Piccole
scelte sbagliate.
Entrò in casa di corsa, buttò l’impermeabile su una
sedia e scaraventò la ventiquattrore a terra come se dentro non ci fosse un
computer portatile da più di mille dollari – Parto!- gridò – Me ne vado!
Elijah era seduto sul divano del salotto. Lo vide
alzare lentamente lo sguardo e scoppiare immediatamente a piangere. Sembrava quasi
che quelle lacrime fossero sempre state lì e non avessero aspettato altro che
un pretesto per uscire per tutto quel tempo. Arrancò verso di lui con passi
incerti, una mano tesa nel vuoto.
Inciampò nella ventiquattrore abbandonata a terra e
cadde ai suoi piedi.
Per qualche minuto gli unici suoni nella stanza
furono il rumore dei singhiozzi di Elijah e il suono che fece la stoffa della
sua camicia mentre stringeva le braccia attorno alle sue ginocchia.
- Non ti basto?- pigolò guardandolo con quei grandi
occhi grigioverdi che avrebbero intenerito anche un killer – Non ti basto più?-
domandò ancora, mentre le sue belle mani bianche correvano a sbottonargli la
patta dei pantaloni.
Elijah era un ragazzo carino e tutto, ma era
decisamente troppo convinto che il sesso fosse il modo migliore (o magari
l’unico) per tenere le persone legate a lui. Probabilmente nessuno gli aveva
mai spiegato la differenza fra lo scopare e l’amarsi e lui aveva deciso che
questo non era suo compito.
Fu probabilmente il sesso peggiore della sua vita. Elijah
se ne stava immobile a singhiozzare con la faccia premuta contro il muro e lui
faceva il suo dovere. Dentro-fuori, dentro-fuori,
dentro-fuori, agitare e chiudere bene prima dell’uso, grazie e arrivederci.
Deprimente.
Per lo meno non sarebbe stato lui a risvegliarsi in
un letto vuoto con soltanto la compagnia di un biglietto d’addio.
Si accese una sigaretta e ne tirò una lunga boccata,
buttandosi all’indietro sul sedile della macchina, completamente circondato da
valige. Di solito non aveva così tante valige, ma quella volta era stato
talmente tanto fiducioso da voler comprare decine d’abiti. Questa volta era
sicuro che avrebbe funzionato.
Beh, non aveva funzionato. Pazienza. Doveva solo
cominciare da capo.
Probabilmente il suo capo si sarebbe arrabbiato e
gli avrebbe detto che non poteva sobbarcarsi un dipendente che cambiava casa
più spesso di quante volte cambiava le mutande. Ma lui non capiva e non avrebbe
mai capito, così come Elijah non poteva capire, così come Evan non aveva capito
e così come Henry, Percival, Morgan, Tyler, Mike, Francis non avevano capito.
Così come nessuno aveva mai capito.
Aprì la portiera e corse in mezzo ai cespugli che
delimitavano la piazzola di sosta il più rapidamente che poté.
Rimase a guardare la sua colazione sparsa per terra
per dieci minuti abbondanti, poi sospirò e vi lasciò cadere dentro la
sigaretta. La rimpiazzò subito con un'altra (si poteva dire che usare e rimpiazzare
fosse praticamente il suo sport preferito da qualche tempo a questa parte) e
tornò in macchina con in bocca il sapore di vomito e nicotina.
Gli piacevano i ragazzi giovani. Non troppo giovani,
però, aveva abbastanza problemi anche senza le accuse di pedofilia. Attorno ai
venticinque andavano bene. Trenta, magari. A trentacinque erano già da buttare
nel cesso.
Dovevano avere gli occhi chiari, la pelle rosa, il
naso all’insù, la cassa toracica piccola, non essere troppo alti e mangiare come
degli uccellini. Avere una casa propria, saper cucinare e saper cantare erano
punti in più. Essere vergini erano una valanga di punti in più.
Gli piaceva, però, che fossero delle bestie a letto.
