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Autore: _Shantel    15/05/2012    14 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 15


Betato da Nes_sie

Non era da me fuggire in quella maniera, e anche ora che guardavo il mio riflesso sulla finestra mi sembrava di vedere una ragazza che non era Celeste. Avevo sempre cercato di superare gli ostacoli e di dimostrarmi forte e cinica di fronte a qualunque cosa mi accadesse. Ma quella sera nemmeno il mio subconscio era riuscito a farmi reagire, a infondermi la sua innata razionalità che, più di una volta, mi aveva tolto da numerosi impicci. Aveva taciuto, anche lui scosso da tutto quello che era accaduto in poco meno di un’ora. La mia fiducia era stata tradita prima da Leonardo, poi da Romeo. La menzogna di quel maledetto calciatore mi aveva fatto male, mi aveva ferita proprio quando avevo abbassato le mie difese e avevo ritirato gli artigli, per concedergli la possibilità di entrare a far parte della mia vita. Ma era stato Romeo ad avermi dato il colpo di grazia. Scoprire che lui, il mio migliore amico, la persona con cui avevo condiviso dieci anni della mia vita e di cui mi fidavo, mi aveva mentito solo per difendere Leonardo; era stata come una stilettata inferta con violenza all’altezza del cuore. Sapeva quanto odiassi i calciatori, quanto detestassi le bugie, quanto non sopportassi essere presa in giro. Eppure aveva contribuito a quella recita messa in piedi da Leonardo, preferendo difendere lui piuttosto che la sua migliore amica.
«Sto preparando il caffè per la colazione. Ne vuoi un po' anche tu?» mi domandò Venera, sbucando solo con il viso dalla cucina.
Mi voltai per poterla guardare negli occhi, stiracchiai le labbra in un sorriso e scossi la testa in segno di negazione.
«Preferisci un bicchiere di latte? Di tè? Un succo di frutta?»
«No, grazie, non voglio nulla.»
Ven roteò gli occhi verso il cielo e mugugnò di dissenso, sparendo nuovamente dentro la cucina. Tornai a guardare fuori dalla finestra quel paesaggio, baciato dai raggi solari mattutini, che non mi apparteneva: il giardino che circondava la cascina di casa Donati e poco più in là le strade di Tivoli.
Ero fuggita, scappata da Leonardo e da Romeo. L’aria nel mio appartamento era diventata irrespirabile, troppo pesante. Avevo sentito la necessità di allontanarmi da Roma per cercare di rimuovere il peso che si era posizionato sul mio petto. Avevo preso il mio vecchio zaino delle superiori e lo avevo riempito con qualche vestito e della biancheria intima. Lo stesso avevo fatto per Ven, riempiendo la valigia con i suoi abiti ammassati in una palla informe. L’avevo presa per un braccio, trascinata fuori dal mio appartamento, senza degnare Romeo di alcuna spiegazione. Aveva tentato di capire che cosa stesse succedendo, ma lo avevo allontanato in malo modo e spinto contro il muro, mentre tentava di fermarmi.
«Si può sapere che ti prende?» aveva urlato Ven, una volta uscite fuori dalla palazzina.
«Voglio andare via! Voglio allontanarmi da qui! Voglio dimenticare tutto quello che è successo!» le avevo risposto con un tono di voce forse troppo alto.
«E dove dovremmo andare?»
«Non lo so! Lontano da qui!»
Ven mi aveva fissata a lungo, sconvolta dal mio comportamento e forse dalle mie guance umide. Era raro, se non impossibile, vedermi piangere. L'ultima volta che avevo versato lacrime era stato quattro anni prima per il mio ex fidanzato, un traditore bastardo che aveva giocato con i miei sentimenti; da quel momento mi ero ripromessa di non piangere più per un ragazzo. Avevo sempre cercato di non far avvicinare più nessuno a me, mi dicevo che non avevo bisogno di un ragazzo al mio fianco. E soprattutto non volevo più innamorarmi. Per colpa dei ragazzi avevo accumulato una delusione dopo l'altra; avrei dovuto soltanto studiare e scrivere romanzi e lasciare l'amore ai masochisti che volevano farsi del male. Avevo chiuso con l'amore, con l'amicizia e con qualsiasi altro sentimento quella sera stessa. Avrei coltivato solo il legame che mi legava con Ven, qualcosa che andava ben oltre all'amicizia, sfiorando quasi la fratellanza. Venera era come la sorella che non avevo mai avuto, un pezzo di me che mi era stato strappato e che avevo ritrovato.
Il primo luogo che mi era venuto in mente era stata casa Donati e, seppur con qualche remora, Ven aveva accettato di ospitarmi nella sua cascina. Fortunatamente avevamo trovato un treno che ci aveva condotto a Tivoli, nonostante l'ora tarda. I genitori della mia migliore amica si erano stupiti di vedere la loro figlia già di ritorno ed ancora di più di vedermi lì con solo uno zaino e la faccia da zombie. Per fortuna, avevano avuto l'accortezza di non fare domande. Non sapevo quanto sarei rimasta lì. Fosse stato per me anche tutta la vita: più mi fossi allontanata da Roma e da chi vi abitava, meglio sarebbe stato per la mia sanità mentale. Ma lì avevo il lavoro alla gelateria e i corsi da seguire, per cui non avrei potuto trattenermi da Ven troppo a lungo. Non sapevo che cosa avrei fatto, una volta tornata a casa, come avrei fatto ad abitare ancora insieme a Romeo, dopo che la nostra amicizia era collassato come un fragile castello di carte, sotto un leggero soffio.
«Vuoi una brioche?» Ven comparì ancora una volta dalla cucina, con una tazza di latte e caffè in una mano e due Nastrine nell'altra.
«Non ho fame.»
Il sopracciglio sinistro di Ven si sollevò rapidamente, per poi tornare nella sua posizione naturale. Addentò con voracità la sua brioche; mi guardò: i suoi occhi blu sembravano scagliarmi contro lampi di rabbia.
«Per quanto ancora dovrà durare il tuo stato ameboide?» mi chiese scocciata.
Scrollai le spalle e mi andai a sedere su una poltrona, appoggiai la guancia sul palmo della mano e cominciai ad osservare con attenzione la fantasia del tappeto persiano del salotto. Non era da me stare seduta su una poltrona a non far nulla, a stare in silenzio piuttosto che urlare contro qualcuno o qualcosa, dal mio vicino di casa metallaro al digitale terrestre che faceva i capricci. Io stessa mi ero accorta del mio cambiamento e volevo reagire, smettere di pensare alla sera precedente e tornare la Celeste furiosa che ero sempre stata. Ma non ci riuscivo, il mio corpo e una parte del mio cervello si opponeva a quell'ordine.
«Comincio già a non sopportarti più,» borbottò, inzuppando la brioche nel latte e caffè. «Che cosa combini se ti piangi addosso? Un. Bel. Niente!» sillabò. «Tranne che risultare pesante e assolutamente insopportabile.»
«Permetti che possa esserci rimasta male?» chiesi retoricamente.
«Ovvio che tu ci sia rimasta male! Ma non per questo devi passare tutto il tempo a fissare fuori dalla finestra o ammirare lo schifoso tappeto persiano che ci ha regalato quella bacucca della prozia Agata!»
Ven appoggiò la tazza sul tavolino e ingurgitò l'ultimo pezzo di brioche, accovacciandosi accanto alla poltrona sulla quale ero seduta. Mi appoggiò una mano sul braccio e me lo accarezzò.
«Non hai nemmeno dormito stanotte. Ti sei coricata per un'oretta, poi ti sei alzata. E non mi stupirebbe se ti fossi messa a fissare il vuoto dalla finestra.» Abbassò un po' il tono di voce e abbozzò un mezzo sorriso. Sotto la scorza dura e cinica di Ven, c'era una piccola anima di zucchero e io ero una delle poche ad aver avuto il privilegio di intravedere quella parte di lei.
«In realtà, sono stata un po' in cucina prima di andare a guardare fuori dalla finestra,» confessai.
