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Autore: Fusterya    10/05/2012    21 recensioni
John guarda nel vuoto. E Sherlock gli tiene la mano.
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Premessa: ho scritto questa one shot angosciosa e straziante in pochissimo tempo, grazie alla meravigliosa ma devastante canzone dei Radiohead da cui ho rubato il titolo, per cui, se proprio volete prendervela con qualcuno, incolpate loro... e magari ascoltatela mentre leggete, giusto per stare anche peggio: http://www.youtube.com/watch?v=7vFaoA7t2RE
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: ho scritto questa cosa angoscioso-straziante in pochissimo tempo, grazie alla meravigliosa ma devastante canzone dei Radiohead da cui ho rubato il titolo, per cui, se proprio volete prendervela con qualcuno, incolpate loro... e magari ascoltatela mentre leggete, giusto per stare anche peggio: http://www.youtube.com/watch?v=7vFaoA7t2RE



How to desappear completely -  Radiohead

I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey
I’m not here
This isn’t happening
I’m not here
In a little while
I’ll be gone
The moment’s already passed
Yeah it’s gone
And I’m not here
This isn’t happening
I’m not here
Strobe lights and blown speakers
Fireworks and hurricanes
I’m not here
This isn’t happening
I’m not here

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Arrivo in un pomeriggio assolato, come ogni martedì e giovedì, da oltre un anno e mezzo a questa parte.
L’edificio di mattoni rossi è visibile da in fondo alla lunga strada periferica, che serpeggia leggermente in salita. Il taxi mi lascia davanti al grande cancello: dall’interno del gabbiotto lì accanto la guardia mi fa un cenno di saluto, che io ricambio.
Sono quasi le 17.
Cammino velocemente con il mio pacchetto in mano, grottescamente eccitato per il mio povero regalo.
Giardino, portone, corridoi, portici... ed eccomi nell’immenso cortile interno, ovviamente affollato oggi, in una giornata splendida come questa.
Alzo il passo mentre mi dirigo al solito tavolo in fondo, nell’erba rasata di fresco, e scorgo la sua figura seduta lì, con la familiare sagoma bianca accanto.
Avvicinandomi, comincio a sorridere.
Quando sono finalmente quasi lì, noto che John mi ha agganciato con lo sguardo e segue la mia traiettoria.
Sono così felice quando lo fa.
Aggiro il tavolo e mi chino su di lui, lasciandogli un bacio sulla guancia.
Indugio con le labbra sulla pelle riscaldata dal sole, strizzo gli occhi per il dolore che questo mi provoca.
Sally è lì, come sempre.
“Ciao, Sherlock.”
Le sorrido, e sistemo il colletto della camicia a John con una mano.
Lui non smette di fissarmi.
“Come va oggi?” mi rivolgo a lui, ma in realtà lo chiedo a lei.
“Oh, John è sempre tranquillo, lo sai.” mi sorride l’infermiera Sawyer.
E’ adesso che John distoglie gli occhi dai miei e guarda giù, sul tavolo.
Io mi vado a sedere di fronte a lui.
Da quando fa caldo e siede in giadino, è un po’ abbronzato, dimagrito. Sembra più giovane.
Gli porgo il pacco.
“John... una cosa che ti piacerà.”
Non so nemmeno io perché gli abbia portato una cosa simile, ma ho notato che i colori vivaci a volte attirano la sua attenzione.
Spingo la scatola sul tavolo e prendo le sue mani abbandonate, tirandole dolcemente verso di me.
Se stimolato e guidato, è in grado di compiere delle azioni elementari. Gli faccio toccare il pacco: prendedolo per i polsi, gli guido i palmi a toccare quello che ha davanti. Lui lo fa. Mi guarda di nuovo. Le labbra hanno in impercettibile movimento verso l’alto.
Non saprò mai se mi riconosca, anche solo superficialmente, o meno. A volte ho la sensazione di sì, nonostante il quadro clinico lo dia per impossibile.
Le sue dita esplorano la carta da regalo. Trovano i punti di congiunzione chiusi con il nastro adesivo e cominciano a tirare via i lembi.
“Bene” lo incoraggio “bene così”.
Gli lascio le mani e lo faccio continuare da solo.
Io e Sally ci guadiamo soddisfatti.
Lei gli si è affezionata.
John riesce a tirare via tutta la carta, ha l’espressione concentrata e seria di quando scriveva sul suo blog.
La scatola è libera, ma adesso deve fermarsi.
Lo aiuto io.
Libero l’oggetto dal contenitore di plastica e glielo metto tra le mani. Lo guarda con espressione indifferente, gli ci vuole un po’ per acclimatarsi alle cose.
Guarda me senza nessun interesse particolare. Poi guarda oltre le mie spalle.
Nessuno direbbe mai che quelle iridi grigioblu, ora brillanti per il sole che vi si riflette dentro, non riescano a trasmettere praticamente alcuno stimolo alla corteccia cerebrale.
Le sue labbra sono rosee, dolcemente socchiuse.
John non parla da diciannove mesi, e non parlerà mai più.
Il pensiero mi attraversa la mente come un piccolo lampo affilato e mi riempie gli occhi di lacrime.
“E’ un cubo di Rubik” mormoro riprendendo le sue mani tra le mie, con il cubo al centro di esse. “Ti arrabbiavi quando gareggiavamo e non riuscivi mai a finirlo nel tempo stabilito. Ti aiuterò io.”
Stavolta ci ho messo molto meno tempo a piangere. Di solito lo faccio quando vado via.
Forse per quello che avrei voluto dirgli, ma non posso.
Sally si sporge un po’ verso di me, dovrebbe essere imbarazzata ma ormai è abituata. Siamo quasi amici, potei osare.
Non dice nulla. Lei sa.
“Oggi ti porto via” annuncio tirando su col naso. Non riesco a frenarmi, non è semplicemente, logicamente possibile.
Mi tampono le lacrime con il dorso della mano, ma non si fermano.
“Andiamo a casa” gli sorrido mentre piango.
Lui non batte neanche le ciglia. A volte bisogna aiutarlo con del collirio.
Sally posa una mano sul mio braccio, mi induce a guardarla. E’ commossa anche lei.
“Ce la farai?”mi chiede piano “é un lavoro a tempo pieno, 24 ore su 24.”
“Lo so” dico con la voce che ormai è un filo, posando nuovamente lo sguardo su John.
Il mio John. Che sembra assolutamente normale, sembra che stia per dire una qualunque delle sue idiozie. O per chiedere una tazza di thè.
“Farò qualunque cosa per lui, Sally. Qualunque cosa.”