Certo, l’essere bestie a letto eliminava la parte della verginità, ma pazienza.
Gli piaceva che lo costringessero a letto per ore e ore fino a farlo sentire
distrutto. Considerava un successo ogni giornata passata riverso sulla
scrivania a bere caffè e gatorade.
Di solito, mentre dormivano, lui scappava in bagno
e, senza far rumore, vomitava. Quel gesto era una sorta di liberazione, per
lui.
Una liberazione da quel peso che sentiva a livello
dello stomaco e dal malessere generale che impegnava la sua vita come un puzzo
nauseabondo, una liberazione da quel nome che se ne stava sempre lì incastrato
tra lo sterno e la gola e non usciva mai. Era il nome che voleva chiamare più
di ogni altro e l’unico che non poteva chiamare. E che restava lì, come un
peso, senza mai andarsene.
Il messaggio che gli aveva mandato era aperto e lampeggiava,
nero su verde, sullo schermo del suo iPhone nuovo,
seicento dollari di cellulare che avrebbe distrutto in una settimana, se lo
sentiva.
Digitò rapidamente la risposta e poi rimase a
guardarla a lungo, chiedendosi se non ci fosse un modo migliore per esprimere
quei pensieri. Era dura avere un intero libro nel cuore e non riuscire neanche
a scrivere un messaggio.
Quando lo terminò lasciò scivolare il cellulare sul
sedile del passeggero, chiedendosi se era davvero il caso di spedirlo o no.
Poggiò la fronte sul volante e sospirò, pensando a Elijah.
Era davvero un caro ragazzo ma era davvero troppo fottuto. Si attaccava
morbosamente alle persone ( e ai loro cazzi, gli venne da pensare) alla
disperata ricerca di relazioni che servivano solo a danneggiarlo di più ( come
se fosse possibile, in fondo) .
Lui era stato chiaro fin dall’inizio se voleva stare
con lui, doveva seguire le sue regole.
Elijah aveva i capelli biondi, di un bel color oro.
Andavano tinti. Il castano non gli stava neanche tanto male, in fondo.
A Elijah piacevano i pantaloni larghi a vita bassa.
Via. Un paio di pantaloni stretti a vita alta avrebbe valorizzato meglio le sue
gambette da fenicottero.
Elijah non cucinava. Avrebbe imparato.
Non sapeva suonare. Avrebbe imparato anche quello.
Canticchiava benaccio. Poteva migliorare.
Dopo quasi quattro anni di relazione era
praticamente perfetto. La sua opera migliore, il suo capolavoro.
Poi, quel messaggio. E tutto era crollato facendo
decisamente troppo rumore.
All’improvviso capì che quello che non aveva in casa
non era un capolavoro, ma una copia venuta male, un palliativo con cui cercava
di mettersi l’anima a posto.
Una macchina si fermò accanto alla sua. Soffiò una
nuvoletta di fumo contro il parabrezza e guardò la scia di macchine che gli scorreva
davanti. Un serpentone infinito di luci e metallo che si snodava per chilometri
e chilometri. Tutta gente in fuga da qualcosa e in cerca d’altro come lui,
pensò.
Due dita tamburellarono delicatamente sul vetro
della sua macchina. Il viso di Elijah sembrava distrutto e solo allora notò che
era davvero dimagrito troppo negli ultimi tempi. Quando l’aveva conosciuto era
più rotondetto.
Uscì lentamente fuori della macchina, sebbene ogni
molecola di lui stesse scuotendo la testa “pessima mossa amico, pessima mossa”.
Sapeva benissimo che riavvicinarsi a qualcuno dopo una rottura non era una
mossa sveglia. Specialmente se quel qualcuno era Elijah.
Si spense la sigaretta sotto la suola della scarpa
mentre Elijah si poggiava alla sua macchina, il viso che scompariva
nell’oscurità della notte.
- Quattro anni- disse – tre mesi, quindici giorni e-
si guardò le dita – cinque ore, credo. E tu non hai fatto altro che usarmi.