«Wow, interessante! Ti piace il set di coltelli che ho comprato? Non si sa mai che possano tornare utili...»
Ridacchiai appena e Ven  ne sembrò felice. Si alzò e mi strinse un braccio per costringermi a lasciare la comoda poltrona. Feci un po' di resistenza, ma riuscì a farmi alzare e sorrise trionfale.
«Si esce! Stiamo fuori tutto il giorno e voglio veder sparire quel musone sotto il quale si nasconde la mia migliore amica!»
«Non ho voglia, Ven...» mugugnai, ma lei mi puntò un dito contro e mi guardò perentoria.
«Il mio era un ordine.»
Tentai di oppormi, cercando di farle cambiare idea. Non ero dell'umore giusto per andare a fare una passeggiata e non le sarei stata affatto di compagnia. Dovetti cedere, però, all'ordine di Ven, anche perché mi aveva trascinata nella sua camera e mi aveva costretto a mettermi qualcosa di più decente di una maglietta su cui era stampata la faccia sbiadita di Mickey Mouse.
Le vie di Tivoli non mi erano affatto familiari, mi sentivo spaesata, come un pesce costretto a stare sulla terra ferma. In verità sentivo la nostalgia di Roma e della mia casa, anche se ero via solo da poco meno di dodici ore. Non ero abituata e quel cambiamento repentino e istintivo mi aveva scombussolata più di quanto mi sarei potuta aspettare.
Camminavamo in silenzio; Ven mi lanciava qualche sguardo speranzoso per spronarmi ad iniziare un discorso, ma notando la mia totale assenza di parola lasciava perdere e  cominciava a fischiettare. Cercai un argomento nella mia mente per cominciare a chiacchierare e rendere quella passeggiata meno pesante di quanto fosse, ma l'unico mio pensiero era rivolto a Robbeo e quel beota di Leonardo. Più tentavo di non farmi male, più me ne facevo involontariamente. E non ero la sola ad affondare ancora di più la lama, ma ci si metteva anche l'edicola che stavamo superando. La foto di Leonardo Sogno troneggiava sulla copertina di Vanity Fair e guardava l'obiettivo con il tipico sguardo ammiccante che aveva sfoggiato più volte anche con me. Ancora non mi capacitavo della facilità con cui Leonardo mi avesse ingannata. Ogni elemento per capire la verità era sotto i miei occhi fin dall’inizio. Leonardo era su ogni rivista, che fosse di gossip o di moda, era in ogni trasmissione televisiva e non mi avrebbe stupito scoprire perfino che Roma fosse tappezzata di cartelloni con il suo volto. Nemmeno durante la partita di beneficenza dei pulcini avevo capito, anche se era chiaro che la talpa rachitica non poteva essere il calciatore che il pubblico acclamava come proprio idolo. Forse perché erano stati tutti complici di quel film di cui ero la protagonista inconsapevole: non solo Romeo, ma anche nonna Annunziata, la prima ad appoggiare suo nipote e perfino il suo insopportabile cugino che, nonostante l’odio reciproco che li legasse, aveva comunque retto il gioco a Leonardo pur di divertirsi alle mie spalle.
Ma chi volevo prendere in giro? Nemmeno la più convincente interpretazione del miglior attore del mondo avrebbe potuto rendere veritiera quella situazione. Eppure io ci ero cascata, inghiottita dentro di essa senza che me ne rendessi conto.
«Dio mio. Sono proprio stupida,» borbottai tra me e me.
«Che succede, Cel?» mi chiese Ven, incuriosita.
«Come ho fatto a non accorgermi di nulla? Sono proprio tonta. Le sue foto erano ovunque, lui era ovunque nei programmi tv e io mi sono bevuta la scusa del fioraio!»
«Non sei stupida. Lui è stato solo più furbo di te.»
La guardai di traverso, leggermente offesa dal paragone con quel babbeo di Leonardo.
«Nel senso che ha approfittato del fatto che tu fossi invaghita per mettere in scena la sua “recita”,» spiegò con ovvietà.
«Quando l’ho conosciuto non ero invaghita. Pensavo solo che fosse un caprone con troppi muscoli e poca materia grigia.»
«Probabilmente eri attratta da lui. Quando poi hai cominciato ad uscirci le prime volte ti sei divertita, hai capito che la vita non è fatta solo di libri e di file Word. E così, anche se gli indizi erano lampanti, il tuo cervello si è quasi rifiutato di farteli vedere per proteggere la felicità ritrovata dopo tanto tempo.»
Rimasi stupita dalla saggezza delle parole di Ven. In quello che aveva detto c’era più verità di quanto volessi o avessi voluto davvero ammettere. Non avrei però mai ammesso la mia cecità di fronte alla bugia di Leonardo, era un affronto troppo duro per il mio orgoglio da poter essere tollerato.
«Può essere,» rimasi sul vago, cercando di non incontrare gli occhi di Ven. La mia migliore amica aveva la strana capacità di leggermi nel pensiero e in quel momento non volevo che intuisse la mia inquietudine. «Ma questo non cambierà le cose. Ormai ho chiuso con Leonardo, con la sua famiglia e con Romeo. Tornerò alla mia vita di prima, tornerò a studiare, a servire gelati e a scrivere i miei romanzi.»
Appena fossi tornata a casa, semmai fossi ritornata, avrei dovuto ricordarmi di cancellare per l’ennesima volta il file su cui avevo salvato il mio primo romanzo. Mi ero resa conto che era un’idea stupida quella che avevo buttato giù durante una fase di pura ispirazione. Sarei tornata sui miei passi, riscrivendo l’idea originaria che era molto meno dolorosa di quella attuale.
«Per cui vuoi tornare ad essere lo yogurt acido di sempre?» domandò sarcastica Ven. «Ottimo.»
«Senti un po’ da chi arriva la predica. Tu sei anche peggio di me.»
«La mia acidità è scritta in ogni gene del mio DNA. La tua deriva invece dal fatto di non avere un uomo. Quando c’era Leonardo eri molto meno burbera e davvero felice.»
Rotei gli occhi e guardai il cielo, sbuffando. M’infastidiva questo continuare a rimarcare il fatto che con Leonardo il mio umore aveva riacquistato un po’ di colore, oltre al grigio topo spento che lo aveva sempre caratterizzato. Era maledettamente vero: quel rinoceronte che bravo ad inseguire una palla era stato l’arcobaleno che aveva reso meno tristi ed uggiose le mie giornate. Ma questo non mi avrebbe mai fatto cambiare idea. La mia vita, per un limitato periodo di tempo, aveva cambiato rotta, ma era giunto il momento di riprendere il mio cammino senza più sbandate, anche se questo avrebbe significato un picco di acidità del mio carattere. Ma ormai tutti si erano abituati, perfino io stessa.
«Questa volta non mi farai cambiare idea, Ven.»
«Non ti voglio far cambiare idea,» disse lei, scrollando le spalle. «Ma lo vuoi sentire il mio pensiero su tutta questa faccenda?»
«Anche se ti dicessi di no, me lo diresti comunque. Per cui la tua domanda è alquanto inutile.»
«Infatti,» convenne con me, annuendo. «Secondo me te la sei presa troppo. In fondo ti ha mentito solo sul nome e sulla sua professione. Il fioraio Ruben ha lo stesso quoziente intellettivo del calciatore Leonardo, la stessa stupidità e la stessa delicatezza di un elefante. Quindi non capisco dove stia il problema.»
«Ti rendi conto che ha finto di essere una persona che non era? Se ci fossi passata sopra, quante cose avrebbe potuto nascondermi, inventarsi? Come potrei fidarmi di lui?» alzai il tono della voce, proprio quando la ferita invisibile che mi aveva squarciato il petto cominciò a pulsare di nuovo. «E poi è un calciatore. Sai come sono quelli, no? Appena vedono un paio di tette enormi e un sedere rifatto, non capiscono più nulla.»
