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Autore: CharlieBb    14/05/2012    2 recensioni
E il momento in cui il tuo cervello si decide a processare l’immagine di una busta, in mezzo alle scartoffie, con il tuo nome scritto sopra in una calligrafia che conosci più che bene, così bene che potresti imitarla se solo volessi –non vuoi, ovviamente, perché quella calligrafia non ti piace.
[SPOILER 2X22]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: [Trying to] Find a way down a road we don't know.
Autore: Me medesima stessa.
Fandom: Hawaii Five-0 (2010)
Pairing: Steve/Danno; Danno's POV.
Rating: Giallo, giusto perchè c'è qualche accenno.
Conteggio parole: 1.421
Disclaimer: Non mi appartengono, obvsly; non ci ricavo un soldo bucato, etc.
Note: #1, il titolo è preso dalla canzone "Ships in the night", di Mat Kearney. Se non la conoscete, filate ad ascoltarla.
#2, contiene SPOILER per l'episodio 2x22. Siete avvisati.
#3, l'ho scritta di getto dopo aver visto suddetto episodio. Non è neanche betata, sono le due del mattino e il mio cervello non connette. Siate clementi.

*

Quel momento  in cui arrivi in ufficio, puntuale come al solito, con sulle labbra ancora il sapore del caffè appena consumato; quel momento in cui ti siedi alla scrivania, un sorriso sul volto al pensiero di trascorrere il fine settimana con la tua bambina –finalmente!- e i tuoi occhi si poggiano distratti sulle carte che vi stanno sopra. Rapporti firmati da restituire, altre scartoffie di cui, pensi, ti occuperai più tardi perché adesso il sole splende e Gracie è impaziente di venire a stare un paio di giorni da te e il mondo è un posto migliore. E il momento in cui il tuo cervello si decide a processare l’immagine di una busta, in mezzo alle scartoffie, con il tuo nome scritto sopra in una calligrafia che conosci più che bene, così bene che potresti imitarla se solo volessi –non vuoi, ovviamente, perché quella calligrafia non ti piace.

Il momento in cui apri la busta e cominci a leggere, e l’ancora più terribile momento in cui senti la sua voce dentro la tua testa, la senti forte e chiara come se lui fosse lì con te, seduto accanto a te intento a leggerti ad alta voce il contenuto della lettera. Ma lui non c’è, e la sua voce è solo una proiezione forse un po’ psicopatica del tuo ormai contaminato cervello.

Il momento in cui realizzi che non c’è. Lui non c’è, se n’è andato e chissà quando tornerà. È andato via senza salutarti, senza neanche degnarsi di dirti quelle parole guardandoti in faccia, e tu vorresti solo prenderlo a pugni fino a farti sanguinare le nocche.

A quella giornata ne seguono altre, altri momenti in cui la vita stessa sembra scorrerti accanto senza toccarti, senza coinvolgerti nella sua frenetica danza. Ti sembra tutto ovattato, così finto, come se stessi vivendo un sogno –un incubo- e non riuscissi a svegliarti.

I giorni passano, e alcune notti ti svegli urlando, sorprendendo te stesso. Il telefono non squilla e gli incubi si susseguono, incessanti e angoscianti, mentre i suoi occhi azzurri ti perseguitano senza darti pace. La paura di non vederlo più tornare ti perseguita, la paura di rispondere a una chiamata da un numero che non conosci e sentirti dire che lui non c’è più, questa volta per sempre.

Le ore scorrono così lente che puoi quasi sentire il rumore del tempo che ti scivola addosso, non importa quanti casi tu abbia risolto o stia seguendo. Perché se anche continui a dare il meglio di te sul lavoro, be’, la verità è che non ti ci metti anima e corpo. La verità è che la tua anima è troppo impegnata a farsi inquietare da quelle stupide paure per curarsi di ciò che accade nel frattempo.

Ogni minuto che passa è insopportabile, sessanta fottuti secondi di pena che non riuscirai mai a cancellare dalla tua vita, che non riuscirai mai a lasciarti alle spalle. Quegli stupidi secondi pieni delle chiacchiere degli agenti del NCIS, pieni delle loro domande su dove lui sia, cosa stia facendo, sarebbe stato bello rivederlo. Già, rivederlo. A te basterebbe solo sentire la sua cazzo di voce e sapere che sta bene.

E quella mattina, quella mattina in cui ti trovi al quartier generale e sei chiuso nel tuo ufficio –ultimamente non fai altro, quando non sei impegnato a salvare qualche vita. Ti chiudi lì dentro e ascolti il rumore del tuo cuore che batte chiedendoti se anche il suo stia battendo ancora mentre si fa strada nella tua mente l’insana convinzione che sì, batte, deve battere, perché se smettesse di farlo te ne accorgeresti, lo sentiresti. Quella mattina in cui il tuo telefono squilla e il nome che appare sul display ti fa girare la testa, ti lascia a corto di ossigeno e la vita all’improvviso ricomincia a scorrere, come se qualcuno avesse alzato il volume al massimo dopo aver tenuto pigiato il tasto “muto” per troppo tempo.