Restiamo ancora un po’ lì, io cerco di calmarmi, comincio a fargli ruotare il cubo tra le dita, mischiando i colori. Dopo un po’ va avanti da solo, a casaccio. Poi arriva qualcuno a dirmi che il taxi è pronto, le sue cose sono in una borsa nella hall.
E’ il momento. Mi alzo e gli vado vicino.
L’unica cosa che sono riuscito ad ottenere in questi mesi di costante presenza è che si fa guidare e toccare da me: non lo permette a nessun altro, tranne che a Sally e ad un altro paio di persone della clinica. Non ha reazioni particolari, semplicemente resta lì come un sasso, inerte, ed è impossibile muoverlo.
“Andiamo” gli dico dolcemente tirandolo su per un braccio.

John si alza e viene con me, come è sempre stato.

Nel taxi verso casa, la scena è identica a come’era una volta.
Io e lui seduti vicini, John che guarda fuori dal finestrino dal suo lato, io dal mio.
Stavolta, però, il silenzio rende tutto surreale.
Gli prendo una mano, è calda. Lui non reagisce.
“Vedrai, starai meglio” prometto al suo profilo placido, mentendo.
E’ compito mio fare che accada.
Come è stata colpa mia quello che è successo.

Un flashback che rifiuto con tutte le forze si insinua a forza nel mio cervello stanco, ma non posso respingerlo. Ci penso ogni giorno, tutti i giorni.
In tutti i momenti.
Penso che se fossi saltato da quel tetto e fossi atterrato davvero sul marciapiede, lui ora non sarebbe in questo stato.
Sarebbe andato avanti. Starebbe vivendo. Avebbe trovato qualcuno. Sarebbe stato più o meno normalmente felice. O infelice. Come tutti.  
Invece sono tornato dalla morte, diciamo così, e ho scatenato una nuova serie di devastanti eventi. Il braccio destro di Moriarty, quel Moran di cui nemmeno conoscevo l’esistenza e che ho strangolato con ferocia con le mie stesse mani, guardandolo dritto negli occhi mentre moriva, ha pensato bene di usare John per vendicarsi.
Lo ha preso una sera qualunque, proprio quando le cose si erano sistemate in un certo modo, quando mi aveva appena perdonato e io gli avevo finalmente confessato quanto lo amassi, proprio quando avevamo appena cominciato a trascorrere notti intere e pigri pomeriggi insieme, facendo l’amore e parlandoci come non avevamo fatto mai, e gli ha fatto questo.
Torture, droghe... poi ha pensato bene di finirlo a botte.
Senza calcolare che il mio John ha un fisico robusto, una tempra da soldato.
Tutto quello che ha ottenuto, è stato ridurlo così.
Vivo ma morto.
Per colpire me, come sempre.