- Cambierebbe qualcosa se ti chiedessi scusa?
- No, credo di no.
- Allora preferisco non farlo. Sai com’è, la dignità
e tutto il resto.
Elijah sorrise leggermente.
- Non ero abbastanza “lui”, per te?
Abbassò il capo, fuggendo dagli occhi di Elijah e
dal suo sguardo triste.
- No, non lo ero. Non sarò mai abbastanza “lui” per te. Ma è normale. È giusto. Le
copie non battono gli originali, non è vero?
Annuì.
Elijah singhiozzò. Cristo, quel ragazzo aveva troppo
la lacrima facile – Dimmi che mi ami- disse con la voce rotta dal pianto –
dimmi che mi ami e che vuoi tornare con me. Che sarai mio per sempre così come
io sono tuo. Dimmelo, ti prego.
- Non posso dirlo. Lo sai benissimo.
Elijah annuì – L’ho sempre saputo, in fondo.
Nessuno avrebbe sentito il suono dello sparo.
Neanche Finn.
Si coprì il viso con le mani – Tutto questo non sta
succedendo.- sussurrò – Non sta affatto succedendo.
- Kurt, tesoro, calmati.- sussurrò Marcus
poggiandogli una mano sulla spalla. Kurt si voltò verso di lui e bastò quello
sguardo a fargli ritrarre la mano alla velocità della luce, neanche fosse stato
un cobra o qualcosa del genere – Marcus, mi hanno appena chiesto di
interrompere i preparativi per le mie nozze per andare ad identificare il
cadavere di mio fratello- sibilò a bassa voce – col cazzo che mi calmo, va
bene?
Marcus annuì leggermente basito e lo guardò entrare nell’obitorio,
scrutando la serie di cassette metalliche e pitturandosi immagini orribili in
cui i morti uscivano dai loro loculi e poi lo afferravano per portarlo con lui
e Finn piangeva ma lui non poteva
neppure consolarlo perché i morti lo portavano via.
- Di qua, signor Hummel.
Annuì, seguendo il dottore.
Finn era troppo lungo per stare in un letto, ma
entrava comunque alla perfezione in quella sorta di barella di ferro.
Il medico sollevò il velo, mostrando il viso di
Finn. Aveva gli occhi spalancati, vuoti ed opachi e la bocca aperta in una
sorta di espressione stupita. Non era certo la sua espressione più
intelligente, ma era di sicuro la più ricorrente.
- Può dirmi se è lui?
Annuì – Non ci sono dubbi.- pigolò, chiedendosi se
era meglio urlare, piangere, vomitare, svenire, sceglierne tre e farle tutte
assieme o tutte e quattro in rapida sequenza.
- Com’è morto?- domandò, lo sguardo perso negli
occhi di Finn.
- Gli hanno sparato. È morto sul colpo. Se la può
consolare posso dirle che non ha sofferto affatto.
- Consolante.-
mugugnò a denti stretti, chiedendosi se quel medico dicesse le stesse cose a
tutti – Posso chiudergli gli occhi?
- Se vuole.
Le palpebre di Finn erano fredde e leggermente
appiccicose. Ma almeno così aveva un filino di dignità in più.
- Passando oltre, posso chiederle se può identificare
un altro ragazzo?
- Quale ragazzo?
- L’abbiamo trovato accanto a suo fratello, ma non
aveva documenti. Magari lei lo conosce.
Alzò un secondo telo di plastica.
- Dio, che schifo.- sbottò. – Mi scusi.- aggiunse
poi verso il dottore, tornando a fissare la faccia coperta di sangue dell’altro
– Come ha fatto a ridursi così?
- Si è sparato in bocca, signor Hummel. Certamente
un suicidio.
- Ah. Pensa che…?
- Un omicidio-suicidio? Possibile. Ma non sono io a
doverlo dire.
“Allora lei
che cazzo ci fa qui?!” Non lo disse.
