E' immobile
come un
meccano cui sia finita la carica. Sono tornato, aveva detto Sherlock
nella
sua sciarpa di sempre, così di sempre che sembrava ingiusto
fosse rimasta così
uguale dopo tutto quello che era successo. Ma lui era rimasto immobile
e con i brividi
nel sangue, perché si era dimenticato di nuovo di mangiare e
si ricorda solo ora che
il corpo umano non è indipendente dal mondo esterno, anzi
tutt’altro, ha
bisogno d’aria, di cibo, di sole, di affetto. A John è
rimasta solo la prima
(e spesso gli sembrava pure che mancasse) dacché persino il
sole ha migrato,
scegliendo mete ben diverse da questa Londra inquinata di gente e di
grigio che
non sa che sbuffare volute di fumo e contrarsi in palazzi sempre
più alti e
case sempre più vuote. Stai bene, aveva chiesto Sherlock,
con la solita pelle
di sempre, con quel neo minuscolo nel posto di sempre, una mancanza di
rispetto
per tutti quei giorni che si erano deteriorati sempre di più
nella vita di
John. Lui sempre più simile ad una foglia accartocciata, il
neo e la pelle
tutta gli stessi di prima. John contrae appena le labbra,
perché Sherlock è
sempre stato un egocentrico bastardo irrispettoso e maleducato e
nemmeno quello
è cambiato. Se il nostro caro consulting detective avesse dato
più importanza
a qui sentimenti che rifuggiva come la peste, come il ferro che teme di
arrugginire sotto le lacrime d’acqua, come
l’ingranaggio che controlla furtivo
la sciagurata presenza di un sassolino, avrebbe capito che aveva fatto
una
cazzata. Che sarebbe stato meglio non tornare proprio mai mai, andare a
fare il
monaco in Tibet e dedurre dalla pelata da dove provenisse questo o
quell’eremita.
Invece adesso guarda
John ed è come avere tra le mani un cubo di
Rubik incollato, con le facce che non si riescono a muovere*.
Le labbra di
John ribollono
in un tentativo difficilmente arginabile di aprirsi e scagliare una
frana di
insulti pesanti come macigni su quella faccia levigata che gli sta
davanti,
Sei l’uomo peggiore che conosco, vorrebbe dirgli, Non ho
intenzione di posare i
miei occhi su di te una singola sola altra volta, gli nasce tra i
denti, ma in
qualche modo riesce a ingoiare quella frase a cubetti. Sei morto, dice
invece,
No John, sono proprio qui davanti a te, vivo e vegeto, Tu sei morto,
Toccami
John, sono qui, dice Sherlock facendo un passo in avanti e togliendo le
mani
dalle tasche, Tu sei morto e faresti meglio a continuare ad esserlo,
gli
risponde il dottore facendo un passo indietro e stringendo un pugno,
Andiamo
John, non, Non cosa, Non negare l’evidenza,
L’evidenza esiste solo per chi la
considera tale, Cosa significa ora tutto questo filosofeggiare, John,
Significa
che sei morto e non c’è nulla che possa
convincermi del contrario, Stai bene
John, Sto bene chiedi, sto bene, Sì, stai bene John, mi
sembri un po’ stanco,
forse gli incubi sono tornati, Sono tornati, ti stai chiedendo,
Sì John, Non
sai niente di me, Stamattina hai sbattuto un ginocchio nello spigolo
del comò e
sei andato in cucina per cercare del ghiaccio ma ti sei arrestato sulla
soglia
perché qualcosa ti ha distratto e alla fine non, Non voglio
dire questo, Questo
cosa, Questo. John gonfia il petto e lascia
appena il tempo a Sherlock di
inclinare di qualche millimetro, volendo potremmo fare una stima della
misura,
ma non è il caso poiché John sta per parlare,
dicevamo, Sherlock inclina appena
il capo e non capisce, non capisce o altrimenti si metterebbe al
riparo.