«È inutile fare di tutta l’erba un fascio. Perfino l’uomo più rispettabile, con cinque lauree potrebbe perdere la testa per una Barbie senza neuroni,» rispose seccata. «E per quanto riguarda il primo punto, non credo che ti mentirebbe ancora una volta se tenesse veramente a te, con il rischio di perderti di nuovo.»
«Hai centrato il punto Ven. Non gli interesso, sennò mi avrebbe detto la verità.»
«Perché uno così dovrebbe perdere tempo con te?» domandò con un sorriso sornione ed io la guardai di sottecchi, curiosa di sapere dove volesse arrivare a parare con il suo discorso. «È ricco, bello e ogni sera partecipa ad un party diverso con migliaia di ragazze che fanno parte del suo mondo di lustrini e riflettori. Avrebbe potuto benissimo continuare a divertirsi, ma ha capito che non gli bastava più scaldare le lenzuola con una modella di cui non sa nemmeno pronunciare il nome. Se ha scelto te, un motivo ci sarà…» lasciò la frase in sospeso e schioccò la lingua, soddisfatta della sua arringa.
«Perché tu veramente credi che ora lui non stia in giro per Londra a cercarsi una gnocca con cui spassarsela stanotte?» domandai, con il chiaro intento di provocarla.
Ven fece spallucce, senza rispondere. Zittire un futuro avvocato con la tempra di Ven era una soddisfazione impagabile e gongolai nel mio piccolo per essere riuscita a zittirla.
«E del puzzone che mi dici?» domandò all’improvviso ed io la guardai un attimo confusa «Ciuccio,» esplicò poco dopo.
«Ah…» mugugnai, senza però rispondere alla domanda di Ven. Meno toccavo l’argomento Romeo, meglio era per me.
«Insomma, voleva solo renderti felice,» disse, con un tono quasi schifato perché stava difendendo il suo peggior nemico.
«Mentendomi?» chiesi ironica. «Capisco che magari Leonardo era giustificato dal fatto che mi conoscesse poco e che abbia un solo neurone nella scatola cranica, ma Romeo sa fin troppo bene che odio le menzogne.»
«Ciuccio non ha nemmeno quel neurone, per cui ha agito d’istinto, come fanno le scimmie,» rimase un attimo in silenzio, prima di parlare ancora. «Anche se le scimmie sono più intelligenti del tuo amico.»
«Ex amico,» la corressi e lei sbuffò.
«Per quanto gli porterai rancore? Per tutta la vita?»
«Probabilmente sì. Lui era l’ultima persona da cui mi aspettavo una pugnalata alle spalle!»
«Pugnalata,» ripeté, ridacchiando «Sei troppo esagerata, Cel. Non ha protetto un criminale che ha sterminato tutta la tua famiglia, santo cielo!»
«Che dici se cambiamo discorso? Potremmo prenderci un pezzo di pizza dal fornaio e mangiarla mentre passeggiamo,» azzardai per distogliere la nostra attenzione da Romeo e da quello che era accaduto la sera prima.
Ven mi guardò di sottecchi e sospirò, accogliendo la mia richiesta per non infierire ulteriormente. L’ultima cosa che volevo era affondare ancora di più il coltello nella piaga e scavare a fondo dentro di me, con il rischio di scovare verità che nemmeno io volevo venissero a galla.
Mentre gustavamo il nostro pezzo di pizza, la canzone dei Puffi cominciò a riecheggiare per le vie di Tivoli. Io e Ven ci scambiammo uno sguardo dubbioso, finché non capimmo che la musica proveniva dal suo cellulare.
«Ammazzerò Ciuccio, un giorno o l’altro,» borbottò, convinta che fosse stato Romeo a cambiarle suoneria solo per farle un dispetto.
Prese il cellulare dalla tasca dei jeans, cercando di non sporcarsi con il sugo e l’olio della pizza. Mugugnò di dissenso quando lesse il nome di chi la cercava e rimise il cellulare nella tasca dei pantaloni.
«Era il puzzone,» mi informò. «Credo che volesse parlare con te. Ma dato che nessuna delle due aveva voglia di conversare con il mangia-caccole, ho chiuso la comunicazione.»
«Hai fatto bene,» le sorrisi.
La nostra passeggiata durò quasi tutta la mattina e il primo pomeriggio. Ven si era offerta di comprarmi qualche vestito nuovo e, anche se avevo cercato di oppormi alla sua volontà di spendere soldi per me, dovetti cedere alle pressioni della mia migliore amica. Romeo tentò di chiamarla una decina di volte, senza arrendersi al fatto che io e lui avevamo chiuso forse per sempre.
Mentre stavamo tornando verso la cascina dei Donati, con i piedi doloranti per la lunga camminata a Tivoli, Ven ricevette un messaggio sempre da parte di Ciuccio. Sembrò quasi turbata nel leggere ciò che le aveva scritto e, nonostante le mie insistenze, non mi fece leggere l’SMS. Ero curiosa di sapere che cosa ci fosse scritto per convincere Ven ad allontanarsi da me per un po’ e chiamarlo al telefono. In tutti gli anni che si conoscevano non si erano mai scambiati nessuna telefonata, se non qualche scherzo telefonico che Romeo si divertiva ad ordire ai danni della mia migliore amica.
«Che cosa voleva?» le domandai, quando tornò verso di me.
«Parlare con te. Gli ho detto che era inutile che continuasse a chiamarmi perché tanto tu non avevi nessuna voglia di scambiare quattro chiacchiere con lui.»
Annuii, anche se con un pizzico di sospetto. C’era qualcosa di poco convincente in tutta la vicenda, ma decisi di non darci molto peso. Ven era la mia migliore amica, non mi avrebbe mai mentito.
Arrivammo a casa sua che era pomeriggio inoltrato. La luce del sole si stava già indebolendo e filtrava a fatica dalle finestre. Mi stesi sul divano, approfittando del fatto che i signori Donati non fossero ancora rincasati e non potessero vedermi in quello stato di pigrizia molto simile a quella di un bradipo. Il tintinnio del vetro sul tavolino mi fece aprire un occhio e vidi Ven appoggiare dei bicchieri colmi di succo di frutta. Poi mi scansò le gambe dal divano, rischiando di farmi cadere e si sedette accanto a me, cominciando a sorseggiare il succo.
«Stavo pensando ad una cosa…»
«A come uccidermi?» chiesi sarcastica, sistemandomi sul divano e afferrando il bicchiere.
«Al fatto che potremmo partire. Prenderci una piccola vacanza e staccare un attimo la spina. Credo che ti farebbe bene cambiare un po’ aria.»
«E dove troviamo i soldi, di grazia?»
«Mia madre ha vinto dei biglietti con i punti dell’Esselunga per due persone. Mi dispiacerebbe non usufruirne.»
«E quando si dovrebbe partire? E dove andremmo, soprattutto?»
«Non lo so. Vado a controllare.»
Ven si allontanò solo per qualche attimo, tornando poco dopo con un sorriso incerto sulle labbra, quasi come se mi stesse nascondendo qualcosa.
«La partenza sarebbe domani pomeriggio…»
«Domani? Come diavolo faccio con l’università e con il lavoro?»
«Non puoi chiedere a quel bombolone farcito del tuo capo di darti qualche giorno di vacanza? Si tratta solo di quattro giorni, comunque.»
«Non lo so, ci posso provare. Ma non ti assicuro nulla,» sospirai. L’idea della vacanza era allettante, anche se la partenza era troppo immediata; speravo che Bombolo mi concedesse qualche giorno per allontanarmi dalla città e riprendermi dalla mia delusione sentimentale. «E dove andremmo?»
Ven si schiarì la voce.
«Londra.»
Un goccio di succo di frutta per poco non diventò il mio assassino. Mi andò di traverso e per miracolo non morii soffocata.
«Stai scherzando? Non ci vado lì con il rischio di incontrare Leonardo!» sbottai, dopo aver visto la morte in faccia.
«Ma dai! Londra non è mica Paperopoli! È una metropoli enorme! Quante probabilità ci sono che lo incontri?»
