tirandogli la manica della maglietta, richiamando l’attenzione su di sé, più contento di aver avuto ragione che della creazione di Jim in sé.
John guardava Jim sentendo una sensazione sconosciuta in fondo allo stomaco. C’era qualcosa di strano e inquietante nel fissare con così tanta insistenza un essere umano che si è creato da soli. Si domandò se la mamma avesse provato la stessa cosa quando lui era nato, per quanto fossero due eventi diversi; quella specie di orgoglio e gioia ma al contempo paura.
“Forse, ma ora non è importante! Dobbiamo chiedergli di fare qualcosa, giusto per essere sicuri che d’improvviso non cada a pezzi o muoia o che ne so.”
“Grazie.”, lo fulminò. “Ehm, Jim?”, domandò incerto voltandosi verso la propria creatura. L’uomo continuava a sorridere, come se non aspettasse altro che un qualche ordine, una qualche direttiva. “Jim, potresti –”
“Non provare a chiedergli di raccontarci una storia, o potrei ucciderti.”
“Stai zitto, Jim è mio, ho tutto il diritto di farci quel diavolo che voglio. E poi tu cosa vorresti chiedergli?”
“Di prepararci un panino.”
“Ma abbiamo appena mangiato!”
“Ho il metabolismo veloce.”
“Non gli chiederò di prepararci da mangiare. Perché non andiamo a giocare a calcio in giardino?”
“Ma abbiamo appena giocato!”
“Non prendermi in giro, deficiente. Jim, vieni a giocare con noi fuori?”, domandò John, infine, allungandogli la mano come ad un fratello più piccolo. Jim annuì e strinse la sua mano tra le dita, seguendolo fuori dalla stanza. Osservava tutto con curiosità, i suoi occhi non stavano fermi nemmeno un attimo.
Sherlock, dietro di loro, lo analizzava al microscopio: camminava bene, sciolto, non sembrava un burattino di legno come invece aveva immaginato, pensava che i suoi movimenti sarebbero stati più meccanici, come se avesse dei chiodi al posto delle giunture, pesanti come quelli del mostro di Frankenstein, e invece sembrava essere sempre stato un essere umano come tutti, non un qualcosa appena creato grazie alla testa di John, ma il vero Richard Brook che era venuto a trovarli. Interessante, incredibilmente interessante. Pensò di chiedere a John che ne creasse uno anche per lui, così avrebbe potuto aprirlo come le rane a scuola e osservare come fosse fatto dentro un sogno solido. Aveva sempre voluto sapere come quelle creature sanguinassero, come fossero i loro escrementi e la loro urina, se piangessero come gli esseri umani e se i loro organi fossero verdi o blu o di un colore fluorescente come ogni tanto erano i mostri dei suoi incubi, ma John non gli aveva mai permesso di sezionarne uno e non gli aveva mai regalato neppure un coniglietto, non se aveva quelle intenzioni, e se gli avesse mentito sapeva che John lo avrebbe scoperto. Fra poco era il suo compleanno, e allora gli avrebbe chiesto quel regalo, una persona o una pecora, e se non lo avesse accontentato avrebbe messo il muso, che aveva compreso essere una tecnica infallibile con John, che temeva tantissimo che le persone fossero arrabbiate con lui. Era il suo punto debole, quello dove Sherlock si aggrappava con le unghie lunghissime quando doveva ottenere qualcosa ad ogni costo.
Mentre John e la creatura uscivano in giardino lui andò a recuperare le scarpe: una era finita sotto il divano e l’altra sotto il comodino all’ingresso, quello dove appoggiavano le chiavi di casa, accanto ad un vaso sempre pieno di fiori, in tutte le stagioni, sia freschi che finti. Quando uscì a sua volta vide che Jim riusciva, goffamente, a giocare a calcio: correva un po’ incerto e non sapeva bene come rubare la palla dai piedi di John, ma chiunque non avesse mai giocato a calcio avrebbe incontrato quelle difficoltà. Sherlock sorrise, enorme, contento che per l’ennesima volta ci fosse la conferma che ci aveva visto giusto, con John, che lui non sarebbe mai stato noioso come tutti gli altri. Senza che John se ne accorgesse, troppo impegnato a guardare Jim, riuscì a rubargli la palla e a fare goal.
Al tramonto, quando cominciava a fare più freddo, Jim entrò in casa improvvisamente, uscendone dopo cinque minuti con un maglione leggero per John, che aveva proprio pensato che voleva qualcosa per coprirsi ma non voleva interrompere la partita con Sherlock. Il bambino si accorse del gesto della sua creatura quando si guardò attorno per vedere dov’era sparito. Lo trovò fermo sul portico, ad aspettarlo come se fosse sua madre – a John la ricordò immediatamente, quando lo vide fermo sul primo scalino, il maglione abbandonato sulle braccia incrociate al petto. Disse a Sherlock di smettere di giocare. Il pallone che aveva lanciato stava rotolando piano fino al muro e lo toccò senza quasi rumore. Corsero verso il portico bianco.
“Oh, grazie, ne avevo proprio bisogno…” ringraziò John, alzando le braccia  così che Jim gli infilasse il maglione. Era il suo preferito, quello a righe larghe bianche e blu. Era stato di Harry, che da piccola aveva sempre prediletto gli abiti da maschio.
“Di niente.”, sorrise
“Come diavolo hai fatto?”, domandò Sherlock interdetto, stupito, sospetto senza rendersene pienamente conto.
“Me lo ha chiesto John.” fu la risposta tranquilla di Jim, che lo guardava come se non capisse il perché di certe domande sciocche.
“Non te l’ho chiesto affatto.”
“L’ho sentito.”
“L’ho solo pensato.”
“Allora Jim sa leggere i tuoi pensieri, John. Siete collegati, in un qualche modo. È normale. Lo sei sempre stato con tutti gli animali.”, concluse Sherlock, sollevato di essere tornato in un campo in cui poteva fare il saccente e il so-tutto-io.
“Sì, ma lui è una persona, Sherlock, è diverso, è… peggio, molto peggio, davvero peggio!”
“Ma stai zitto, per l’amor del cielo. Non c’è molta differenza tra Jim e Bluebell, solo che Jim cammina su due zampe e può veramente fare quello che vuoi. Dovrai solo imparare a controllare un po’ quello che pensi, a fare meno pensieri rabbiosi.”
“Io non faccio pensieri rabbiosi.”
“Non dire idiozie, li sento anche io e non sono collegato alla tua testa.”
John si mordicchiò l’interno delle guance, appena rosse, e corrugò la fronte. “Come controllo quello che penso?”
“Non sono io il bambino con i poteri paranormali, dovrai cavartela da solo.”
“Mi ci hai messo tu in questo casino, tu me ne tiri fuori!”
“D’accordo, d’accordo, ci penserò io! Certo che sei proprio inutile senza di me. E poi perché non pensi al lato positivo? Hai uno schiavo. Lo vorrei tanto anche io. Gli direi di fare un sacco di dispetti a Mycroft, che se li merita tutti, ma quando li faccio io la mamma mi scopre sempre.”
“Non è uno schiavo! È una persona, smettila di parlare di lui come se fosse un oggetto, Sherlock.”
“Sei troppo sensibile, questo non è proprio un potere adatto a te.”
“Sei tu che sei un mostro.”
“Sì, sì, d’accordo, sono un mostro orrendo.”
Prima che potesse ribattere – probabilmente per rafforzare quello che Sherlock aveva detto di sé, ma senza il sarcasmo che aveva usato lui – John sentì il clacson di una macchina. I suoi genitori di certo non usavano il clacson per far segno della propria presenza e non poteva essere nessun loro amico, perché sapevano tutti bene che a quell’ora non erano mai in casa.“Mi sa che è tua madre. Ma non dovevi rimanere a cena?”
Sherlock spalancò gli occhi. “No.”, e li spalancò ancora di più, all’improvviso terrorizzato. “Mi sono ricordato che è il compleanno di papà. Andiamo fuori a cena. E sono tutto sporco! La mamma mi ucciderà, mi aveva detto di stare attento… sono morto. Vado a prendere lo zaino e poi andrò incontro alla morte.”
“Non puoi metterti i miei vestiti? Te li presto, per una sera.”
“No.”
“Perché?”
“Che schifo, John.”
“Spero che tua madre ti cavi la pelle a furia di schiaffi.”
“Non mancherà, immagino.”
Di umore nero, Sherlock filò in camera di John per prendere lo zaino. John, rimasto solo con Jim, si sentiva a disagio, come in una stanza piena di adulti sconosciuti. La sua creatura continuava a sorridere, al contrario perfettamente rilassato. Teneva le braccia molli lungo i fianchi, come un maggiordomo in attesa di direttive.
“Hai… hai fame, Jim?”
L’uomo piegò appena la testa di lato, guardando in alto come cercando la risposta nelle nuvole arancioni. “Un po’. In effetti molta. Mi sembra di non mangiare da quando sono nato.”
“C’è qualcosa che ti potrebbe piacere?”
“Quello che mangi tu, immagino.”
“Allora dopo ti preparo un toast. E poi ordiniamo la pizza, la mamma e il papà tornano tardi.”
Jim sorrise senza aggiungere altro. Sherlock gli corse di fianco, urlando per salutarlo. “Ci vediamo domani a scuola, ricordati di dormire e di non portarti dietro Jim domani!”
“Mi hai preso per un idiota?”
“Sì!”

John, a letto, aveva rinchiuso Jim in un angolino della sua mente quando aveva sentito la porta d’ingresso aprirsi. Gli piaceva, Jim, pensò che lo avrebbe richiamato il giorno dopo. Aveva mangiato come una persona normale (come una persona vera, si corresse) e gli aveva raccontato la storia di Barbablù con la stessa voce e lo stesso modo di Richard Brook, e poi gli piaceva la pizza coi funghi come a Sherlock.
La mamma arrivò e gli chiese se dormiva, sottovoce. John saltò come una molla e l’abbracciò forte al collo. Gli era mancata, e glielo disse, ottenendo un bacio sulla guancia. Forse non gli era mancata come quando non ha nessuno con cui giocare e passa la giornata a ciondolare per casa, ma non gli piaceva cenare senza di lei, anche se oggi aveva avuto la compagnia di Jim.
“Sai che è tardissimo e che dovresti dormire da un pezzo, vero?”
“Anche tu, questo è abbandono di minori, dovresti sempre tornare prima delle dieci e mezza.”