E’ da allora che non seguo più casi.
Ho rimesso tutto nelle mani di Mycroft. La clinica costosa, le cure, il mio sostentamento. Devo stare con John, è l’unica cosa che devo fare.
Devo portare a casa questo doloroso, amatissimo involucro vuoto e mantenere la mia promessa.

Quando arriviamo, lo guido su per le scale e mi sembra una scena irreale. 
Lo guido verso la sua poltrona e faccio in modo che ci si sieda.
Sembra identico ad allora.
Resto in piedi a guardarlo, il mio John a Baker street con me, ma questa scena ha in sè qualcosa di osceno, di malato.
Deglutisco a fatica e per un distorto istante penso a cosa succederebbe se lo baciassi, se lo spogliassi lentamente, senza spaventarlo, e lo tenessi stretto a me, e piano piano indulgessi me stesso verso il suo corpo immobile ma caldo.
Me lo lascerebbe fare? Cosa proverei io?
Dio... mi manca talmente tanto che non riesco a connettere.
Invece vado a fare del thè e gliene porto una tazza e lo aiuto a reggerla tra le mani e a portarsela alla bocca ogni tanto, dopo essermi assicurato che si sia raffreddato per bene.
Non è in grado di dire se una cosa è troppo calda o gli sta facendo male.
Bisogna assicurarsene prima.

Più tardi lo porto in bagno e mi prendo cura di lui.
Lo faccio sedere sul bordo della vasca, come ho imparato a fare in ospedale, e lo lavo con una spugna. E’ estate, fa caldo. E’ sudato, ma il suo odore è buono come sempre.
Quando la spugna impregnata di acqua fresca gli passa sul collo, chiude un attimo gli occhi in un’espressione che potrebbe essere di piacere, ma è solo un riflesso condizionato dovuto alla differenza di temperatura che percepisce sulla pelle.
Non gli parlo, non come fanno le persone a coloro che sono in coma o in stati simili.
Non è vero che può sentirmi.
Lo guardo, mi riempio gli occhi di lui, cedo sotto il peso del mio amore.
Non riesco ancora a capacitarmi di avergli fatto questo.
Non riesco a capacitarmi che sia in grado di camminare e muoversi, eppure sia andato da qualche altra parte.
Se fosse stato in coma in modo normale, immobile in un letto, sarebbe bastato rassegnarsi e staccare un respiratore. Ma John non è in coma.
Non è, e basta.
Gli accarezzo una guancia, senza ricevere nessun tipo di risposta, e penso che l’avermi incontrato sia stata la sua maledizione. La cosa che mi fa più male è che so che lui non la penserebbe così, se potesse pensare.
 Mi amava.
Con tutto sé stesso, mi disse una volta.
E io so che è vero.

E’ sera. Riesco a fargli mangiare qualcosa, un po’ imboccandolo e un po’ aiutandolo a portarsi la forchetta alla bocca. Per oggi sono stato in grado di provvedere, ho chiesto a Mrs Hudson di preparami qualcosa di buono e lasciarmelo in cucina. Lei non immagina. Ha fatto come ho detto, senza sapere che avrei portato John qui. Non c’era quando siamo arrivati, ho calcolato anche questo.

Più tardi lo porto a letto, nella mia stanza. Gli metto una tshirt di cotone per dormire, lentamente. Gli metto il collirio.
Non ho mai fatto queste cose a nessuno, ma non è molto diverso che farle a me stesso.
Lentamente lo aiuto a sdrariarsi, è stanco, lo vedo da come chiude gli occhi ogni tanto. Lascio la luce accesa e mi sdraio accanto a lui, appoggio la testa sulla sua spalla, infilo il viso nel suo collo, lo abbraccio e accavallo la mia gamba sinistra sulle sue.
Voglio stare così, come una volta.
Sento le pulsazioni dei suoi battiti cardiaci sotto le mie labbra, il calore che si irradia dal suo corpo pervade il mio, mi fa sudare.
Respiro il suo odore con profondità, mi riempio di lui.
L’unico amore della mia vita.
L’uomo che ho distrutto.
Aspetto che si addormenti, il suo respiro è leggero e costante, vedo il petto che si alza e si abbassa con cadenza regolare.
E mi sento sollevato.
Resto ancora non so quanto avvinghiato a lui, a ricordare.