«Sono sempre stata una schiappa in statistica…»
«Poche, pochissime! Quasi nulle!»
Scossi la testa, in segno di negazione. Con la sfortuna che mi perseguitava, nella grande metropoli lo avrei sicuramente incontrato e di rivedere dal vivo il suo sorriso non era la mia massima aspirazione.
«Dai, Cel! Sai quanto adoro Londra e che andrò a lavorarci dopo la laurea. Ho l’occasione di visitarla di nuovo in vista della mia partenza!»
Cercai di non cedere alla sua preghiera, ma i suoi occhi mi stavano supplicando e non riuscii a resistere. Lei avrebbe fatto di tutto per me, io potevo almeno fare lo sforzo di partire per Londra ed accontentarla. A quanto pareva, c’era un disegno ordito da qualcosa di superiore che voleva che io andassi in quella città.
E così mi ritrovavo a dover preparare lo zaino velocemente, perché l’aereo sarebbe partito fra meno di ventiquattro ore.
«E va bene. Andiamo a Londra,» sospirai sconsolata.
 
 
Ero riuscita a convincere Bombolo a concedermi quattro giorni di vacanza dopo quasi un'ora di telefonata e una ricarica da venti euro prosciugata. Avevo preparato il mio zaino con i pochi vestiti che mi ero portata dietro e alcuni capi che Ven mi aveva comprato il giorno prima. Non ero granché entusiasta di andare a Londra, soprattutto perché in quella stessa città c'era Leonardo e temevo di poterlo incontrare in qualsiasi momento. Ma Ven aveva ragione, avevo bisogno di staccare un po' e concedermi una vacanza, approfittando così di visitare la città in cui avrebbe voluto lavorare la mia migliore amica.
In vita mia, non avevo mai preso l'aereo ed ero terrorizzata al fatto di doverci salire a bordo. Poteva cadere nel bel mezzo del mare e non lasciarci via di scampo. Ven, accanto a me mentre si guardava attorno nell'immenso aeroporto, non sembrava affatto preoccupata. Sembrava più intenta a cercare qualcuno, piuttosto che alle catastrofiche conseguenze che lo schianto di un aereo avrebbe potuto portare.
«Stai aspettando qualcuno, per caso?» domandai.
«No, no. Mi guardavo solo un po' in giro,» mi tranquillizzò con un sorriso non del tutto convinto.
Annuii e scrollai le spalle, sistemandomi lo zaino da duecento chili sulle spalle. Alla fine di quel viaggio mi sarei ritrovata gobba come Leopardi.
«I biglietti li hai?» chiesi sospettosa, non del tutto convinta che quei biglietti esistessero davvero.
Avevo insistito perché Ven il giorno prima me li mostrasse, ma lei aveva sempre tergiversato, cambiando argomento.
«Ma certo! Ti sembra che possa dimenticarmeli?»
«E allora perché non andiamo a fare il check-in? Si è creata già una bella fila e con la fortuna che abbiamo, rischiamo di rimanere a Roma,»
«Non ti preoccupare, Cel. Ora andiamo, ok?» mi diede una pacca sulla spalla, sempre con lo sguardo puntato verso le porte d'ingresso dell'aeroporto. Rimasi interdetta, stupita dall'atteggiamento inusuale della mia amica. Il suo comportamento, unito al mistero dei biglietti invisibili, mi rendeva ancora più sospettosa di quanto già non fossi. Incrociai le braccia, corrucciai il viso e ridussi gli occhi a due fessure.
«Che cosa mi nascondi, Venera?»
La mia migliore amica scese dalle punte e mi sorrise.
«Sono felice che tu ti sia ripresa dal tuo stato vegetativo di ieri,» osservò, con una strana luce ad illuminargli gli occhi blu. «Com'è il tuo umore?» mi domandò poi.
«Sotto le scarpe,» risposi dubbiosa, con un sopracciglio abbassato. Il mio piede destro cominciò a picchiettare autonomamente sul pavimento lucido dell'aeroporto e Ven sembrò notare il mio tic nervoso, preludio di una sfuriata isterica.
«Hai oggetti contundenti dentro lo zaino?»
«No. Ma è abbastanza pensate per essere usta come arma del delitto.»
Ven ridacchiò nervosamente, respirando poi a fondo prima di superarmi e confondersi tra la folla. Cercai di capire dove stesse andando, alzandomi perfino sulle punte, ma ero troppo bassa per poterla adocchiare  mezzo a tutta quella gente. Uscì da quella calca qualche secondo dopo e le andai incontro, elaborando un po' in ritardo il viso del ragazzo che la affiancava. Qualche passo prima di trovarmi proprio davanti a lei mi fermai di scatto, rischiando di cadere ed essere schiacciata dal peso del mio zaino. Riconobbi gli inconfondibili capelli rossi e la carnagione fosforescente di Romeo e mi immobilizzai  fissarli, confusa e convinta che quello fosse solo un brutto sogno.
«Che cosa ci fa lui qui?» domandai, indicandolo.
«Ha i nostri biglietti,» rispose Ven, grattandosi l'avambraccio.
«Non li aveva presi tua madre con in punti dell'Esselunga?» continuai furiosa, lo sguardo che rimbalzava dalla mia migliore amica a Romeo.
«Era solo una bugia per convincerti a partire,» confessò Ven, colpevole. «È stato Romeo a chiedermi di andare a Londra.»
Osservai prima il mio ex amico, con lo sguardo basso verso le All-Stars, che avevano assunto un colore rosso spento a causa del tempo, e una spalla incurvata a causa del peso di un borsone vecchio quasi quanto i suoi jeans. Provai tenerezza per lui e una certa nostalgia per i nostri litigi insensati su ogni piccola sciocchezza. Ma fu questione di un attimo, perché distolsi il mio sguardo per puntarlo su Ven. Se avessero potuto, i miei occhi l'avrebbero incenerita all'istante.
«Sai che odio mentire. Ma ti serviva una vacanza e si è presentata l'occasione di andare a Londra gratis,» fece spallucce. «Non pensare che io sia felice di partire con questo mangia-caccole!»
Non sapevo da dove provenissero quei biglietti, se li avesse pagati Romeo per tentare un ricongiungimento con me o se gli fossero piovuti dal cielo, ma nemmeno m'interessava scoprirlo. La presenza di Romeo era solo un altro motivo per non partire per Londra e rimanere in Italia. Mi aprii un varco tra Ven e Romeo con poca delicatezza e mi allontanai velocemente da loro due. Entrambi cercarono di fermarmi, urlando il mio nome, ma li ignorai, continuando la mia corsa verso l’uscita dell’aeroporto. Mentirmi sembrava essere diventato l’hobby preferito di chiunque mi circondasse.
Mi afferrarono per un braccio e dall’intensità della stretta capii subito che fosse Romeo. Cercai di divincolarmi, ma ogni mio sforzo fu vano. Così dovetti arrendermi e trovai il coraggio di guardarlo negli occhi. Sembrava davvero dispiaciuto, ma non mi lasciai intenerire dal suo sguardo rattristato.
«Lasciami andare, Romeo,» grugnii, ma lui scosse la testa.
«Non voglio buttare all’aria dieci anni d’amicizia,» rispose con tono basso.
«L’hai già fatto, Romeo,» ribattei brusca, strattonandolo ancora e riuscii a liberarmi dalla sua presa.
«Quindi tu hai seppellito dieci anni di vita così, solo per una stupida bugia detta a fin di bene?» Romeo alzò il tono della voce e il suo viso normalmente pallido assunse un tenue colore rosso.
«Il mangia-caccole ha ragione,» intervenne anche Ven, incrociando le braccia e guardandomi con severità. «Cavoli! Avete condiviso praticamente tutta la vostra vita e tu getti via tutto per un idiota che rincorre un pallone?»
La guardai di sottecchi, sistemandomi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Dovevo ammettere che sentivo la mancanza di Romeo, della sua pigrizia e della sua rozzezza. In un certo senso, mi sentivo privata di una parte di me senza di lui. ma non mi era facile lasciarmi quello che era successo alle spalle, mi sentivo tradita e questo provocava in me una delusione tale da non poterlo perdonare.