“È colpa di tuo padre che mi porta fuori a cena.”
“Domani a colazione mi sentirà.”
“Oh, sì, gli ho già detto che lo avresti sgridato, sta già tremando. Ma adesso dormi, d’accordo?”
Gli diede un bacio sulla fronte e gli rimboccò la coperta fino al mento.
“Buonanotte, John.”
“Devo proprio?”, domandò in tono implorante. Sua madre, nascondendo un sospiro, gli si sedette accanto, cominciando ad accarezzargli la testa. “Non ho sonno, non puoi leggermi qualcosa? O farlo leggere a me…”
“Se chiudi gli occhi sono sicura che il sonno ti verrà. È venuto Sherlock oggi, vero?”
John si fece scorrere un labbro tra i denti, indeciso se dirle la verità o no.
“Sì.”, ammise colpevole. Sapeva che, ora, la mamma avrebbe detto che era molto stanco, che non riusciva a dormire solo perché era troppo eccitato dalla giornata con Sherlock,  e sapeva che non lo avrebbe più ascoltato e non avrebbe cercato di capire. Si aggrappò al suo vestito rosso scuro, ma la mamma iniziò ad accarezzargli la mano perché la staccasse. Era stata più volte ripresa per aver viziato troppo il figlio, un maschio che ormai aveva dieci anni, e doveva confessare che era vero, perché non conosceva nessun bambino che a quell’età fosse ancora così attaccato alla madre. Gli accarezzava il dorso della mano con movimenti circolari del pollice, via via più lenti.
“Allora ti sarai stancato molto. Chiudi gli occhi e non pensare a nulla.”
La mamma si alzò e con un rumore fastidioso di tacchi spense la luce e chiuse la porta dietro di sé, facendo affogare il figlio nel buio completo. Le tende non erano tirate, ma là fuori non c’era la Luna, non c’era nessuna luce.
Aveva difficoltà a dormire da quando aveva scoperto il proprio potere. Gli sembrava di sentire tutti i rumori di tutto il creato. I gatti che miagolavano tra loro come ad un comizio, gli insetti che strisciavano lungo l’erba e brulicavano ovunque e volavano verso le lampade e vibravano nella polvere, il respiro calmo di sua madre e il russare lieve di suo padre, Harry che non dormiva e leggeva e scriveva sms, Jim dentro la sua testa, tutti i folletti e gli spiriti e le creature fatte di paura che, ne era ormai sicuro, esistevano in ogni cono e angolo d’ombra. Se lui poteva creare conigli e torte di panna, sicuramente nel mondo c’era chi aveva creato l’Uomo Nero e le streghe e Babbo Natale e gli elfi e tutto il resto. Come insegnavano i fumetti c’era chi usava i superpoteri per scopi buoni e chi per scopi malvagi. Forse chi aveva creato i mostri si nutriva delle anime dei bambini. Forse i mostri avevano tanti stomaci come le mucche, uno dove tenevano le carni e il sangue dei bambini e l’altro dove tenevano le loro anime, che poi portavano ai loro creatori che le mangiavano per tenersi in vita. C’erano alcuni mostri di cui non aveva paura perché ne conosceva il viso, e la conoscenza porta il coraggio, ma l’Uomo Nero era senza volto, c’erano solo denti e fischi e risate e il rumore terrificante delle ossa che si spezzano.
Non riusciva a togliersi di testa l’idea che l’Uomo Nero fosse sotto il suo letto. Era sicuro di aver sentito più volte le assi di legno del pavimento scricchiolare. La mamma gli aveva detto che aspettava, ogni notte, che il bambino che doveva mangiare fosse stato veramente cattivo per diventare enorme e mangiarlo tutto. John non era il bambino più ubbidiente che conoscesse – la mamma ripeteva sempre che era la cattiva influenza di Sherlock – e più volte la mamma lo aveva minacciato, dicendogli che l’Uomo Nero annusa il cattivo comportamento a miglia e miglia di distanza.
Chiuse gli occhi fortissimo e si impegnò per non immaginare nulla, solo il vuoto, il nero più puro e rassicurante. Si convinse che così avrebbe potuto spazzare via ogni mostro, se ce ne fossero stati. Si addormentò con difficoltà, si arrese ad un sonno nervoso e sottile, come se avesse cercato di usare dei petali come coperta contro la neve.

Sherlock, in piedi di fronte a lui, lo guardava severo, o almeno così gli sembrava da quel che riusciva a vedere dalle palpebre socchiuse. Erano quasi venti minuti che rimaneva sdraiato, un braccio ciondolante e l’altro dietro la testa, e Sherlock non sembrava dell’idea di lasciarlo continuare così.
“Non sono venuto a casa tua perché tu dormissi.”, sentenziò duro.
“Ho sonno. Non ho dormito per nulla, stanotte, e poi nessuno ti ha invitato.”
“Neppure io dormo tanto ma non sono come te.”
“Tu sei abituato, io no.”
Tutti i giorni Sherlock gli parlava dei libri che aveva letto di notte e John era sempre preoccupato del fatto che dormisse così poco, ma in fondo Sherlock era sempre stato il bambino più strano che avesse mai conosciuto e aveva imparato, dopo un po’, che preoccuparsi per quelle che lui chiamava sciocchezze era inutile, soprattutto perché Sherlock non lo ascoltava mai.
“Perché non hai dormito, comunque? Hai avuto gli incubi?”
John annuì piano, come se si vergognasse di averne fatti. Aveva preso sonno tardissimo, gli sembrava fossero passate ore da quando aveva salutato la mamma, e si era svegliato un sacco di volte, gli sembrava ad ogni minuti, con il cuore che gli batteva in gola e nei piedi.
Sherlock gli spostò le gambe e gli si sedette accanto. “Guarda che la tua è tutta suggestione.”, sbuffò con il suo tono da sapientone, “Anche se qualcuno creasse davvero mostri o che ne so, per quale motivo dovrebbe mandarli a te?”
“Cosa posso saperne, io, se uno crea dei mostri è pazzo e io non la capisco di certo, la mente dei pazzi.”
“Ti fidi di me, vero? Vero. E io ti dico che non c’è nessun mostro da nessuna parte, e che anche ci fossero non credi che ti avrebbero già fatto fuori?”
“Come mi rassicuri tu, nessuno al mondo.”
“Guarda che dico sul serio! È stupido che pensi che ci siano, perché altrimenti ti avrebbero già aggredito e saresti già morto. Visto che sei vivo smetti di preoccuparti. Andiamo a giocare.”, concluse, cercando di spingergli le gambe per terra, così avrebbe avuto la scusa perfetta per trascinarlo fuori in giardino. Fallendo, tentò di convincerlo scuotendogli le cosce, ma John non era mai sembrato più fermo su una decisione.
“Ho sonno, non ne ho voglia, Lock…”
“Ma mi annoio! Almeno tira fuori Jim. Giocherò con lui. Tua madre è andata a lavorare, vero?”
“Sì, ha il turno di pomeriggio questi giorni…”
“Torna alle sette, vero?”
“Sì, sì…  tu vai in giardino, che adesso arriva Jim…”, lo cacciò in tono sonnacchioso John, girandosi dall’altra parte, cercando di cacciarlo con i piedi.
“Non voglio giocare con Jim, voglio giocare con te.”, reagì offeso Sherlock che non si dava per vinto davanti a nulla, soprattutto a tutto quello che soddisfacesse lui e irritasse chiunque altro.
“Ma io devo dormire, quindi o lui o niente. E poi hai appena detto che andava bene anche lui!”
“Allora niente. Ho cambiato idea.”
“Allora rimani qui e non mi rompere. Attacca la Playstation. Vai a leggere. Puoi anche distruggere la casa, basta che lo fai in silenzio che devo dormire.”
John non seppe cosa Sherlock avesse deciso di fare, perché scivolò nell’acqua tiepida del sonno appena riuscì a chiudere per bene gli occhi. Gli sembrò di accoccolarsi al divano, di stringersi su se stesso per non far scappare nemmeno una goccia del suo sonno.
Si vide camminare per le strade di Londra, vuote come non possono mai essere, silenziose e tranquille, pulite come se fossero appena state costruite. Non riconosceva nessun negozio, nessun odore o rumore, ma era sicuro di essere a Londra e in nessun altro posto. C’era silenzio e pace e si sentiva così bene, così rilassato. Erano mesi che non si rilassava; il potere che aveva trovato dentro se stesso lo aveva reso nervoso, impaurito, perché i primi giorni la sua mente era fuori controllo, creava dal nulla qualsiasi particolare che immaginava, e non sapeva come tenerlo sotto le proprie redini. Fortunatamente il suo migliore amico era Sherlock, che lo aveva aiutato ed era riuscito ad imparare in fretta, ma allora erano arrivate le notti in bianco. Non succedeva spesso perché Sherlock rimaneva a dormire da lui un sacco di volte e così non aveva il tempo di stare a pensare ai vecchi rumori tipici di una casa di legno e agli spifferi che sembravano sospiri di strega, ma se lasciato solo era capace di farsi completamente avvolgere dalla paura, come da una coperta di ghiaccio.
E invece adesso, nel sogno, camminava provando una gioia e una pace che non sentiva da tempo. C’era odore di frutta, nell’aria, come in cucina d’estate quando la mamma preparava la macedonia con la panna montata, e c’era anche profumo di crema pasticcera, quella della torta che aveva mangiato da Sherlock due settimane prima, quando era andato a cena da loro. Si era sempre chiesto se gli Holmes non fossero nobili o qualcosa del genere, perché abitavano in una villa e avevano un cuoco e delle cameriere. Non c’era nessuno bravo come il loro cuoco, riusciva a ricordare il sapore di quella torta, come al solo sentirne il profumo aveva avuto l’acquolina in bocca, tanto che Sherlock lo aveva preso in giro, dicendogli che non stava bene che palesasse (aveva usato quel verbo, lo ricordava bene) a quel modo la sua voglia di dolci. John era arrossito e la signora Holmes aveva sgridato il figlio dandogli del maleducato. Sherlock ubbidiva solo a sua madre.