Ricordare, ricordare tutto.
Il prima, il dopo, l’adesso.

Il dolore che provo è così intenso da farmi sentire senza significato, come se dal giorno della mia nascita io non avessi mai avuto senso in questo mondo.
Nè per coloro che ho salvato, nè per i morti che ho riscattato, nè per gli assassini che ho rovinato.
Un dolore che adesso mi guarda dall’angolo di questa stanza e sorride con denti affilati.
Lentamente mi distacco da John e mi sporgo dal mio lato del letto, recuperando una scatola che ho preventivamente messo nel comodino. Me la poggio in grembo e la apro.
Preparo l’attrezzatura con la mia precisione scientifica, è tutto calcolato, dosato.
Mi sento meglio.
Ho promesso di non piangere.
Quando sono pronto, mi avvicino di nuovo a lui, in ginocchio sul letto, e lo guardo.
Non ho mai adorato nulla così in tutta la mia vita, nemmeno mia madre quando ero bambino.
Questo è sempre stato... oltre.
Io e te, John. Il mio John.
Che non fa una piega quando gli stringo il laccio intorno all’omero e infilo delicatamente l’ago nell’incavo del gomito, dopo aver cercato la vena con dita così lievi che non l’avrebbero potuto svegliare mai.
Mi risiedo sul letto, con la schiena appoggiata alla testiera, e con uno sforzo sovrumano lo afferro da sotto le ascelle e lo sollevo un po’, quanto basta per infilarmi sotto di lui con le gambe, che adessso circondano i suoi fianchi, e tenerlo disteso su  di me.
La sua schena bollente aderisce al mio petto, la sua testa è mollemente abbandonata all’indietro, con la mia spalla sinistra a fare da cuscino alla sua nuca.
Piego la testa veso sinistra e resto con la mia guancia contro la sua.
Sento il respiro lieve che mi solletica l’angolo della bocca.
Aspetto.
Gli accarezzo i capelli, aspetto.
Mi giro piano due, tre volte a baciargli le labbra chiuse, morbide, con tutta la dolcezza di cui sono capace.
Mi fermo così, con le mia bocca sulla sua, immobile, dividendo la stessa aria con lui.
Fino a che percepisco il suo respiro che rallenta.
Piano.
Si ferma.
Le labbra si schiudono, il petto resta immobile.

Glielo avevo promesso.
Lui sa quando e come.

Lo stringo per un tempo infinito.
Non piango, ma mi lamento come se mi avessero sparato.
Ascolto i miei stessi mugolii soffocati sulla guancia di John e mi sembra di sentire un cane ferito per strada che uggiola.
Eppure non provo nulla di diverso dal dolore randagio che provo ogni minuto dal giorno dall’incidente.
Non è davvero cambiato nulla rispetto a qualche minuto fa, ragionando con logica.
Solo che la mia gola non riesce a non emettere quei suoni.
Non riesco a farla smettere.   
Non ho il controllo del mio corpo.
Io.
E quando mi rendo conto di questo, so che è il momento giusto.
Prendo il cellulare dalla tasca della vestaglia e digito un messaggio per Lestrade. Avrei voluto telefonargli, ma non riesco a smettere di gemere, non riuscirei a parlare.
Non voglio che sia Mrs Hudson a vedere tutto questo per prima.
Allungo la mano alla mia sinistra e tocco l’altra siringa.

Non un minuto di più.
Non un maledettissimo minuto di più.

La vista si appanna, comincio a vedere sfocato. Un dolce calore mi si irradia dalla nuca facendomi venire sonno.
Le mie braccia sono sempre attorno a John, il suo peso è su di me, il mio viso schiacciato contro la sua tempia confortevole.
E’ così che ho sempre immaginato che accadesse, fin da quando lo conosco.
Fin dalla prima sera che ha dormito qui.

Per questo credo di stare sorridendo.
  
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