«Non voglio partire,» dissi perentoria, come se quello fosse un ordine.
«Mi hai molto deluso, Cel,» disse Romeo, scuotendo la testa. «Pensavo che la nostra amicizia fosse importante per te. Ma se ti comporti così mi dimostri che non lo era poi così tanto.»
«Anche io pensavo che fosse importante per te. Sai quanto ho sofferto per le ripetute bugie e i continui tradimenti delle persone, e tu ti sei comportato esattamente come loro.»
Romeo annuì e si passo entrambe le mani tra i capelli.
«Sapevo che partire sarebbe stata una pessima idea,» mormorò.
Estrasse dal suo borsone consunto due biglietti e li tese a Ven. Poi, con lo sguardo basso, mi superò. Mi sentivo un tantino in colpa perché, come aveva detto Ven il giorno prima, anche io avevo contribuito a distruggere tutto. Ma non ebbi il coraggio e la forza per trattenere Romeo e chiedergli scusa, mettere una pietra sopra a due sere prima e continuare la nostra amicizia come se nulla fosse accaduto. Fu Ven però a bloccarlo, spingendolo con forza verso di me.
«Noi partiremo,» disse accigliata, guardando prima me e poi Romeo. «Andremo a Londra tutti e tre e cercheremo di far tornare tutto com’era prima.»
Romeo cercò di controbattere e di andarsene nuovamente, ma Ven lo strattonò e lo trascinò verso il check-in, ordinandomi con lo sguardo di seguirla. Non mi opposi, forse perché una parte di me voleva andare a Londra sperando di ricucire la lacerazione che si era creata tra me e Romeo.
 
Ci imbarcammo circa un’ora dopo la litigata tra me e Romeo. L’ansia e il terrore che avevo sviluppato poco prima, quando ero entrata nell’aeroporto, era completamente sparita, rimpiazzata dall’amarezza per il tranello che mi aveva teso la mia migliore amica.
Ven fu la prima a salire sull’aereo e si era precipitata con foga verso una tripletta di posti liberi, accaparrandosi il posto vicino al finestrino.
«Voglio godermi il panorama!» si era giustificata.
Intuii subito che la sua fosse solo una scusa per farmi sedere accanto a Romeo.
«Tu ti siedi accanto a me, Cel,» disse. «Ho avuto fin troppi contatti fisici con il mangia-caccole per oggi.»
Sorrisi quasi divertita, godendo un po’ di quell’atmosfera che impregnava l’aria tipica del nostro trio.  Mi sembrò quasi che fosse stato spazzato va tutto con una sola folata di vento, che fossimo tornati noi tre, con i battibecchi tra Ven e Romeo ed io, in mezzo, a sopportare il loro astio.
Robbeo, però, non rispose all’ennesima provocazione della mia migliore amica. Prenderla in giro e beffarsi di lei erano il suo passatempo preferito dai tempi del liceo. Lo guardai di sottecchi, mentre ci allacciavamo le cinture come ci aveva detto di fare l’hostess. Quello che avevo davanti non mi sembrava nemmeno il mio ex migliore amico. Lui aveva sempre il sorriso sulle labbra, anche quando non c’era nulla da sorridere e difficilmente veniva colto da momenti di tristezza. In quel momento era molto più che mesto. Era abbattuto, travolto anche lui da quella situazione ingestibile. Molto probabilmente non si era nemmeno reso contro di quello che avrebbe provocato appoggiare la folle idea di Leonardo di fingersi qualcun altro. Aveva agito d’istinto, così come aveva sempre fatto, senza pensare alle conseguenze.
Mi dispiaceva vederlo così triste e capii quanto si sentisse in colpa per quanto era successo, anche se in realtà l’unica colpa era da imputare a Leonardo. Era lui che aveva messo in piedi quel teatrino, approfittandosi dei suoi amici e del suo fan più sfegatato.
L’aereo decollò ed io mi aggrappai ai braccioli, affondando nello schienale del sedile. Sentii Romeo stringermi la mano, così aprii un occhio e incontrai il suo sorriso che mi tranquillizzò. Sembrò perfino sorpreso della mia non-reazione. Forse si aspettava che lo allontanassi e che riducessi al minimo il contatto con lui. Ma quella stretta fu stranamente piacevole e rassicurante.
Quando l’aereo si stabilizzò, Romeo si sfilò la cintura e prese dal suo zainetto un pacchetto di caramelle gommose a forma di orsetto. Ne mangiò un paio, poi mi tese il sacchetto con un sorriso appena abbozzato e un certo timore, quasi come se avesse paura di un’ennesima litigata.
«Tieni. Sono tutti orsetti verdi, i tuoi preferiti. Ieri ho mangiato tutti gli altri e li ho avanzati per quando fossi tornata per perdonarmi.»
Esitai qualche attimo, piacevolmente colpita da quel gesto semplice, che però dimostrava quanto realmente Robbeo tenesse alla nostra amicizia. Mi sentii una stupida per aver dubitato di lui e avergli riversato contro tutto il mio isterismo. Presi velocemente il sacchetto e cominciai a mangiucchiare qualche orsetto.
«Grazie,» mormorai.
Romeo si strinse nelle spalle e mi sorrise. Cercai di rimanere corrucciata, ma non riuscii a non ricambiare. Il sorriso mi sorse spontaneo ed incontrollato. Romeo si sporse verso di me e mi strinse una spalla, avvicinandomi a lui. mi scompigliò i capelli con una mano, poi lasciò un bacio sulla mia fronte. Lo spinsi via delicatamente e lo guardai imbronciata.
«Sono ancora arrabbiata con te!» lo avvisai. «Ti serve almeno un altro sacchetto di orsetti verdi per farti perdonare.»
«Sarà fatto, capitano!» esclamò, tirando fuori dallo zaino un altro sacchetto di caramelle.
Ven si allungò verso di lui e gli strappò di mano il pacchetto. Lo aprì e cominciò a mangiare gli orsetti gommosi.
«Ti do una mano,» spiegò spicciola.
Nonostante il clima tra di noi si fosse disteso, avevo bisogno ancora di un po’ di tempo per metabolizzare la menzogna di Romeo. Il suo piccolo tradimento nei miei confronti era stato inaspettato e bruciava ancora come se fosse costantemente alimentato dalla benzina. Ma avevo capito che Romeo era parte della mia vita e mi era impossibile escluderlo da essa.
 
***
 
L’erba verde dell’Emirate Stadium era pregna dell’umidità tipica della capitale londinese. Con il cielo plumbeo e la temperatura rigida di quella mattina non mi tolsi nemmeno la tuta per allenarmi, ma indossai persino lo scalda-collo e un berretto di lana ben calcato sulla testa. Eravamo andati a provare il campo prima della partita che si sarebbe giocata l’indomani sera e tutta la rosa convocata per la trasferta aveva acconsentito al sopralluogo del campo, come se ci potesse essere chissà quale trappola nascosta nel terreno  che avrebbero potuto tenderci, quelli dell'Arsenal.
Non cantare vittoria, ricordati che c’è sempre Simone, mi ricordò il mio saggio Ego, tornato a consigliarmi da quando avevo deciso di pensare di nuovo a me stesso e a nessun altro.
Appiattii una zolla di terra che si era staccata dal campo e sbuffai fuori dalle labbra una nuvola di fiato che si andò subito a condensare per il freddo. Quella notte non avevo chiuso occhio, troppi pensieri per la testa che mi tenevano sveglio e m’impedivano di concentrarmi. Avrei dovuto zittire quelle voci che mi facevano pensare a Celeste e concentrarmi unicamente sulla Champions. La squadra aveva lavorato tanto per arrivare sino a lì, avevamo sofferto, tirato avanti anche con i numerosi infortuni, eppure ce l’avevamo fatta ed io ero in debito verso di loro. Quella squadra ormai era l’unica famiglia che mi rimaneva e il lavoro sarebbe stato il solo obiettivo cui avessi dovuto puntare.