Avvertì una strana sensazione, perché Sherlock non era con lui nel suo sogno. C’era quasi sempre, lui, o almeno c’era quasi sempre nei sogni belli, mentre dagli incubi riusciva a tenerlo lontano, come se fosse in grado di proteggerlo anche mentre dormiva. Si guardò attorno per accertarsi che non fosse nascosto in qualche angolo di quella Londra onirica, accucciato per terra ad analizzare la strada con la lente d’ingrandimento di suo padre. Era gigantesca, Sherlock parlava sempre di comprarne una più piccola al più presto, tascabile, e si lamentava di non essere ancora riuscito a trovarne una decente. Ne aveva comprate molte che non valevano nemmeno mezza sterlina, e quando si rompevano lui le buttava contro il muro, arrabbiatissimo. Ma Sherlock non c’era, ma per la prima volta John non ne sentì la mancanza. Continuò a camminare, entrò nelle panetterie e nelle pasticcerie, tutti i negozianti gli offrivano da mangiare e le signore gli carezzavano la testa come la mamma prima di dormire e gli regalavano biscotti e baci sulle guance. Se c’era la fila tutti gli cedevano il posto, sorridendogli come se fosse un principe. Mangiava budino e marmellata e non era mai sazio, in quel mondo luminoso e felice in cui tutti sorridevano, vestiti di bianco, tutti coi capelli biondi che profumavano di fragola, come quelli di sua sorella. Desiderò che Sherlock fosse lì, ma pensò anche che se non c’era significava che aveva qualcosa di più urgente da fare; nell’ultima pasticceria in cui entrò chiese di mettere tutto in un sacchetto di plastica, così avrebbe portato tutti quei doni a Sherlock, e lui non ne avrebbe toccato una sola briciola. Prese un gelato lungo la strada, da un signore che gli ricordava Babbo Natale. Si domandò, mentre leccava il pistacchio, dove fossero finiti tutti. Le uniche persone che aveva incontrato erano quelle dentro i negozi. Il gelato era buonissimo, e non era troppo freddo per non fargli male alla testa ma non abbastanza sciolto per colare dal cono.
Ne stava mangiando la punta quando vide un uomo di spalle. Spiccava perché era vestito di nero. Era alto come Jim e aveva gli stessi capelli, e John gli si avvicinò contento. Pensò che se gli avesse regalato un dolce Sherlock non se la sarebbe presa, anche perché non lo avrebbe saputo.
“Jim!”, lo chiamò a gran voce, accelerando il passo. La sua creatura lo sentì e si voltò verso di lui, e John strillò facendo cadere tutto. Di fronte a lui c’era l’uomo nero, esattamente come se lo era immaginato.
“Ciao, Johnny boy.”, lo salutò Jim, chiamandolo come lo chiamava suo cugino, ma con voce sottile e perfida, inquietante come il sibilo di un serpente. Cominciò ad avvicinarsi come se strisciasse sulla strada. Si ricordò di quella volta che, in campagna, suo cugino aveva acchiappato la biscia che gli si stava avvicinando per la testa e gliel’aveva mostrata, avvicinandogliela al naso.
Le case a cui Jim passava a fianco crollavano, i bambini urlavano, le donne piangevano, e le teste di tutti si gonfiavano fino ad esplodere, e dai loro corpi inerti uscivano vermi color sangue. “Vuoi giocare un po’ con me?”
Svegliati svegliati svegliati svegliati!, cominciò a ripetersi John, terrorizzato e paralizzato. Quando Jim fu talmente vicino da riuscire a sentire il puzzo del suo alito chiamò Sherlock con un grido e una luce lo accecò. Quando riuscì a riaprire gli occhi, Sherlock lo stava fissando, e lui sentì di essere bagnato ovunque, nella schiena e tra le gambe, e tutto gli si era appiccicato addosso. Scoppiò a piangere quando Sherlock gli domandò cos’era successo e si aggrappò a lui, tremando. Sherlock lo abbracciò e cominciò ad accarezzargli la schiena come faceva sua madre quando aveva un incubo, salendo sul divano con lui.
“Cos’è successo, John?”, ripeté quando i singhiozzi non scuotevano più il suo amico terrorizzato. John si staccò appena da lui e tirò su col naso.
“Jim, Jim è – era – è l’uomo nero, ero in questa città bellissima tutta bianca quando vedo Jim che mi si avvicina e ha gli occhi neri e puzza come un topo morto e mi si avvicina strisciando e distrugge tutto e – è l’uomo nero, Sherlock, ho creato l’uomo nero, ne sono sicuro, era spaventoso, terrificante, non voglio più farlo venire fuori –”
“John, John! Calmati adesso, d’accordo? Cerca di calmarti, era solo un brutto sogno, nulla di più, Jim non può essere l’uomo nero, è assurdo… e l’uomo nero non esiste, è stato solo un incubo, d’accordo?”
“No!”, gridò John, staccandosi da lui. Perché non gli credeva mai? Perché doveva essere sempre, per forza, come diceva lui? Solo perché era più intelligente di tutti non significava che aveva sempre ragione, che tutto quello che diceva lui era stupido. Perché si comportava sempre così con lui? Non riusciva a capirlo e gli stava facendo male. “Non è stato solo un incubo, lo so che è vero, lo sento!”
Sherlock, in apprensione, cercò di avvicinarsi di nuovo a lui, ma sembrava avesse la scossa perché John si allontanava di più, fino al bracciolo del divano. A quel punto Sherlock si fermò, e parlò di nuovo con voce più calma.
“Facciamo una prova, allora, fallo venire fuori, se è diventato quello che dici basterà farlo sparire per sempre come Bluebell, d’accordo?”
“No! Non voglio, smettila di manipolarmi il cervello, ho detto di no e così sarà! È l’uomo nero e se uscirà mi mangerà! Ho ragione io, smettila, tu non sai com’è essere me!”
Sherlock si attentò ad avvicinarsi e John lo lasciò fare. Lo guardò dritto negli occhi, serio. John finì di tirare su col naso e se lo asciugò con una manica, strofinando l’altra sugli occhi gonfi e rossi.
“Avrai sempre paura se non lo fai. Pensa che il tuo è solo un sogno, davvero, non può esserci qualcosa di vero in quello che sogni. Proviamo, e se ho ragione sarà il Jim di ieri e così potrai essere tranquillo. Ti fidi di me, vero?”
John ingoiò un singhiozzo. Forse, se insisteva così tanto, aveva ragione davvero. E poi lui era Sherlock. “Sì, mi fido di te. Ma ho così paura, e se è davvero diventato l’uomo nero e ci mangia?”
“Non succederà. Ricordati che ho sempre ragione, o almeno il 99% delle volte. Non credo che proprio oggi sia uno di quei giorni da 1%. Concentrati, ricordati Jim come lo hai creato ieri e convinciti che va tutto bene – questa parte è fondamentale! Su.”
John tirò su col naso di nuovo, per l’ultima volta, perché si impose di smettere di piangere e smoccolare.  Allungò le mani verso quelle dell’amico e le strinse forte, non volle assolutamente che si voltasse. Strizzò gli occhi – dagli angoli caddero un paio di lacrime rimaste impigliate nelle ciglia – e si concentrò. Si ricordò come Jim aveva giocato con loro, si ricordò del sorriso con cui gli aveva portato il maglione, della voce che gli aveva raccontato le favole e quella che gli aveva dato la buonanotte quando gli aveva detto che lo avrebbe fatto sparire solo per qualche ora, si concentrò sulla partita a calcio che avevano giocato e su come era sembrato naturale quando aveva mangiato la pizza coi funghi, quella che piaceva a Sherlock, e lo visualizzò davanti a sé, il suo personale Richard Brook che gli sorrideva domandandogli che fiaba voleva che gli narrasse.
Jim Jim Jim Jim Jim.
Aprì un occhio solo, terrorizzato. Con la palpebra a mezz’asta il mondo esterno sembrava immerso in una vasca per pesci. Non sentiva Sherlock urlare, era un buon segno. Lentamente aprì entrambi gli occhi, e Jim era di fronte a loro, coi vestiti e il sorriso di ieri. Sherlock sbuffò scocciato e scese dal divano.
“Visto, John? Avevo ragione io.”
Corse fuori in giardino, ordinando a Jim di seguirlo. John, troppo stordito e con gocce di paura che ancora scendevano dalla fronte, si limitò a guardarli giocare a calcio, stringendo forte un cuscino al petto. Sentiva il cuore battere contro i timpani, sotto le unghie. Aveva voglia di strapparle per pensare al dolore fisico e a nient’altro. Odiò Sherlock per averlo costretto a creare un essere umano. Poi si pentì, ammettendo che aveva avuto solo un incubo, che era colpa della sua immaginazione troppo fervida e impressionabile. Jim era lì davanti a lui e non stava mangiando nulla e non stava cercando di uccidere Sherlock. Eppure non riusciva a smettere di tremare. Andò in bagno per cambiarsi, si sciacquò la faccia con acqua gelida come faceva tutte le mattine per svegliarsi, sicuro che potesse funzionare anche per la paura, per svegliarlo da quello stato pietoso, ma non funzionò. Anche quando tornarono dentro – Sherlock con un forte bisogno di farsi una doccia – non era riuscito a tranquillizzarsi del tutto.
“Smettila.”
“Di far cosa?”
“Di pensare a quello che è successo prima. È stato solo un sogno, non mi sembra di vedere uomini neri! Ho avuto ragione per l’ennesima volta, sii contento di questo e calmati.”
Jim, per cercare di tranquillizzarlo, gli si avvicinò per accarezzargli la testa, ma John si ritirò al suo tocco. Jim non si offese, ma continuò a sorridere. John ricordava che Richard Brook non smetteva mai di sorridere.
“Giochiamo alla Playstation?”, domandò timido, e Sherlock si sedette alla sua destra, col joystick in mano, e Jim alla sua sinistra, che li osservò per tutto il tempo come una madre premurosa.

Aveva supplicato la mamma perché potesse dormire nel lettone con lei e papà. Sherlock non era potuto rimanere, aveva di nuovo qualche cena importante o chissà cosa, non era stato molto preciso al riguardo, tutto quello che sapeva era che non poteva dormire con lui. Ma la mamma si era rifiutata e lo aveva quasi sgridato. Era grande, diceva, non poteva più permettersi di comportarsi a quel modo, e John non riusciva a spiegarle il fatto che c’era un motivo serio dietro la sua richiesta. Scoppiò a piangere quando la mamma spense la luce, ma lei strinse i denti e chiuse la porta dietro di sé.