Sherlock
continua a non
capire mentre John lo oltrepassa e va in camera. Forse considera chiusa
la
conversazione, eppure Sherlock era convinto che stessero arrivando al
punto di
svolta, certo ha vagliato almeno trentotto alternative, ma queste ora
si sono
ridotte a due, poi a nessuna, perché John è un
cubo di Rubik che non ruota e ha
tutti i tasselli nel posto sbagliato, i colori sono in piena
rivoluzione, i
cubi rimangono contratti in quell’odiosa resistenza ribelle
alla logica,
sbandierano in faccia a Sherlock la loro fiera scompostezza, e dalla
camera di
John provengono dei rumori strani, come suoni di protesta di un mobile
maltrattato. Tendendo un orecchio, Sherlock indovina che sia un fondo
d’armadio,
ma c’è una vibrazione leggera che lo confonde, Non
puoi tornare qui con il tuo
barattolo di cuori e pretendere che mi riprenda il mio così,
come se niente
fosse, gli dice cacciandoli tra le braccia il violino, Cosa significa,
John, Lo
sai bene cosa significa, razza di idiota, e ora vattene e vedi di
rimanere morto
per il resto della mia vita, Non posso, Devi. Sherlock pensa
che il suo
obbiettivo si rivela più difficile da raggiungere di
quanto abbia previsto,
e che il dottore non ha ancora smesso di infilare metafore letterarie nelle
frasi
della sua vita. Era interessante analizzare come avesse definito
Barattolo di
cuori tutta quella matassa di persone che si erano intrecciate nella
sua vita e
che in qualche modo aveva portato con sé in quei mesi di
provvisorio decesso.
Oltretutto si adattava piuttosto bene agli esperimenti che soleva
condurre
sotto lo sguardo interessato del dottore, impacchettato in
un’occhiata
fuggevole di riprovazione, perché per la sua morale
integerrima e pura non era
cosa giusta svolgere sperimentazioni su pezzi di carne recuperati
dall’obitorio,
nonostante Sherlock gli avesse sempre ripetuto che si trattava di
ottima carne,
cadaveri di prima qualità che nessuno era andato a
reclamare. Sprecarli sarebbe
stato un vero peccato. Sei ancora qui, Ottima deduzione, Troppo vivo,
Persino
più vivo di te, Non ho intenzione di continuare questo
teatrino, Come pensi di
metterci fine, dunque, Sei un pezzo di merda e non sarai capace di
rovinarmi la
vita mai più.
John oltrepassa
nuovamente Sherlock e va in cucina, cerca le
chiavi che devono essere da
qualche parte lì intorno, non le trova,
torna in salotto e tasta con rabbia i
cuscini che apparentemente gli hanno fatto un grave torto, per
meritarsi un tale
brusco trattamento. Il lettore, certamente attento e forse un poco
perplesso da
tutta questa storia su due uomini che una volta si amavano e adesso
sembrano
arcinemici cosmici alimentati nei gesti da un istinto primordiale di
acidità,
non tarderà a comprendere che Sherlock troverà le
chiavi molto prima di
John. Sono nella serratura, Cosa, Come cosa, le chiavi, no, Certo che
sono
nella serratura, dove dovrebbero stare secondo te, Non lo so John, di
solito le
tenevi sempre con te, in quella tasca sul petto, Solito è
morto buttandosi giù
da un tetto, Non fare il melodrammatico, E tu non essere vivo, se non
ti dispiace,
Mi dispiace John, Sai una cosa, Sherlock, Cosa John, e il dottore qui va alla
porta e si stringe le chiavi in mano, forse spera che gli entrino
nella
carne e chiudano a doppia mandata la ferita che gli si sta
riaprendo
dentro, quello sgabuzzino pieno di scheletri che ha chiuso con
così tanta
fatica, cercando la bellezza nelle cose stupide e piccole a cui tutte
le
persone macellate dal dolore cercano di aggrapparsi per sentirsi meno
ragù di
carne e più persona in vita. Il tuo supercervello
superegoista non ti serve a
molto, ora, sbaglio, Non sbagli John, ma a mia discolpa posso dire che
sei
diverso dal solito, strano, Strano, Sì, strano, Ti sei
chiesto perché, Non ci
vuole molto a capire che sei ferito. Il dottore scoppia a ridere, ma
Sherlock
vorrebbe farlo tacere, soffocargli quel suono raschiante e
ricacciarlo
più giù delle corde vocali, perché
quella risata non è di John e quegli occhi
opachi non diventano luminosi e rimangono solo i denti e le ciglia
grottesche che ombreggiano la curva delle guance.