«Mi ripeti per quale assurdo motivo sono voluta partire anche io?» borbottò Annalisa al mio fianco, incappottata fino alla cute. Dalla voluminosa sciarpa di Fendi s’intravedevano unicamente dei ciuffetti rossi sparati in ogni direzione.
Feci rotolare il pallone della Nike sulla punta della scarpa e cominciai a palleggiare, magari riscaldandomi da quell’umidità londinese. «Vuoi che te lo dica davvero?» ironizzai, aggiustando la traiettoria della palla con un colpo di testa.
Anna sprofondò ancor di più nel suoi Woolrich e abbassò quegli occhi smeraldini verso i suoi stivali di lana, sempre senza tacco. «No,» smozzicò, iniziando a giocherellare con un altro pallone da calcio.
Da quando avevamo lasciato Roma, era come se Annalisa si fosse trasformata, in meglio ovviamente. Non sapevo spiegarlo, ma in lei riuscivo a vedere una complice, qualcuna che stesse nella mia identica situazione e mi comprendesse. Ruben era il mio migliore amico, d’accordo, però non sapeva come ci si potesse sentire ad essere abbandonati.
Annalisa e io eravamo quasi… amici.
Mi guardai intorno e vidi l’immensità di quell’arena, ricordando come mi ero sentito la prima volta che avevo messo piede all’Olimpico con mio padre. Sin da piccolo mi aveva portato a vedere tutte le partite della Magica, dicendomi che un giorno avrei fatto parte di quel mondo anche io. Alla fine ero riuscito a realizzare quel sogno, ma adesso era come se mi mancasse qualcosa.
«Hai provato a telefonargli?» le domandai almeno per smorzare quel silenzio che si era creato su quel campo da calcio.
Scosse la testa e infilò le mani in tasca. «Non ho nemmeno il coraggio di guardare lo schermo.»
Sembravamo due ruderi che si trascinavano da una parte all’altra sostenendosi a vicenda per non cadere e se mi fossi visto con occhi esterni, non avrei mai creduto che quei due ragazzi infagottati su quel campo da calcio fossero il grande centroavanti della Roma e la figlia del Presidente.
«A questo punto non credo possa andare peggio di così,» mormorò cheta, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Mi odierà a vita.»
Ripensai alla mia di situazione e realizzai che non ero poi messo tanto meglio di lei. Celeste si era addirittura trasferita dalla sua amica pur di non vedermi ed io, forse troppo orgoglioso, non l’avevo raggiunta.
«Già, vale anche per me.»
«Voi almeno siete stati insieme,» rispose prontamente, «anche se per poco,» aggiunse. «Io sono stata troppo codarda per provarci.»
Alzai un sopracciglio con un’espressione stupita. «Stento sempre più a riconoscerti. Pensavo che niente fosse in grado di mettersi tra te e ciò che volevi.»
Annalisa tirò fuori dalla tasca un fermaglio con tre perle nere incastonate sopra e se lo rigirò tra le mani. «Infatti,» sospirò. «Ma è la prima volta che mi capita una cosa del genere. Non so davvero cosa fare.»
Quello sarebbe stato un momento perfetto per un gesto carino, magari una pacca sulla spalla o un semplice abbraccio, invece me ne rimasi lì, con le mani nelle tasche della felpa a fissare il pallone che rotolava a pochi passi da me. Non ero il tipo da farmi in quattro per gli altri, avevo sempre pensato solo a me stesso e non sarebbe cambiato poi molto. Certo, vedere Anna con quell’espressione non era cosa di tutti i giorni, però avevo i miei problemi e non potevo sobbarcarmi anche i suoi.
«A Leona’ ‘a senti l’aria de ‘a vittoria?» mi disse Daniele, passandomi un braccio attorno alle spalle.
«Domani sera lo spaccheremo ‘sto stadio!» si aggiunse Marco, convinto.
«Puoi dirlo forte!» risposi, ma senza lo stesso loro entusiasmo.
«Ao’, te vedo moscio. ‘A pischella non te la da?» sghignazzò Capitan futuro, scambiandosi occhiate complici con Borriello.
A quel commento trasalii e li fissai di traverso. «Fottetevi.»
«Povero cuginetto sfigato,» commentò una voce dal tunnel che conduceva agli spogliatoi.
Non c’era alcun bisogno che mi voltassi, sapevo perfettamente a chi appartenesse quel tono strafottente e quell’accento da finto lord dei miei stivali.
«Che ci fai qui?» gli domandò Marco.
«Stamo a prova’ er campo, che voi?» Si aggiunse Daniele.
Mi voltai in ultimo, sperando fino al centesimo di secondo che un fulmine colpisse mio cugino in testa, riducendolo ad un mucchietto di cenere. Purtroppo mi ritrovai il suo sorriso sghembo davanti agli occhi, pronto ad essere smorzato da un bel dritto da parte mia.
«Che cazzo voi?» gli dissi, con un tono per nulla mascherato.
Simone era vestito normalmente, senza la tuta della sua squadra, e se ne stava immobile con le mani nelle tasche del suo Museum a sorridere come un imbecille. «Can I come and see my little cousin or not?»
«Parla come magni, stronzo,» lo apostrofai, senza mezzi termini.
Il sorriso sparì dal suo volto ed io gongolai nel mio piccolo. Uno per Leo e zero per quell’autentico coglione.
Inizialmente sembrò tentennare, magari era alla ricerca di qualche risposta piccata per sopperire a quella mia genialata. Simone non era da sottovalutare, per nessun motivo. Aveva sì quattro anni in meno di me, era il mio cuginetto in fondo, ma era dannatamente furbo il bastardo.
«Quanto siamo irascibili, bro',» commentò sorridendo, di nuovo.
Lo odiavo, con tutto me stesso, con ogni fibra del mio corpo. Avrei tanto voluto fargli sparire quell’aria arrogante dalla faccia, ma era pur sempre mio cugino e nonna non me l’avrebbe mai perdonato.
«Se non hai altro di meglio da fare che rompermi le palle, quella è la porta,» e gli indicai il tunnel degli spogliatoi.
«Suvvia, lil’cousin,» sghignazzò avvicinandosi. «Sono venuto solo a salutarti e a dare un’occhiata alla tua squadra, se così si può chiamare.»
«C’hai quarche problema?» gli ringhiò addosso Daniele.
«’Sto tizio c’ha la faccia da cazzo,» asserì Marco.
Almeno non ero l’unico che reputava Simone la più grande testa di cazzo mai esistita sulla faccia della Terra. Eppure il nostro rapporto non era stato sempre così, anzi, il più delle volte da piccoli giocavamo insieme e ci divertivamo anche.
Beata innocenza.
«Modera un po’ i termini. È della squadra di mio padre che stai parlando,» intervenne Anna, con le mani sui fianchi e lo sguardo minaccioso. Quei suoi capelli rosso fiammante, poi, facevano il resto.
Sembrava una piccola Ariel sull’orlo di una crisi isterica.
Simone si voltò verso di lei e un sorriso malizioso gli apparve su quel volto da ragazzino. Lo avevo già visto uno sguardo del genere. Anch’io ne facevo uso quando volevo portarmi a letto qualcuna.
«Suppongo che tu sia la bella figlia di Mr. Cavalli,» mormorò avvicinandosi a lei. Rimasi di sasso quando le prese la mano e ne baciò il dorso nemmeno fosse un frocetto francese dell’800! «Enchanted to meet you, my dear.»
Vidi la rabbia di Annalisa scemare nel più genuino stupore e un tiepido allarme cominciò a farmi rizzare i peli sulla nuca. Possibile che quel cazzone riuscisse a manipolare anche una ragazza scaltra come la Cavalli?
«C-Che fai?» gli domandò lei, confusa.
Gli occhi neri di Simone incrociarono quelli di Anna e quello fu il momento adatto per intervenire. Se la mia storia era andata a puttane, ciò non valeva anche per quella tra lei e Romeo. In fondo si era trattato solo di un malinteso.