- Lo conosce?
- Non so molto della sua vita.
“Non mi
parlava da quasi dieci cazzo di anni, sai.” Non disse neanche questo.
- Le somiglia, per quanto ne è rimasto.
- Già.- si voltò verso la scatola che conteneva il
portafoglio di Finn – Posso darci un occhio dentro? Tanto ormai è appurato che
lui- fece un vago gesto in direzione del ragazzo– non lo conosco.
- Faccia pure.
Nel portafoglio di Finn c’erano cinquanta dollari,
bigliettini di motel, un preservativo, la patente, la carta d’identità e una
foto sgualcita spiegata in quattro. L’aprì con religiosa attenzione,
stendendola con le mani sopra la scrivania del dottore. Era vecchia di almeno
dieci anni. Finn sorrideva e lo abbracciava, tirandolo verso l’obbiettivo della
fotocamera. Anche lui sorrideva. Il dito di Finn copriva metà foto.
Singhiozzò e si lasciò scivolare la foto in tasca,
coprendosi la bocca con la mano per non farsi sentire. C’era anche il suo
cellulare, ancora acceso.
- Posso..?
- Faccia ciò che vuole. Era suo fratello.
- È mio
fratello.- disse. Aprì il menù e andò a vedere le foto. Erano tante. Finn e
vari ragazzi, tutti che somigliavano a lui in maniera più o meno marcata, tutti
sorridenti, tutti felici con lui. C’era anche il ragazzo del lettino, nelle
ultime foto. Lui e Finn a cena, lui e Finn a letto, lui e Finn in vacanza al
mare, lui e Finn che sciavano, lui e Finn che facevano un sacco di cose belle.
Andò a guardare i messaggi. Finn era un tipo curiosamente meticoloso solo in alcune cose.
Ad esempio aveva cancellato tutti i messaggi ricevuti e quelli spediti, tranne
alcuni ricevuti da un tal Elijah (che, gli venne da supporre, doveva essere il
ragazzo delle ultime foto) e qualche messaggio di tour operator
o banche o, in genere, quelli che contenevano cifre monetarie.
C’era un solo messaggio fuori posto, un testo nella
cartella bozze indirizzato a lui.
Lo aprì con le mani tremanti.
Era la risposta al –gelido- invito al suo matrimonio
che gli aveva mandato qualche giorno prima. Ricordava benissimo di averlo
mandato senza aspettarsi nulla, di aver pensato che quasi sicuramente Finn non
l’avrebbe neppure letto.
Ricordava di aver pensato che Finn non era più ne
suo amico né suo fratello, visto e considerato che dieci anni prima se n’era
andato senza neanche salutarlo, scomparendo dall’appartamento che condividevano
a New York mentre lui era lezione.
Si coprì il viso con le mani e cadde in ginocchio,
il medico che gli saltellava attorno senza sapere cosa fare e la luce bianca
dell’obitorio che si rifletteva sul suo anello di fidanzamento.
“ Non sono stato così intelligente da rendermi conto
che ti amavo prima di perderti per sempre, né sarò mai così coraggioso da
irrompere i chiesa chiedendoti di fuggire con me. Ma, se avessi il tuo
coraggio, fuggirei da quella chiesa e,
se avessi la tua intelligenza, avrei già capito che se c’è una persona che mi
ama davvero e che non smetterà mai di farlo, anche se in maniera meschina e
paurosa, questo non è l’uomo che sto sposando.
Possiamo ricominciare da capo?
Io sono Finn Hudson. Tu chi sei? Il tuo viso mi
sembra familiare…”
- Mi chiamo Kurt Hummel-
sussurrò tenendo quel cellulare stretto fra le dita – sono in classe con te a
matematica e spagnolo, ma tu sei sempre troppo occupato a guardare altrove per
notarmi.
A.Corner___
Scritta un secolo fa, non betata,
riletta di tanto in tanto. Ero di pessimo umore quando l’ho scritta xD