John giunse le mani e pregò, implorò il Signore che lo proteggesse, che fossero tutte sue paranoie, che non c’era niente sotto il letto ma era tutto nella sua testa, poteva controllare tutto. Quando smise di bisbigliare si rannicchiò in un angolo del letto in posizione fetale, stando sempre all’erta, gli occhi spalancati nel buio. Non osava rifugiarsi sotto le coperte perché sapeva che sarebbe stato attaccato nel momento stesso in cui avrebbe avuto gli occhi coperti. Continuava a guardare la stanza, riconoscendo ogni mobile e giocattolo per quanto fosse tutto completamente buio. “Lì c’è l’esercito, lì la mazza da baseball, lì c’è l’armadio, lì ci sono le scarpe, lì ci sono le vecchie lenti di ingrandimento di Sherlock, lì la sveglia elettronica che mi ha regalato papà a Natale…”
Alle tre di notte stava diventando pazzo. Aveva sonno da morire, e sapeva che la mamma lo avrebbe sgridato se non avesse dormito neppure un po’, ma aveva troppa paura. Decise che sarebbe andato in salotto a giocare con la Playstation col volume quasi a zero. Sbadigliò fortissimo, con la bocca così aperta ci sarebbe potuto entrare dentro un pugno. Appena appoggiò i piedi a terra, qualcosa – o qualcuno – lo scaraventò di nuovo a letto. Una specie di volata di vento gelido. Rimbalzò sul materasso e sbatté la testa contro il muro.
Jim strisciò fuori dal letto. Non aveva più nulla di Richard Brook, né la voce che ora era sottile e stridula né gli occhi che erano fori neri e rosso squillante né qualsiasi minimo particolare che avrebbe potuto rassicurare John. Era come nel suo incubo.
“Vattene, vattene, vattene!”, gridò John ripetutamente, retrocedendo verso il muro stringendo la coperta come se fosse uno scudo, come se potesse innalzarsi come un muro di cemento. Sentiva tutto il corpo battere come un tamburo, sentiva che voleva piangere e urlare fino a farsi sanguinare la gola ma era tutto bloccato, tutto congelato, tutto dentro di lui aveva terribilmente paura di uscire, come se anche le lacrime temessero il mostro che avevano davanti. Pensò che avrebbe dovuto solo chiudere gli occhi e immaginare la stanza buia senza di lui, ma se li avesse chiusi Jim lo avrebbe mangiato da capo a piedi in un attimo solo. In quale altro modo poteva cacciarlo? Nessuno gli aveva mai insegnato a combattere i mostri, e i draghi vengono uccisi con la spada dai cavalieri, e lui non era un cavaliere e non aveva una spada, e la mamma lo aveva sempre e solo minacciato con l’uomo nero, non gli aveva mai detto come fare se fosse mai comparso, perché se fosse arrivato se lo sarebbe meritato, quindi non aveva nessun motivo per cacciarlo.
Jim si inginocchiò sul letto e gattonò verso di lui, sorridendo.
“Oh, perché dovrei andare via? Tu mi hai creato, voglio solo starti vicino… più vicino… così posso stare bene anche io, John… perché devi andare a giocare alla Playstation quando ci sono io? Giocherai con me, stanotte…”
Si avvicinò a lui fino a che John ne sentì l’alito di fogna. Lo aveva così vicino che le punte del naso potevano sfiorarsi. Cercò di retrocedere ma non ne aveva più la possibilità. Pensò che avrebbe voluto lottare, ma era troppo stanco, non ne aveva la forza.
Jim infilò le lunghe dita bianchissime nelle tempie di John, la cui voce venne tagliata. La bocca era aperta, era sicuro di urlare, ma non c’era più nessun rumore. Era come essere immersi nell’oceano.
Cominciò a sognare. Sognò la sua famiglia squartata da un ladro. John aveva sempre paura che un pazzo entrasse in casa mentre loro dormivano per rubare tutto, ma immaginava anche che il papà e la mamma si sarebbe svegliati e lui se ne sarebbe accorto e li avrebbe uccisi, poi per completare avrebbe ucciso anche Harry e lui, perché non ci fossero testimoni. Sognò che il ladro avesse la stessa faccia di Sherlock. Sognò Sherlock che lo picchiava e lo insultava e gli diceva di morire, sognò Sherlock che lo abbandonava, che lo vedeva assieme a Jim e lo lasciava lì senza fare niente, dicendo che era tutta colpa sua perché aveva una mente debole, che lui non poteva farci niente e neppure voleva farlo. Sognò la mamma che lo abbandonava lungo la strada come i cani che aveva visto in una pubblicità una volta, sognò suo padre che lo picchiava con la mazza da baseball, sognò sua sorella violentata da un gruppo di giocatori di football, sognò che sua sorella lo crocifiggeva al muro perché era stupido e inutile e l’annoiava sempre, sognò che tutte le maestre lo legavano mani e piedi e lo facevano affondare nella sabbia nel cortile della scuola e ridevano di lui che era pesante e affondava più velocemente di tutti gli altri bambini, sognò tutti i suoi compagni di classe che lo additavano e ridevano perché si era fatto la pipì addosso perché Jim lo stava accarezzando da dietro, con una mano attorno alla vita per impedirgli di scappare, dicevano che era un fifone e un piscialletto, che si meritava quello che stava succedendo perché lo aveva creato lui, che era stato debole e aveva dato modo a Jim di diventare l’uomo nero che ora si cibava della sua paura e cresceva e cresceva e cresceva. Sognò Jim che gli diceva “Non c’è più scampo, Johnny Boy, staremo sempre insieme. I tuoi incubi e le tue grida sono così gustosi, non me ne andrò mai. Non sei contento, Johnny Boy? Avrai un compagno di giochi finché non muori, saranno tutti molto invidiosi di te e della tua fortuna.”
Jim staccò le dita e John cadde sul letto a peso morto, gli occhi terrorizzati di chi vede il mondo morire davanti a lui. Jim si leccò la punta delle dita e le labbra che grondavano sangue. Si rifugiò sotto il letto, incastrandosi tra le scatole dei giocattoli vecchi.

La mamma non aveva voluto sentire scuse, non le interessava se non aveva dormito perché era affar suo, e non le interessava se aveva avuto gli incubi tutta la notte e non era riuscito a chiudere occhio perché erano tutte bugie. Lo fece salire in macchina senza ascoltare i suoi capricci e ignorandolo quando si mise a piangere. Pianse per tutto il tragitto, ma la mamma non aveva il tempo né la voglia di starlo a sentire. Si domandò da quando era diventato così capriccioso, quel bambino.
John scese dalla macchina con gli occhi rossi e lucidi, e cercò subito Sherlock, che lo aspettava al cancello come al solito. La mamma andò via subito.
Si precipitò ad abbracciarlo, nascondendo i singhiozzi nella sua spalla. Ma neanche questo riuscì a calmarlo. Piangeva per la paura e il sonno, voleva disperatamente dormire ma allo stesso tempo non farlo mai più perché Jim avrebbe di nuovo aperto la sua testa e avrebbe fatto tutti quegli incubi terrificanti.
“È tutta colpa tua. Ti odio.”, avrebbe voluto singhiozzare a Sherlock, ma non voleva che lui lo sapesse, anche se lo aveva pensato in un momento particolarmente doloroso della notte, quando lo stomaco si era stretto così tanto da soffocare tutto. Strinse forte le labbra. Non voleva che Sherlock sapesse niente, se non solo che doveva stringerlo e consolarlo. Voleva proteggere almeno lui. E poi sapeva che non era colpa sua, non davvero, che se avesse voluto avrebbe detto semplicemente di no, quindi se lo meritava. Questo pensiero lo fece singhiozzare di più, e Sherlock gli domandò se voleva saltare la scuola e andare in sala giochi. John annuì, senza dire niente, e Sherlock lo prese per mano, scivolando tra la folla di bambini che entravano a scuola.
“Vuoi raccontarmi cos’è successo?”
Scosse la testa.
“Hai fatto di nuovo incubi su Jim?”
Annuì.
“Vieni a casa mia a dormire, oggi, d’accordo? Magari sei più tranquillo.”
Annuì di nuovo, appena rincuorato, ma senza smettere di piangere. Non ci riusciva. Appena credeva di aver smesso un singhiozzo partiva dai piedi e lo risaliva tutto, e lui scoppiava di nuovo come una diga troppo debole per il mare in tempesta. Quando Sherlock si mise a camminare più veloce per poter scappare più in fretta possibile dalla scuola lui lo acchiappò per la manica della camicia della divisa e si rannicchiò su se stesso, a piangere in mezzo al marciapiede. Sherlock gli ordinò di tirarsi su, altrimenti era possibile che qualche adulto che li conosceva potesse fermarsi e riportarli a scuola. Lo tirò su lui stesso e si nascosero in una vecchia cabina telefonica, perché non potevano girare ancora per molto con John in quello stato prima di essere avvistati da qualche mamma troppo invadente.
“John, ti prego – John, ascoltami, smetti di piangere, ti prego, su, per favore, non risolvi niente…”
Ottenne solo di far piangere di più John, che si sentiva anche trattare da moccioso, come se stesse piangendo per dare spettacolo o richiedere attenzioni. Sfogava solo la frustrazione, la paura, il terrore attorno al suo cuore, e si sentiva anche dire che piangere non risolveva niente. Lo sapeva perfettamente, che diavolo, ma perché impedirglielo? Non poteva fare niente, al momento, non aveva idea di come sconfiggere Jim. Era chiuso in una trappola per topi e non poteva strapparsi la coda a morsi.
“Lo so che non risolvo niente, ma fammi almeno fare questo!”
Si rannicchiò di nuovo su se stesso. Adesso Sherlock avrebbe sbuffato e gli avrebbe detto che era tutto nella sua testa e nulla era reale, ma lui il ghiaccio dentro il cervello lo aveva visto, il sapore ferroso del sangue lo aveva sentito sulla lingua, e tutte le urla e le grida che non riusciva a tirar fuori dalla gola gli erano rimbombate dentro il cranio per tutta la notte così che, se solo avesse voluto provare a dormire, non ci sarebbe riuscito neppure strappandogli le orecchie e le unghie e la lingua. Ma per Sherlock era tutta una bugia, era colpa sua perché era debole e stupido e si faceva condizionare così dai suoi incubi. Si rannicchiò di più, cercando di inglobarsi, perché aveva solo voglia di sparire.
Sherlock si chinò su di lui e lo abbracciò. Gli disse di stare calmo, se ci riusciva, e aveva la voce sottile, spezzata. Gli disse che sarebbero andati a casa subito, perché sua mamma era fuori. Non gli faceva bene stare fuori ancora troppo, gli assicurò cercando di sembrare sicuro, coraggioso per due.