«Hai finito?» m’intromisi, frapponendomi tra mio cugino e Anna. Simone mi fissò stupito.
Guardò prima me poi Anna dietro alle mie spalle. «Ma non era bionda la tua ragazza?» mi domandò perplesso, non mancando di sfoderare un sorrisetto da chi la sapeva lunga.
Strinsi le mani a pugno, infastidito. «Lei non è la mia ragazza, infatti.»
Finse di pensare, poi s’infilò di nuovo le mani in tasca. «Insomma il lupo perde il pelo ma non il vizio.»
Assottigliai lo sguardo, pronto a qualsiasi sua contromossa. «Che intendi?»
Simone sospirò, poi si aggiustò i capelli castani con una mano. «Quando nonna mi ha detto che stavi con quella, non ci ho creduto. Quelli come noi non riescono ad essere fedeli. Siamo indomabili, ammettilo.»
«Smettila di sparare cazzate,» lo ammonii.
«Quando sei andato a letto con la rossa?» mi chiese di nuovo, sorridendo sghembo.
Sgranai gli occhi e le mani cominciarono a prudermi. Lo odiavo.
«Non siamo stati a letto,» intervenne prontamente Annalisa ed io la ringraziai con uno sguardo. «Anche se avrei voluto,» aggiunse.
Era troppo pretendere che la Anna buona e cara venisse alla luce anche con le altre persone.
«Sai, I like you,» sorrise Simone, mandandole un bacio fugace con la mano.
A stare appresso a quei due sarei uscito di senno, ormai era un dato di fatto. Avevo già i miei problemi da risolvere e la partita più importante della Champions l’indomani, sinceramente ne avevo piene le scatole.
«H-H-Hey, t-tu-t-t-tu n-non puoi s-sta-stare q-qui!» intervenne Ruben, correndo tutto dinoccolato. Sembrava uno di quegli omini animati attraverso l’aria, con le braccia in alto e i movimenti scoordinati.
Era davvero buffo.
Mio cugino rifilò a Ruben un’occhiata mista tra il divertito e lo schifato. Non gli era mai piaciuto, pensava che era da idioti portarsi appresso un babbuino goffo come quello. Ovviamente io lo avevo sempre mandato a fare in culo.
Simone aveva l’intelligenza di un bambino di quattro anni.
«Ecco lo scimmiotto,» sentenziò ghignando.
Subito Ruben abbassò lo sguardo e arrossì vistosamente. Aveva sempre cercato di evitare Simone, ma quando se lo trovava davanti gli era impossibile tenergli testa. Il mio migliore amico era essenzialmente buono, dall’animo nobile, invece Simone non era altro che un lurido topo di fogna.
«D-De-Devi and-andartene, n-no-no… no-no-n-no…» farfugliò imbarazzato.
Mio cugino guardò distrattamente l’orologio da polso. «Di questo passo rischio di far tardi al mio appuntamento. Ma ci mette sempre due ore per dire qualcosa?» mi fece, rivolgendomi un sorriso divertito.
Era proprio un pezzo di merda.
«Chiudi il becco e vattene.»
Simone alzò le mani in segno di resa, senza lasciare che quel sorriso malizioso abbandonasse la sua faccia pulita. Fece l’occhiolino ad Anna poi si voltò di spalle e s’incamminò verso il tunnel.
Si voltò solo prima di imboccare il corridoio. «Ci si becca domani, sul campo,» disse, ma sembrò più una minaccia che un semplice avvertimento.
«Ci sarò, contaci.»
Io, Ruben e Annalisa lo guardammo sparire tra lo staff che faceva gli ultimi accorgimenti sullo stato degli spogliatoi.
«N-No-Non lo so-so-s-sopporto!» se ne uscì Ruben, abbassando poi lo sguardo quando Annalisa lo guardò.
Faceva sempre così con qualsiasi ragazza. Era una caratteristica di Ruben e anche se era controproducente, non credo che sarebbe mai riuscito ad abbandonarla.
«Ma siete parenti davvero?» mi domandò Annalisa, fissandomi sbalordita.
Abbassai le spalle e mi ficcai le mani in tasca, calciando via il pallone con un gesto di stizza. «Purtroppo.»
Gli amici te li scegli, ma i parenti ti toccano.
Non c’era verità più universale di quella.
 
Finito di testare il campo per la partita della sera dopo, mi ritrovai a vagare per le strade di Londra senza una meta apparente, con il mio fidato amico Ruben al fianco.
Annalisa era rimasta in hotel, usando la scusa del jet-lag per non venire a passeggiare con noi, o meglio, ad ubriacarsi con noi, ma era una cazzata bella e buona. Tra Roma e Londra c’era un divario di un’ora più o meno, lo sapevo persino io.
Non avevo insistito, però. D’altronde non erano affaracci miei se voleva piangersi addosso, io non sarei rimasto un minuto di più a rimuginare.
Daniele e gli altri mi avevano invitato a bere con loro, ma sinceramente era da un po’ che sentivo il bisogno di starmene per conto mio.
Già, chissà perché.
Zittii la parte razionale del mio Ego e mi strinsi meglio il cappotto addosso, visto che la temperatura si era abbassata di parecchi gradi quella sera. Ruben, al mio fianco, era avvolto il sedici metri di sciarpa di lana, made in nonna Annunziata, e dalla fitta coltre spuntavano soltanto dei ciuffi di capelli castani totalmente spettinati.
Se non gli avessi intravisto gli occhiali, avrei giurato di parlare con un appendiabiti.
«Ehi amico, ma riesci a vedere da lì sotto?» gli domandai, sorridendo.
Okay che Ruben era un tipo freddoloso, questo lo sapevo quando anche a Maggio mi faceva tenere i riscaldamenti accesi, ma non credevo fino al punto di non respirare.
«S-Sì, c-ce-ce-cece-certo che c-ci v-ve-vedo!» bofonchiò lui, un po’ per la balbuzie, un po’ perché tremava.
Eravamo finiti di fronte all’angelo di Piccadilly Circus, ammirando le luci della città e il chiasso del traffico. Non riuscivo a smettere di pensare alla partita dell’indomani. Sentivo una tensione addosso che non mi era mai capitato di provare.
Di solito me ne fregavo, anzi, spesso e volentieri progettavo già cosa fare dando per scontato la vittoria, ma era da un po’ di tempo che non ci riuscivo più. Era inutile negarlo, Celeste era riuscita a cambiarmi, nonostante tutto.
Grazie a quei suoi modi da sapientona e quell’indice pungolatore, mi aveva reso un rammollito idiota e adesso mi ritrovavo a farmela sotto per l’esito di una partita.
Camminammo sino a raggiungere il quartiere di Soho, ed io affondai sempre di più il viso nel bavero del montgomery. Ci fermammo ad una vetrina che vendeva fiori, nemmeno lo feci di proposito.
I miei piedi si bloccarono e basta.
«P-Pe-Pensi a-a-an-ancora a l-le-lei, v-ve-vero?» mi domandò innocentemente Ruben, posandomi una mano sull’ampia spalla.
Cosa avrei dovuto dirgli? Che per colpa di quella ragazza rischiavo di non dare il cento per cento in campo? Che mi ero totalmente rincitrullito?
Sarebbe stata la verità e io ormai ero un bugiardo patentato.
«No, che dici,» mentii spudoratamente, scrollandomi la sua mano di dosso.
Sapevo che Ruben non c’entrava nulla in quella storia, che mi era stato sempre vicino e mi aveva suggerito, nonostante tutto, di dirle la verità. Eppure non riuscivo a smettere di essere in collera col mondo intero.
«S-Si-Sicuro?» chiese timidamente, fissandomi di sbieco attraverso quella sciarpa di lana che avrebbe potuto coprire anche il collo di Hulk.
«Come te lo devo dire?» sbottai infastidito. «Sto. Bene.» incalzai. «Non. Me. Ne. Frega. Un. Accidente. Di. Celeste. E. Di. Quello. Che. Sta. Facendo.»