Allora lascia
che ti
aiuti, Sherlock, Lo hai fatto spesso John, forse non te l’ho
detto abbastanza,
Deduzione brillantissima, Il tuo tono è ironico, Il mio tono
è. John butta il
viso in mezzo alle pieghe della sua mano e forse spera che
quel pezzo di
tendini e ossa basti a farlo soffocare lì, più
morto di tutti i morti che
ha visto, morto non come un cappotto liquefatto su un marciapiede
che poi si
rialza e torna a bussare alle vecchie porte, morto come un morto
sepolto sotto
tre metri di terra. Chi credi di essere, a camminare avanti e indietro
sulla
vita delle persone, Ho fatto un errore, Ne avessi fatto uno, Ho fatto
qualche
errore, Ne ho fatti più io, come ascoltare quello Stamford e
assistere alla tua
degenerazione, Non ti sembrava degenerazione prima che me ne andassi,
Prima che
morissi, Sì, Ammetti di essere morto allora, Tu sei matto, E
tu sei morto,
conclude John aprendo la porta e chiudendosela subito dopo alle spalle.
Ha
paura di scoprire che il morto era lui, e che la vita gli è appena
stata
restituita, stropicciata come i vestiti che l’amante ti ficca
in mano quando
scopre che sta rientrando il partner legittimo, se così
vogliamo chiamarlo,
insomma, stropicciata come una lettera che sembrava tanto ben scritta e
che
alla seconda rilettura non ha niente del significato primario che aveva
in
mente il suo autore, e fidatevi se asserisco che ben conosco quella
sensazione,
davvero spiacevole. Umiliante, e John concorderà certamente
con me, immobile
dietro a quella porta che nasconde alla sua vista un morto troppo vivo
che non
vuole vedere mai più, e che odia, con quel suo barattolo di
cuori vecchi e
ancora sanguinanti sotto braccio, inservibili persino per il
più mediocre degli
esperimenti. Chi crede di essere, pensa John, per venire qui
e seminare cuori e
cicatrici calpestando l’esistenza altrui, razza di prepotente
egoista e
maleducato, lo odio.
Il lettore
perspicace
che abbiamo nominato in precedenza avrà certamente intuito
che non era
questione di odio, di essere troppo vivo per un morto o di prepotenza,
in fondo
il dottore ha una fabbrica di pazienza interna ed inesauribile,
ammirevole
in talune situazioni e problematica in tal altre, il rischio è di
passare
sempre per il fesso di turno, ma il buon Watson riesce sempre a
scongiurare
questo pericolo. Il motivo è che John odia se stesso,
perché lo sa che
tanto quella porta chiusa diventerà una voragine spalancata
nella quale
si lancerà, proiettato verso l’egocentrico bastardo
egoista e
presuntuoso, per di più maleducato, che si è accorto di
essere troppo vivo
per morire, e gli penetrerà negli occhi glaciali e in quelle
labbra
così a cuore che potrebbe strappargliele per mettere
una pezza al suo
petto.
John vorrebbe
staccare a morsi la sua traditrice mano destra, che è tornata sulla
porta e gira
ora la maniglia, fregandosene al massimo degli insulti mentali che
certamente sente
provenire da un cervello a lei prossimo. Sta aprendo un vaso di
Pandora
scambiandolo per una scatola di cioccolatini, e la cosa che
più gli riempie la
bocca di odio ferruginoso per se stesso e per i morti appena appena
troppo vivi
è che, per quanto si renda conto del cataclisma a lui
terribilmente
prossimo, non sarà capace di fermarsi.