Sherlock non avrebbe mai creduto di vederlo in quello stato – sapeva perfettamente quanto gli esseri umani fossero facili alla disperazione, ma non credeva che vedere John soggiogato a quel modo gli avrebbe fatto tanto male. Lo prese per mano, uscendo dalla cabina telefonica, e non lo lasciò mai andare per tutto il tragitto verso casa, né in strada né in metropolitana. John smetteva di piangere poi ricominciava, ma in modo sempre più silenzioso. Nessuno dei due parlò, ma Sherlock gli passò il suo fazzoletto di stoffa per pulirsi il naso. Era blu scuro e glielo aveva regalato Mycroft, e John sapeva che, per quanto ne parlasse male, ci teneva tantissimo, a suo fratello e ai suoi regali, e per questo si sentì speciale per un attimo.
“Tu non hai avuto solo un incubo.”, disse Sherlock d’improvviso, mentre tirava fuori le chiavi del cancello dallo zaino. “Perché non vuoi dirmi cos’hai? È – è successo qualcosa a casa? Ai tuoi genitori, a Harry?”
John continuò a non parlare, limitandosi a scuotere la testa. Sherlock sospirò, entrando in casa.
L’idea che Jim facesse del male ai suoi genitori o a sua sorella gli trapassò il cranio come una stalattite, lo congelò dall’interno. Ma poi ricordò come tutte le sue creature sembrassero allergiche a tutto fuorché a lui: tutte odiavano Sherlock e si lamentavano quando passavano davanti a qualcosa che toccava spesso sua madre, come il suo shampoo in bagno o una collana lasciata distrattamente sul tavolino del salotto. Non doveva esserci pericolo, anche se con Jim era tutto possibile. Lo sperò così tanto, così forte, che pensò che ci fosse la vaga speranza che trasmettesse il comando a Jim.
Si fece trascinare dentro casa come se non avesse peso. Sherlock lo portò in camera sua, deciso a non farlo uscire fino a quando non avrebbe saputo tutto.
“Non mi prendere in giro. È successo qualcosa di grave, non sono stupido, e poi chiunque lo capirebbe! Non puoi reagire così solo per degli incubi, piangi da un’ora, e perché non me ne vuoi parlare? Mi hai sempre detto tutto e ti ho sempre aiutato…”
John tirò su col naso e se lo strofinò sulla manica della camicia. Non aveva voglia di parlare, voleva solo dormire in una bolla che lo tenesse tranquillo e lontano dagli incubi.
“Non sono costretto a dirti tutto.”
“No, non sei costretto, ma ti aiuterebbe…”
“No, non mi aiuterebbe per nulla, parlare non serve a nulla.”
“John, davvero, io –”
Tu cosa? Tu cosa, Sherlock?! È tutta colpa tua, è colpa tua se ho creato Jim! È diventato l’uomo nero e non ho potuto dormire perché appena chiudevo gli occhi vedevo i miei e te uccisi, ammazzati, mangiati dalle bestie, e Jim mangia i miei incubi e più li mangia più diventa forte! Non posso più dormire ed è tutta colpa tua! Ora dimmi come puoi aiutarmi, dimmelo!”
John si morse il labbro così forte da farlo sanguinare, perché aveva spezzato Sherlock. Lo vedeva perfettamente, era distrutto in miliardi di granelli di polvere come lo era lui in quel momento. Aveva cancellato la sola cosa buona che potesse avere. Vide i suoi occhi inumidirsi, lucidi come pietre d’acqua.
“Mi dispiace…”
Il dolore fu spazzato via dalla rabbia. “Ti dispiace? Sai dire solo questo? Io sono condannato a vita per i tuoi capricci e a te dispiace, Sherlock?! Ti dispiace! Ho distrutto la tua vita, John, perché sono uno stupido idiota che deve sempre dimostrare di avere ragione, ma ho detto che mi dispiace, adesso è tutto a posto, vero? Andiamo a giocare, John, in fondo io sto bene, non è la mia vita o quella dei miei genitori che è in pericolo costante, io ho solo fatto lo stronzo come sempre e ti ho fatto creare qualcosa che non volevi e che ora ti è sfuggita di mano, ma in fondo che mi importa? Io sono Sherlock Holmes, il bambino più intelligente del mondo, che mi importa di quello che faccio agli altri, quando io sto bene! Ti odio, Sherlock, è tutta colpa tua! Jim esiste ed è solo colpa tua, e tu neppure mi credi perché per te sono troppo stupido per dire anche solo una cosa con del senso!”
Sentiva il rumore di Sherlock che si spezzava sempre più forte ma non riusciva a fermarsi. Tutti i piccoli rancori, le piccole antipatie, si stavano tutte mescolando dentro di lui, dentro la sua gola, per poi uscire come impasto appiccicoso sputato in faccia a Sherlock che, per la prima volta da quando si conoscevano, non riuscì a rispondere, non aprì bocca. Non piangeva, al contrario di John che aveva ripreso a singhiozzare, e tutte le parole uscivano, attraverso i suoi denti, frastagliate. Solo, rimaneva a guardarlo, forse sperando che smettesse.
Sherlock lo fissava e lui voleva solo scappare, da lui e da se stesso, da tutto l’orrore che gli aveva gettato addosso. Sapeva di aver detto cattiverie e bugie, ma non sapeva come rimediare, non sapeva come riattaccare i pezzi uno all’altro. Non voleva pensare a come farlo, in quel momento. Non gli veniva in mente altro che la paura che aveva di tornare a casa perché forse Jim era in piedi davanti alla porta di camera sua che lo aspettava, o forse era sempre nella sua testa e appena avesse sbattuto le palpebre lui sarebbe comparso e avrebbe ricominciato a mangiarlo. Non sapeva niente, non voleva pensare a nulla, solo a scappare. Sarebbe uscito di lì e – non lo sapeva se sarebbe tornato a casa. Sarebbe scappato e basta, forse via da Londra, non lo sapeva. Ma non riusciva a stare fermo. Sentiva le mani formicolare, voleva afferrare qualcosa o qualcuno e spezzare porcellana e ossa. Voleva picchiare Sherlock  ma si trattenne, perché la violenza non risolveva niente e sarebbe stato ancora più male se lo avesse ferito. Sherlock non era bravo nelle lotte e si faceva male presto, e gli venivano subito i lividi, e se gliene avesse fatto uno non ci sarebbe stato nulla di peggio al mondo.
“Io vado a casa.”, riuscì a dire sapendo di star dicendo la cosa più sbagliata, ma non sapeva cos’altro fare, non voleva rimanere lì, “Mi inventerò qualcosa con la mamma.”
Sherlock tirò fuori dal cassetto della scrivania un biglietto della metropolitana che non aveva usato. Glielo porse senza una parola, e John lo afferrò in silenzio. Lo mise nella tasca dietro dei pantaloni, lì dove non si sarebbe stropicciata troppo. Avrebbe forse dovuto metterla in cartella, ma erano troppi movimenti e avrebbe dovuto interrompere il contatto visivo con Sherlock e ogni respiro in più lì dentro lo metteva sempre più a disagio. Cercò di riprendere il controllo del suo corpo, innanzitutto smettendo di tremare e calmando il respiro. Ci riuscì per metà; non tremava più ma il respiro era ancora  troppo veloce. Strizzò gli occhi e inspirò tanto profondamente da riempire del tutto i polmoni.
“Ci vediamo domani.”, gli disse, anche se non era sicuro. Uscì di casa e s’incamminò senza sapere bene dove andare a finire.
Non riconosceva quelle strade. Ci era sempre passato in macchina, camminarle era completamente diverso. Forse ricordava qualche insegna, ma solo vagamente, e aveva ancora più paura di prima. Decise di prendere la metropolitana, che gli era familiare e gli dava un senso di sicurezza. Prese il biglietto in mano e gli tornarono in mente gli occhi di Sherlock e sentì i propri pizzicare di nuovo. Non ne poteva più di piangere, gli sembrava di farlo dal giorno in cui era nato.
Perché aveva detto tutte quelle cattiverie a Sherlock? E perché si sentiva, in una parte nascosta ed infida, sollevato nell’avergli addossato tutte quelle colpe? Il sollievo di mesi e anni di piccoli imbrogli e graffi superficiali, quelli che aveva sopportato perché gli voleva troppo bene da poterlo quantificare. Eppure sapeva che non doveva esplodere a quel modo, che non doveva ferirlo così profondamente. Come avrebbe potuto rimediare?
Ma è vero che è colpa sua, non devi fare nulla.
John si spaventò, rimanendo paralizzato. Non era stato lui a pensarlo, ma Jim. Era così fuori dal suo controllo da potergli parlare anche quando non pensava a lui?
Stai zitto, stai zitto!
Perché dovrei? Sai bene anche tu che è la verità.
“L’unica verità è che tu devi scomparire!”
Non si accorse di aver parlato ad alta voce. Un gruppo di signore, forse straniere, si voltarono verso di lui. John affogò nel proprio imbarazzo e ringraziò di essere di fronte ad un’entrata della metropolitana.
Devi andartene!, riuscì a limitarsi a pensare, Devi andartene! Io non posso vivere così!
L’idea era quella di prendere una linea che non conosceva, ma poi non sapeva come avrebbe fatto a tornare a casa. Non poteva allontanarsi troppo perché non aveva soldi e non poteva di certo mettersi a chiedere l’elemosina. Sarebbe sceso, dunque, ad un paio di fermate lontano da casa, magari si sarebbe infilato in biblioteca o in un qualche supermercato. Non aveva i soldi per il pranzo, forse la biblioteca era meglio, almeno non gli passava tutto quel cibo sotto il naso.
Entrò in metropolitana, sgomitò per andare ad aggrapparsi alla sbarra.