L’istante in cui rispondi e la sua voce, cristo, la sua voce ti accoglie con la stessa sfumatura di sempre, forse un po’ arrochita, un po’ stanca, ma sua. Una parte di te non processa neanche il discorso che avete iniziato, a chilometri di distanza, ma si sofferma su quell’unico pensiero che ha dato al tuo mondo la carica per girare ancora: è vivo. Non che lo sarà dopo che lo avrai incontrato, ma tant’è.

Quando segui le sue indicazioni e lavori al caso quasi non ti sembra vero. Ti ritrovi a contare le ore, i minuti che ti separano dal suo ritorno e internamente sorridi, tieni le dita incrociate perché, cazzo, non può andare tutto male adesso che lui sta finalmente tornando.

La seconda telefonata ti procura una  scarica d’adrenalina non indifferente. Ti ritrovi a chiedergli, pentendotene nel momento stesso in cui pronunci le parole, ti ritrovi stupidamente a chiedergli che cosa indossa e poi, maledicendoti per averlo fatto, ti rispondi da solo. Pantaloni cargo. Ti mancano i suoi pantaloni cargo, di qualsiasi colore. Dio, tutto ciò che vuoi è vederlo tornare a casa.

Tutto il resto passa in sordina. L’omicidio, la CIA, la tua cattura, le minacce (“Se succede qualcosa a quell’elicottero verrò a cercarti e ti ucciderò”, cristo, hai finito per assomigliargli e la cosa ti spaventa), la tua fuga; è tutto ovattato e surreale, ma in un modo diverso, nuovo. Se prima era l’angoscia a separarti dal mondo, adesso è la voglia e la certezza che il momento che aspettavi e agognavi sta finalmente arrivando.

E, in effetti, arriva. Il cuore ti balza in gola quando parcheggi malamente l’auto insieme a tutte quelle della Yakuza e quella con la quale sono arrivati Chin e Kono. Il cuore ti balza in gola e ti manca il respiro mentre estrai la pistola e la tieni puntata contro Wo Fat, mentre tutte le altre armi sono puntate contro l’unica cosa che ti fa sentire veramente vivo.

Quando tutto finisce, quando arrivano i rinforzi e gli arresti non si contano puoi finalmente avvicinarti tanto da distinguere il blu dei suoi occhi nonostante il cielo notturno e le parole “Book ‘em, Danno” fanno sentire te finalmente a casa, ti fanno sentire come se avessi appena preso una boccata d’aria dopo essere stato in apnea per tanto, troppo tempo.

C’è un momento, mentre le sirene della polizia risuonano insieme ai passi di tutti i presenti, c’è un momento in cui Steve ti porge la mano e quando la prendi la senti calda, solida contro la tua e tutto il resto svanisce, il mondo intorno non esiste più e c’è solo lui, di fronte a te, dentro di te. Quando ti abbraccia inspiri l’aria a pieni  polmoni perché, dio, è lì, è davvero lì e non gli permetterai mai più di andar via e di lasciarti come ha fatto. Non gli permetterai di ucciderti di nuovo.

Il momento più bello –della giornata, degli ultimi mesi, della tua intera vita- è quando prendete posto su quell’Impala rossa, tu alla guida e lui che si sistema sul sedile del passeggero senza sollevare la minima obiezione. Lo guardi, in silenzio, per quelli che sono un paio di secondi ma ti sembrano durare in eterno; lo guardi e realizzi che il tuo cuore ha ricominciato a battere davvero, non ti eri quasi  accorto che avesse smesso (lo sai che è una bugia, ma il tuo ego ne ha bisogno e quindi amen, puoi conviverci). Gli poggi una mano sulla nuca all’improvviso e spegni il cervello quando altrettanto improvvisamente pressi le tue labbra sulle tue con un pizzico di violenza in più del necessario. Hai bisogno che capisca, che senta tutto quello che non riuscirai mai a esprimergli a parole –ma non ce n’è bisogno, quando incateni gli occhi ai suoi riesci a leggere in quel blu così familiare che lui sa, il bastardo. Gli mordi forte il labbro inferiore, perché se lo merita, perché puoi, prima di passarci sopra la lingua e ritrovarti ad ansimare come neanche un adolescente alla prima cotta.

«Voglio ucciderti».

Quando Steve scoppia a ridere ti accorgi di quanto ti sia mancata  la sua risata, di quanto ti sia mancato ogni più piccolo istante trascorso con lui e vorresti odiarlo o picchiarlo ma non ci riesci.

«Aspetta che ti chieda scusa come si deve, prima».

Steve McGarrett è l’uomo più sconsiderato e avventato del pianeta, ti fa scoppiare le coronarie un giorno sì e l’altro anche, ogni tanto ti viene anche voglia di ucciderlo. Ma è tornato a casa, ed è tuo, il tuo idiota sconsiderato e avventato. Forse riuscirai ad abituartici. O forse ti sei già abituato.

   
 
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