Perché dovrei, Johnny Boy? Si sta così bene qua. Con tutto quello che hai urlato al tuo amichetto ho mangiato così bene. Continua, continua così, Johnny Boy. Quando arrivi a casa dì alla mamma che lo sai che ti odia, che preferisce Harry, che se fosse stata Harry a chiederle di dormire con lei avrebbe accettato, e invece con te non lo fa perché sei un maschietto, vero? Ma tu hai così tanta paura e lei non lo capisce. È proprio cattiva, vero? E quando ti ha detto che sei arrivato all’improvviso, quando lei e il papà non credevano più che avrebbero avuto bambini, perché erano passati dieci anni? Non voleva forse dire che non ti volevano? Sei arrivato così indesiderato, Johnny Boy, e hai anche delle pretese sulla mamma! Povera mamma, che nasconde così bene il suo odio per te. Urli di notte e non la fai dormire, sei un uomo eppure piangi, è chiaro che non ti voglia bene, chi potrebbe volerne ad un moccioso piagnucolone come te? E hai anche saltato la scuola, oggi! Ma hai fatto bene, eri così stanco perché ci siamo divertiti tutta la notte, io e te, vero? Quando Harry salta la scuola la mamma non le dice niente, perché lei è la figlia voluta, se tornerai a casa troppo presto la mamma capirà che non sei andato a scuola e ti sgriderà, perché lei non ti capisce, vero? È cattiva, la mamma, e anche il papà, che non gioca mai con te e tu devi giocare sempre e solo con Sherlock… ma adesso non c’è più neppure Sherlock, vero? Con tutto quello che gli hai detto ti odierà per sempre. Non c’è più nessuno per te, Johnny Boy, ci sono solo io. Perché non passi tutta la vita con me? Ti basterà darmi i tuoi sogni, ogni tanto, farmi entrare nella tua testa perché possa creare deliziosi incubi, ma non tutti i giorni, solo ogni tanto. A casa non ti vuole nessuno. Vivi con me e basta, Johnny Boy.
Si aggrappò alla sbarra con quel briciolo di forza che gli erano rimaste per non cadere svenuto. Era fuggito a molte cose dormendo, ma ora tutto quello da cui doveva scappare era proprio dietro le sue palpebre chiuse.
Devi andartene. Devi morire. Perché me, perché? Cosa ti ho fatto?
È colpa tua, Johnny Boy, della tua testa così fantasiosa. Sei come un pranzo di Natale tutti i giorni. Non c’è scampo per te, piccolo mio.

Aveva letto un pezzo dell’ultimo libro di Harry Potter in biblioteca, quasi la metà, aspettando che arrivasse l’ora di tornare a casa, perché aveva deciso che gli faceva più paura restare in giro per Londra da solo. Non sapeva come raggiungere i suoi altri amici, e poi a causa di Sherlock aveva cominciato a stare antipatico a tutti perché erano sempre e solo loro due. Aveva tirato su col naso, pensando a Sherlock, e gli occhi avevano ricominciato a pizzicare. Aveva aspettato la merenda con lo stomaco che brontolava in continuazione, fino a quando la mamma non gli aveva chiesto se a scuola aveva pranzato. Sì, aveva pranzato, ma c’era roba che non gli piaceva tanto e quindi aveva evitato di mangiare troppo, e la mamma lo aveva rimproverato dicendogli che dovrebbe mangiare tutto quello che si trovava davanti perché ci sono tanti bambini meno fortunati che avrebbero ringraziato per quello che a lui non piaceva. Le aveva promesso che avrebbe mangiato tutto, da quel giorno in poi, e aveva mangiato la sua merenda con molta meno voglia di quel che si era aspettato. Così a cena.
A letto aveva aspettato Jim come un condannato a morte, con la consapevolezza che la sua ora sarebbe arrivata sempre troppo presto. Aveva gli occhi rossi e tremava, stringendo le coperte. Ma Jim non si era fatto vedere fino alle quattro del mattino. Gli aveva sorriso.
“Mi stavi aspettando? Ho già mangiato, Johnny Boy, puoi dormire, oggi non ti toccherò.”
John lo guardò con gli occhi spalancati, incredulo. Poteva muoversi liberamente, allora? Poteva scappare da lui, trovarsi nuove case, nuove bambini?
“Dove… dove sei stato?”
Il suo sorriso si aprì, letteralmente, sulla sua faccia, mostrando quanto di più simile ad una bocca da squalo avesse mai visto. Due fila di denti marci, ma acuminati come spade.
“Da Sherlock. Mi hai detto di andarmene, no? E l’ho fatto. Lo odi, Sherlock, non è vero? Ho fatto come volevi tu, Johnny Boy, non sono stato bravo? Sì che lo sono stato. Così impara a farti fare sempre come vuole lui, no? Ha avuto la sua dose di incubi, ci penserà due volte la prossima volta. Ora puoi dormire, Johnny Boy, sono sazio. Dovresti riposare, tesoro mio, hai delle occhiaie così scure…”
“Come hai osato toccare Sherlock!”, ruggì John tirandosi su in piedi, per essere alla sua stessa altezza, elettrico di una forza sconosciuta.
“Gli ho solo dato una lezione. Ho solo fatto quello che pensavi, ho attinto ai tuoi desideri. Mi hai detto di andarmene, hai pensato che dovevo trovarmi qualcun altro, e chi meglio di lui? Ha un cervello talmente straordinario, ha un così buon sapore.”
Jim gli accarezzò il viso con fare materno. “È sempre colpa tua. Ma sei forse geloso, Johnny Boy? Ti dispiace che io mi sia dedicato a qualcun altro? Puoi dormire sogni sereni, almeno per oggi, domani tornerò a cibarmi di te. Non c’è modo che tu possa sconfiggermi, comincia ad abituarti. Ci sono milioni di persone che convivono tutti i giorni con incubi ben peggiori dei tuoi, smetti di fare il bambino e adattati. Tu mi hai creato, ma tu non puoi distruggermi. È un così grande piacere avere a che fare con te, sei talmente delizioso.”
Gli diede un bacio sulle labbra. Scivolò sotto il letto, dove John non poteva più vederlo, lì acquattato nel buio come un lupo in attesa di sbranarlo.
Chiuse gli occhi sperando di riaprirli solo da morto.

Non era mai riuscito a fingersi malato, e anche quel mattino fallì.
“C’è qualcosa che non va, a scuola?”, gli domandò la mamma quando lo vide scendere per colazione con la morte in viso, “Non ci vuoi mai andare, c’è qualcuno che fa il bulletto con te?”
“No, mamma, non c’è niente che non va…”
Si era arreso al primo tentativo, non aveva voglia di discutere troppo con sua madre. Aveva dormito, quella notte – ossia aveva chiuso gli occhi, ma gli sembrava di aver dormito su un materasso di sassi mentre fuori scoppiava la guerra mondiale. Voleva così tanto riposare.
Non voleva vedere Sherlock. Non voleva mettersi di fronte a tutti gli sbagli che aveva fatto. Lo aveva insultato, maltrattato, e aveva lasciato che Jim attingesse ai suoi desideri più oscuri, quelli che non erano che pensieri passeggeri che il mostro aveva afferrato e trasformato in voglie persistenti. Doveva averlo pensato solo per qualche secondo, odiandosi dopo, che Sherlock dovesse avere una lezione, che potesse capire in prima persona il suo dolore per smettere di comportarsi come aveva sempre fatto. Jim non ne aveva il diritto.
Arrivò davanti al cancello della scuola sperando che Sherlock non fosse lì ad aspettarlo. E poi perché avrebbe dovuto? Gli aveva urlato che lo odiava, per qualche motivo avrebbe dovuto aspettarlo davanti al cancello per entrare in classe insieme, come tutte le mattine?
Eppure era lì, con gli occhi rossi di sonno o pianto, o entrambe le cose. Desiderava correre ad abbracciarlo e desiderava sistemare tutto semplicemente così, risolvere tutto come in tutti i litigi fra bambini. Sherlock lo guardò appena confuso, come se non si aspettasse di vederlo lì, come se si rendesse conto per la prima volta di averlo aspettato al solito posto. Lo salutò con voce sottile, impastata di sonno. Tirò su col naso e John non capì se era per la commozione o per il dolore o per tutto, per tutti quegli incubi che Jim deve aver creato nella sua testa. Si teneva a distanza come se intorno a lui ci fosse un campo elettrico, lontano per paura di prendere la scossa.
“Ciao…”, mormorò. Non era sicuro che Sherlock avesse sentito.
Fu Sherlock ad avvicinarsi. “È… è venuto da me, ieri notte. Mi… mi dispiace, deve aver… fatto la stessa cosa anche a te, io… io non so come scusarmi, John, è tutta colpa mia –”
“No! È colpa di entrambi, davvero, io sono grande e non dovevo farmi convincere se non volevo, io…”
Sherlock lo abbracciò per la seconda volta in due giorni, così forte da fargli quasi male. “Mi dispiace. Mi dispiace veramente, John, è colpa mia…”, sussurrò, lo ripeté mille volte, con voce confusa e dolorante, pianse sulla sua spalla e non fece altro che chiedergli scusa, mentre John lo stringeva a sua volta, muto.
“Non hai mai… non hai provato a cacciarlo?”, domandò Sherlock con voce pallida, mentre entravano in classe. Ancora dieci minuti e poi tre ore di lezione in cui non avrebbero potuto parlare.
“Non so come fare, Lock, non posso fare come con Bluebell, è un essere con una sua anima e tutto il resto, è impossibile…”
Avrebbe voluto dirgli che si era sentito così solo da voler morire, così solo che qualunque cosa avesse fatto sarebbe stata inutile, se non dannosa. Quando gli aveva rivolto  tutto quell’odio e lo aveva visto spezzarsi, si era spezzato a sua volta, aveva creduto che non ci sarebbe stato ritorno, da quel punto. Si era sentito debole e abbandonato, solo come mai, e così non aveva idea di come poter sconfiggere Jim. Senza Sherlock era sempre solo, e aveva troppa paura. “Sherlock io non so come fare…”, continuò, sull’orlo delle lacrime, e Sherlock lo strinse di nuovo, ignorando i pochi compagni già in classe che li prendevano in giro.
“Lo so io come fare, lo so io.”, mentì facendo la voce seria, ferma. Cominciò a far muovere le rotelle del cervello.
Pensa, pensa, pensa. Cosa so, adesso? So che John ha un potere che non so spiegare, ma che quando sarò grande capirò. Cosa so, cosa so? Pensa, pensa, diavolo, John è nei guai, starà male per sempre se non l’aiuto, conta su di me, solo io posso fare qualcosa… Jim, Jim cos’è? Jim ora è un essere umano con un potere, non come quello di John, però ha un potere, fa paura a John così che abbia gli incubi e si nutra di quelli. Poi lo ha fatto con me. Perché ha aspettato la notte? Non ci ha fatto dormire, eravamo tutt’e due svegli quando ha cominciato a farci fare gli incubi. Non poteva colpirci insieme così da risparmiare tempo? Ci deve essere un motivo, o era solo per ingannarmi? No, è impossibile, con quale scopo ingannarmi? Se avesse voluto prenderci tutt’e due nello stesso momento lo avrebbe fatto, ci avrebbe tenuto in mano da subito. No, c’è un motivo, ce n’è uno vero con un senso, e quale può essere, quale, quale…
“Ho capito!”
Sherlock, col viso illuminato dalla luce di un’idea, disse a Sally che lui e John andavano in infermeria, di dirlo al maestro se non tornavano in tempo, perché John stava male e doveva stare con lui. Lo prese per il braccio e lo trascinò nel bagno dei maschi e chiuse da dentro con uno scopettone.
“Tiralo fuori, ora. Chiama Jim.”
John spalancò gli occhi, impaurito. “Sei completamente impazzito?”
“No. Se ho ragione, e io ho sempre ragione, Jim colpisce chi è da solo. Sembriamo in uno di quei film idioti, ma se stiamo insieme dovrebbe diventare innocuo. Dobbiamo provare. Non possiamo sconfiggerlo fisicamente, ci ho già provato, se gli dai un pugno diventa tipo aria. Dobbiamo provare in questo modo, John. Io non credo che possa diventare peggio di così. Anzi, lo so per certo. So che ti sei fidato di me e siamo finiti in questo casino, ma pensaci! Quando eravamo assieme si è comportato bene, quando ci ha colpiti eravamo da soli e tristi e tutto il resto, ha senso! Fallo apparire e – Dio, John, dobbiamo provarci! Dobbiamo chiudere il cervello e impedirgli di entrare, dobbiamo averlo davanti e sconfiggerlo pensando a tutte le cose belle che abbiamo, lui si aggrappa ai pensieri tristi che facciano e li amplifica e si nutre del dolore, se gli mostriamo che non può averci in quel modo lo sconfiggeremo, ne sono sicuro, dobbiamo provarci, John! Peggio di così non può andare, dobbiamo farlo, dobbiamo!”
John deglutì e decise che, al diavolo, non riusciva a non fidarsi di lui. Sherlock era troppo importante, era… l’unico che fosse così fondamentale. Nonostante tutto.
Dovette pensare a Jim un solo istante con gli occhi aperti perché si materializzasse. Assomigliava a Richard Brook, questa volta, ma quando sorrise gli occhi diventarono neri e le labbra erano di nuovo fatte di vermi.
“Come avete indovinato che avevo fame? Che bambini premurosi che siete, proprio gentili…”
John chiuse gli occhi e cercò la mano di Sherlock, che la strinse forte, chiudendo gli occhi a sua volta. John sentì le dita gelide di Jim sul suo viso, ma lo respinse. Si concentrò su se stesso e Sherlock. Il primo incontro. La prima volta che avevano giocato assieme. I litigi e le paci, le merende e i compiti fatti assieme, come Sherlock cercasse di spaventare chiunque gli si avvicinasse e tutte le confessioni segrete bisbigliate a mezza voce, quel modo di dirgli che gli voleva bene, nascosto da tutti gli altri come se fosse un segreto terribile. John sarebbe diventato dottore, da grande, perché Sherlock ne aveva bisogno, lui non poteva vivere senza John a stargli dietro. Si concentrò sull’idea di loro da grandi, sempre insieme. Non si sarebbero allontanati mai.
Sentì le dita di Jim dentro il cervello e strinse i denti cercando di scacciarlo.
“Cosa pensi di fare, Johnny Boy?”
Pensò a loro due soli, nel bagno. Pensò a quando avevano giocato ai pirati, lì dentro, con gli scopettoni dei bidelli che poi li avevano scoperti e messi in punizione. Pensò a quando aveva pianto, lì dentro, pensando che i suoi genitori stessero per divorziare, una volta che avevano litigato così forte che li aveva sentiti lui in camera sua. Pensò alle notti passate a giocare e chiacchierare e leggere, a inventare mondi dentro i quali si andavano a perdere, a giocare per anni, pensò a tutte le notti che avrebbero trascorso senza Jim, pensò a loro due soli senza quella presenza. Pensò così forte da fargli male e pensò che a quel punto sarebbe stato facile per Jim entrare, era tutto così doloroso attorno a lui che avrebbe solo dovuto soffiare. Sentì le sue dita fredde penetrargli il cranio, e le merende con Sherlock si trasformarono in tutti quei litigi terribili in cui credeva che non avrebbero mai più fatto pace, ma nella sua testa duravano per giorni e giorni e alla fine Sherlock gli diceva che lo odiava e che non voleva più vederlo e si metteva a parlare male di lui con i compagni di classe, confessava loro tutte le paure e le debolezze di John, i suoi compagni lo prendevano in giro e lo isolavano e Sherlock rideva – ma John riuscì a respingere tutto perché sapeva che erano solo incubi e non erano reali e più di tutto sapeva perfettamente che Sherlock non lo avrebbe abbandonato mai e poi mai. Strinse più forte la sua mano ma fu Sherlock a lasciarla per stringersi forte la testa. Cominciò a urlare “Basta, basta, basta!”, e voleva dire che Jim aveva cambiato preda. “Lasciami andare, ti prego lasciami andare!”, continuava a gridare, cadendo in ginocchio a terra, poi in posizione fetale. John scoppiò a piangere ma solo per un attimo, perché si disse che non era proprio il momento di piangere perché Sherlock aveva bisogno di lui. Cominciò a scuoterlo perché rinsavisse.
“Sherlock, Sherlock, ci sono io qui, ci sono –”
“Vattene!”, sbraitò respingendolo, e cominciò a stringersi così forte le braccia che le dita divennero bianche. Aveva gli occhi spalancati e, quando John gli tirò su il viso, vide che non aveva più la parte colorata dell’occhio, erano due grandi palle nere opache.
“Sherlock? Sherlock, cosa –”
“Oh, Johnny boy, Sherlock è andato.”, parlò il bambino, sorridendo, avvicinandosi a lui. “Ed è colpa tua. Se tu fossi stato solo un po’ più forte, Johnny boy… e così hai reso più forte me.”
Quando Jim gli accarezzò il viso e lo baciò con la bocca aperta, il mondo per John divenne nero e riuscì a sentire, in lontananza, prima di svenire, la sua risata e le urla dei maestri che tiravano pugni contro la porta del bagno.

Si risvegliò in infermeria. Sbatté gli occhi più volte prima di rendersi conto di dov’era. Si guardò attorno con terrore. Nel letto accanto al suo c’era Sherlock, già sveglio, che lo fissava. Cacciò un urlo fortissimo che fece accorrere l’infermiera.
“John, che succede?”, gli domandò la signora, accarezzandogli la testa, con apprensione.
“N-niente, niente, ho avuto – ho avuto un brutto sogno e – e l’ho rivisto quando mi sono svegliato, l’uomo nero…”
La signora sospirò e gli si sedette accanto.
“Chissà cosa vi è preso, a tutt’e due. Scommetto che Sherlock ti ha trascinato in una sua idea stupida. Volevate allagare i bagni? È quello che ha detto il preside. E ha anche detto che non prenderà provvedimenti disciplinari solo perché Sherlock è un Holmes… la sua famiglia gli paga la villa in Italia. Sai cosa significa provvedimenti?”
“Sì, sì…”, rispose ancora scosso. Come li avevano trovati, gli adulti? Avevano visto Jim? No, era impossibile, perché altrimenti non sarebbero lì in infermeria, la signora Sawyer non sarebbe così tranquilla nel parlargli. Dunque era una maledizione che toccava solo a loro, quella dell’uomo nero?
E ora come potevano fare? Neppure stare uniti li aveva aiutati, neppure quello era servito. Tirò su il lenzuolo fino al viso e scoppiò a piangere.
“No, no, no…”, mormorò l’infermiera con tono dolce, abbracciandolo con un fare materno che portò sollievo al bambino. John si sforzò per smettere subito, perché anche in quel momento piangere non serviva a niente. “Sto – sto bene, signora, sto bene…”
Lei gli sorrise. “Sei propri un bravo ometto. Sherlock, tu stai bene, invece?”
John attese che parlasse con il cuore che batteva in ogni curva del corpo. C’era ancora Jim, lì dentro? Eppure, ora che guardava bene, gli occhi erano di nuovo di quello strano miscuglio tra azzurro e verde, ma ormai doveva sapere come Jim si mimetizzava bene, come i camaleonti.
“Sì, sto bene, non sono come quel piagnone. Ha avuto gli incubi solo perché è impressionabile.”
Era la sua voce e non era mai stato così contento di sentire il suo tono odioso.
“Volete spiegarmi cos’è successo, bambini? Come siete svenuti?”
“Io non me lo ricordo, signora Sawyer, e di sicuro neppure John. È successo, come succedono la maggior parte delle cose. Non a tutto c’è spiegazione. Come a Dio.”
“Tu sei proprio un bambino strano. E dovresti essere meno impertinente, nessuno ti ha mai insegnato l’educazione?”
“La mamma e il papà, non è colpa loro se sono venuto su storto.”
John scoppiò a ridere perché quello era proprio Sherlock, il suo migliore amico. Jim non poteva essersi annidato lì dentro, gli sembrava impossibile. Doveva essersi nascosto da qualche parte per poi sbucare fuori come un pupazzo a molla dalla scatola appena avessero abbassato la guardia. Era dentro la sua testa? Non lo sentiva, ma sapeva che si sarebbe dovuto concentrare per sentirlo e non voleva.
“A proposito di questo, i vostri genitori stanno venendo a prendervi. Gli zaini sono ai piedi del letto, verranno a chiamarvi. Intanto riposate un po’.”
Appena l’infermiera se ne fu andata, Sherlock sgattaiolò nel letto di John. “Come stai?”
“Come stai tu.”, lo strinse forte John. Sherlock profumava di cioccolata.
“Male. Non voglio che succeda mai più. Era molto più forte della prima volta. Non ho mai visto cose così brutte, ed era tutto così reale, non sembrava neppure un sogno. Sentivo che parlava con la mia voce, vedevo te e al contempo vedevo… sangue, la guerra, mamma e papà che morivano, Mycroft che mi lasciava per sempre, tutto quel genere di cose che immagino avrai visto anche tu. E sentivo un sacco di freddo… però so che s’è andato prima che mi risvegliassi. Non lo sento più dentro. Perché se ne sarà già andato? Non ha senso. Poteva rimanere dentro di me per colpirti d’improvviso e intanto mangiare anche me, nello stesso tempo.”
“Quando è sazio se ne va.”, disse John, meravigliandosi di se stesso, perché fino ad un attimo prima era confuso e troppo impaurito anche solo per pensare a come sbarazzarsi di lui. “E poi non sarebbe stato divertente per lui.”
“Quindi è dentro di te, ora?”
“Non lo so.”, e si controllò per evitare un tono tremante. “Non lo so, ma ho paura a controllare. Non credo possa essere altrove. Non può stare troppo lontano da me, io credo ci sia… una specie di collegamento mentale. Non può essere altro. Altrimenti sarebbe già scappato, avrebbe già fatto un sacco di vittime in più. È dentro la mia testa di sicuro. Se fosse ancora nascosto dentro di te sono sicuro che lo sentiresti perché non essendo me hai una mente più debole – più debole a queste cose, non mi guardare male!”
“Nessuno mi dice che ho la mente debole.”, fece Sherlock, con le sopracciglia aggrottate, dandogli un pizzicotto sulla coscia.
“Ehi!”, guaì John, restituendoglielo sul braccio. Continuarono a pizzicarsi fino a quando non arrivò l’infermiera. Li guardò con affetto e con voce dolce disse loro che erano arrivati i genitori. Sherlock deglutì e scese dal letto, cercando di rimediare alle pieghe dei pantaloni e della camicia e rifacendo il nodo alla cravatta con incredibile velocità.
All’ingresso la mamma di John l’abbracciò forte chiedendogli cos’era successo, se stava bene, e gli chiese scusa per averlo fatto andare a scuola nonostante le proteste, nonostante si vedesse che non era tutto a posto, e la mamma di Sherlock lo trascinò per il braccio in macchina, ignorando le proteste. “Ci starai un’altra volta, con John, signorino.”, la si udì dire.
John lo guardò andare via con un groppo alla gola, un sasso impossibile da sciogliere.

Jim gli fece visita e non ebbe nemmeno la forza di cercare di respingerlo. Gli accarezzò il viso e John chiuse gli occhi pregando che finisse presto.
“Oh, sei delizioso oggi, Johnny boy, mi lasci fare come se lo volessi. Sei così carino, così dolce… e i tuoi incubi sono come nettare, lo sai? Come latte e miele, piccolo mio…”
Cercò di urlare il meno possibile quando le dita lo congelarono del tutto, ma non riusciva ad avere un gran controllo sul proprio corpo. Quando ebbe finito si ritrovò in una pozza di pipì, per la seconda volta. Cominciò a piangere silenziosamente per la vergogna.
La mamma entrò in camera e immediatamente sentì l’odore acido e lo fece scendere dal letto. Gli tolse il pigiama, chiedendogli con tono dolce e apprensivo se aveva fatto gli incubi, e John ricominciò a lacrimare, ma di felicità. Annuì, senza riuscire a parlare, e la mamma lo portò in bagno per lavarsi. Gli mise un pigiama pulito e lo portò a letto con lei e il padre. Nel sonno l’uomo grugnì e poi aprì gli occhi, trasalendo per trovarsi davanti il figlio minore piuttosto che la moglie. “Sei ringiovanita molto, tesoro.”, mormorò sonnacchioso, stringendo il bambino e baciandogli i capelli. John dormì così bene come non gli capitava da mesi, e il giorno dopo la mamma non lo mandò a scuola.
“Vuoi che rimanga a casa per farti compagnia, amore?”
Scuotendo la testa la rassicurò che stava bene, aveva solo bisogno di riposare un po’. Sperò che la mamma credesse ad un bambino di dieci anni che cercava di suonare più adulto e convinto possibile. Le disse che sarebbe rimasto a letto a leggere, o in salotto a giocare alla Playstation. La mamma, con gli occhi lucidi, lo riempì di baci e uscì velocemente per non cambiare idea mentre se ne andava.
Erano le nove e mezza quando Sherlock bussò alla porta.
“Come sei entrato dal cancello?”
“Ho scavalcato.”, rispose rapido, entrando in casa e buttando la cartella in un angolo. “E sono scappato da scuola. La mamma si è arrabbiata da morire e mi ha dato uno schiaffo e quando mi sono messo a piangere si è scusata e non mi ha messo in punizione. Papà è via per lavoro, per fortuna, o altro che schiaffo. Comunque al solito mi ha accompagnato davanti a scuola e poi sono venuto qua appena se n’è andata, è stato difficile non farmi vedere dai maestri, ho un futuro come ninja, mica pirata. Comunque dobbiamo sconfiggere Jim ora, non ce la posso più fare a non dormire per colpa sua.”
Lo disse tutto così rapidamente che John, se non fosse già stato svezzato al suo modo di parlare, non avrebbe capito una parola.
Era tornato da lui, dunque la sua teoria era giusta.
Sherlock gli prese le mani. “Fallo venire, per lui sarà un’altra buona occasione come ieri. Ma non fallirò. Ieri ha preso me perché non… non credevo ce l’avremmo fatta. Solo averlo attorno mi ha fatto pensare ad un sacco di cose brutte, poi ce l’avevo con te come tu ce l’avevi con me, ma ora mi è passata e andrà bene, te lo prometto.”
“Mi stai chiedendo scusa?”
“No! Ti sto solo esponendo i fatti. Sarò bravo e andrà perfettamente. Ci credi anche tu?”
“Mi sento sempre di più in un film deficiente.”
“Lo so, anche io, ma non c’è altra soluzione. Concentrati e fallo uscire. E mentre lo fai uscire pensa anche a cose felici.”
“Come in Peter Pan?”
“Come in Peter Pan.”
“Sei sicuro di non essere più arrabbiato con me?”
“Sicuro. Tu lo sei?”
“No. Non più. Davvero.”
John gli strinse forte la mano e Jim apparse quasi immediatamente, appena chiuse le palpebre.
“Di nuovo, piccoli? È quasi commovente come vi offriate. Non so neppure da chi cominciare.”
John si concentrò di nuovo su tutto ciò che di bello aveva. Strinse più forte la mano di Sherlock.
Aveva Sherlock. Una mamma, un papà, una sorella che gli aveva preparato la colazione e aveva promesso che gli avrebbe regalato un videogioco nuovo per la Playstation, uno di quelli appena usciti che non si sarebbe mai potuto comprare da solo con la paghetta. Pensò al suo potere che creava animali e cibo per lui e per Sherlock. Pensò che forse Sherlock stava pensando a lui e questo era il pensiero più felice di tutti. Gli venne da ridere perché si sentiva come i fratelli di Wendy di cui non ricordava il nome. Cominciò a sentirsi così leggero che si domandò quando avrebbe cominciato a volare. Aprì gli occhi e Jim era ancora lì, impassibile.
“Cosa pensate di fare, tesori?”
Ebbe paura ma solo per un attimo perché se lo impedì. Doveva essere forte, smettere di piangere. Per se stesso e per Sherlock doveva far sparire Jim. Pensò, pensò, pensò: pensò a com’era stato felice quando aveva avuto Richard Brook per tutta la giornata, pensò al suo futuro da pirata o da ninja o da dottore al fianco di Sherlock che poteva essere il più temuto dei pirati o la più intelligente degli agenti segreti della regina. Pensò a quel futuro radioso che Jim non si doveva permettere di toccare.
“Posso volare, Peter!”, disse Sherlock e scoppiarono a ridere entrambi. Sentirono Jim cominciare a fare versi striduli, come gesso sulla lavagna, come ingranaggi non oliati, come le porte mosse dal vento.
“Però non puoi fare il pirata, perché io sarei un bambino sperduto e dovremmo combattere.”
“Lo dici solo perché hai paura che io ti sconfigga!”
“No, perché io potrei volare e farti mangiare dai coccodrilli.”
“Non ci pensare neppure, moccioso!”
“Smettetela, smettetela!”
John aprì gli occhi e vide Jim tornare ad essere Richard Brook davvero, del tutto umano. Era piegato per terra su se stesso come Sherlock il giorno prima, e se per un attimo ebbe pietà di lui si ricordò di cosa aveva fatto al suo migliore amico. Istintivamente gli si avvicinò per dargli un calcio e sembrò funzionare, perché Jim vomitò una piccola pozza di sangue.
“Funziona!”, gridò. Anche Sherlock aprì gli occhi in quel momento. “Ha il sangue verde, John! Io me l’ero immaginato blu.”
Cominciarono a prenderlo a calci entrambi, immaginando nello stesso momento quanto potesse essere limpido e luminoso il mondo senza quel mostro a spaventarli. Ora era molto più facile, anche con gli occhi aperti.
Jim sparì prima che potesse dire una sola altra parola.
“C’è ancora nella tua testa, John?”, gli domandò Sherlock in apprensione. John chiuse gli occhi senza un tremito di paura, neppure uno, e gli disse che non c’era più nessuno. Sherlock gli saltò addosso e lo abbracciò fortissimo, riempiendolo di baci sul viso.
“Se ci vedessero i nostri compagni di classe ci prenderebbe in giro per tutta la vita.”
“L’ho sempre detto che sono stupidi.”
Sherlock si staccò e guardò dove prima c’era Jim e il suo sangue. Notò con disappunto che erano entrambi spariti, il che lo deluse perché avrebbe voluto analizzare il sangue. Tornò a guardare John che cominciava ad avere di nuovo un colorito sano in faccia. “Cosa facciamo, ora?”
“Io voglio solo dormire.”, rispose John senza pensarci. Si appoggiò al divano perché non aveva più la forza nemmeno per pensare di arrivare in camera. Sherlock, senza una parola, gli si sdraiò vicino.

Quando la mamma tornò, alle tre di pomeriggio, di fretta e preoccupata per il suo piccolo, piena di buone intenzioni per la merenda (avrebbero chiamato anche Sherlock, così sarebbe stata una piccola festicciola e il suo John sarebbe stato meglio), trovò il figlio e il suo amichetto sdraiati sul divano, uno accanto all’altro, profondamente addormentati, rilassatissimi. Pareva che John non stesse facendo nessun incubo.
“Non sia mai che stiano qua, con il mal di collo che potrebbero prendersi…”
Uno alla volta li trasferì nel suo letto matrimoniale, coprendoli. John si accoccolò di più a Sherlock, mugugnando, e Sherlock lo abbracciò. Fece una foto col cellulare e se la mise come sfondo. Chiuse la porta con attenzione, silenziosamente, lasciandoli al loro bel mondo di sogni.

 

  
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