Ruben sgranò quegli occhi da cucciolo che si ritrovava, dietro le spesse lenti degli occhiali ed io sentii una fitta al petto.
Dannazione, perché riuscivo a farmi leggere così bene dalle persone che mi stavano attorno?
Odiavo, detestavo, non sopportavo essere debole.
Gli anni di Leonardo Sogno, il calciatore più forte al mondo e il più spavaldo sembravano ormai un lontano ricordo per il nuovo me. Mi stavo odiando con tutto me stesso e non riuscivo ad attribuire altra colpa se non a quella biondina che aveva invaso la mia vita.
Pensai al nostro primo incontro, a cosa sarebbe successo e a dove sarei ora se non l’avessi infradiciata con la mia Ducati. Se non mi fossi fermato a soccorrerla, se avessi lasciato che gli eventi si fossero svolti così come dovevano andare.
A quest’ora, dove sarei?
Probabilmente a crucciarmi di meno su tutta questa storia assurda.
Ruben incurvò la schiena mortificato, tanto che credetti potesse spezzarsi per quanto sembrava magro e alto con quel cappotto. Forse ero stato troppo brusco con lui, ma, ehi, ero pur sempre Leonardo Sogno e ormai non mi rimaneva altro che quello.
«Andiamo, mi sto gelando,» conclusi, rabbrividendo all’ennesima folata di vento che soffiava in quel vicolo.
Forse sarebbe stato meglio rintanarsi in un pub con gli altri compagni di squadra, almeno avrei potuto fingere di stare bene e annegare nell’alcool tutto questo strano e inconsueto dolore. Non era da me, davvero, eppure non riuscivo a scacciarlo.
«O-Okay,» balbettò Ruben, seguendomi a ruota.
Muovemmo i primi passi, lasciandoci condurre unicamente dal soffio di vento quando una voce richiamò la nostra attenzione.
«Hey, guys!» trillò squillante alle nostre spalle e anche senza vederla, riconobbi la sua proprietaria.
Magari questa città non faceva poi così schifo come pensavo.
Non appena mi voltai, fui travolto da una massa informe di capelli ricci, biondi e voluminosi, talmente profumati che mi stordirono.
«I’m so happy to see you!» disse lei, lasciandomi andare giusto il tempo necessario di riprendere fiato.
La guardai negli occhi e ritrovai quell’azzurro intenso e vispo che ricordavo sin dalla tenera età. Mia cugina Sofia era un ciclone inarrestabile, una forza della natura racchiusa in un corpo che pesava a mala pena cinquantacinque chili.
«Che ci fai qui?» le chiesi felice, almeno c’era una nota positiva in quella giornata di merda.
Lei si scostò una ciocca di ricci ribelle dal viso e mi sorrise. «Sono andata al supermarket,» sospirò, mostrandomi una busta. «Se fosse per Simone, mangeremmo la carta da parati dell’appartamento,» ironizzò.
Sofia era la sorella che non avevo mai avuto e ci trovavamo talmente in sintonia che avrei desiderato davvero che fosse figlia di mio padre e non di mio zio. Purtroppo lei un fratello lo aveva già, anzi, ne aveva due, e uno di essi era il mio peggior nemico.
«Non ho alcun dubbio che Pisellino si abbuffi di intonaco, magari anche di vernice,» sghignazzai.
Mia cugina sbuffò sorridendo, sapendo che fra me e suo fratello non correva buon sangue. Anzi: diciamo che il sangue scorreva pure, soprattutto quando finivamo col metterci le mani addosso, il che succedeva almeno tre volte al giorno.
I pranzi di Natale e le riunioni di famiglia, sia che si facessero a Roma o a Londra, poco cambiava, si trasformavano sempre e comunque in mancati incontri di boxe.
D’altro canto, zio Marco e mio padre non facevano altro che incitarci, dicendo che il miglior modo di risolvere le questioni, era venire alle mani. Mamma e zia Elizabeth la pensavano diversamente.
Sofia a quel punto spostò lo sguardo alle mie spalle, cercando la persona che fino a quel momento era rimasta in un religioso silenzio. Avvolto in cinquanta strati di lana, c’era Ruben che faceva di tutto per rendersi quasi invisibile dietro di me e io non ne comprendevo il motivo. In fondo, Ruben era mio amico da una vita e di conseguenza conosceva mia cugina da altrettanto tempo.
«Ma è Ruben quello dietro di te?» mi domandò lei, con le guance arrossate per il freddo pungente.
Mi voltai quel tanto da capire cosa il mio migliore amico stesse facendo, ma evidentemente non c’era verso di farlo avanzare di qualche passo.
«Fino a poco fa, era lui. Ora sembra un ammasso di vestiti per la Caritas,» le spiegai, sorpreso.
Sofia mi aggirò per dirigersi verso Ruben e salutarlo, come avrebbe fatto una qualsiasi persona normale. Ma di normale, la mia vita, ormai aveva ben poco.
«Ciao!» gli disse con voce squillante, allargando un sorriso genuino che la contraddistingueva.
Ruben, ormai scoperto in flagrante, decise di smetterla di assottigliarsi contro il muro come un geco e abbassare un po’ quella sciarpa che rischiava di soffocarlo.
«Ciao, Sofia,» sussurrò impacciato, senza nessun balbettio.
Eh, già, perché la cosa davvero surreale e particolare di Ruben era che di fronte all’intero universo femminile non riusciva a spiccicare parola, mentre con Sofia sembrava quasi un oratore.
Mia cugina cominciò a torturarsi una ciocca di capelli con le dita, e giurai davvero di non averla mai vista così in imbarazzo. Per un secondo, ebbi un certo sospetto su quei due, ma avevo ben altri problemi cui pensare e sinceramente né Sofia né Ruben ne facevano parte.
«How are you?» gli chiese, utilizzando la sua lingua madre.
Era vero che i miei cugini erano nati tutti in Italia, ma avendo una madre, cioè zia Elizabeth, inglese da almeno una ventina di generazioni, e vivendo a Londra dall’età di due anni circa, le capitava spesso e volentieri di confondere le sue due lingue.
«Bene, tu?»
Rimasi totalmente sconcertato di fronte all’assenza di balbettii da parte del mio migliore amico. Era strano sentirlo parlare normalmente, soprattutto quando ventiquattr’ore su ventiquattro dovevo cavargli le parole di bocca.
Sofia cominciò a dondolarsi sui talloni, come una bambina di appena dodici anni, poi, mentre stava per dire qualcosa, fece accidentalmente scivolare una mela dal sacchetto della spesa, facendola rotolare sul marciapiede.
Mi chinai a raccoglierla d’istinto, ma Ruben fu più veloce e agguantò il frutto con un movimento agile che mi lasciò di stucco. Lui che era il re della goffaggine e della timidezza, tutto ad un tratto sembrava più in gamba di Roberto Bolle.
«Tieni,» le disse sorridendo e se non fossi stato accecato dal riverbero delle luci di Piccadilly Circus, avrei giurato che quello fosse un sorriso malizioso.
Da flirt.
Non inorridire, mantieni la calma.
Era strano, troppo strano quello che si stava svolgendo davanti ai miei occhi innocenti. Certo, di innocente io avevo ben poco, ma il mio migliore amico e mia cugina…
Perché non mi ero mai accorto di nulla?
«Thanks,» soffiò Sofia, con le gote rosse come la mela che Ruben le aveva porto.
«Ehi, voi due,» commentai, lievemente offeso da questa esclusione. Era come se fossi trasparente, come se non esistessi.
C’era un universo segreto nei loro sguardi e sinceramente cominciava a innervosirmi. Sofia era pur sempre mia cugina, la mia migliore amica, la mia pulcina. Ruben… beh, Ruben era Ruben. Non c’erano parole per descriverlo.
Si girarono entrambi verso il sottoscritto e io incrociai le braccia aspettando spiegazioni.
«È successo qualcosa che mi sono perso?» domandai.
Come se si fossero messi di comune accordo, sgranarono entrambi gli occhi e si allarmarono.
«Niente!»
«Nothing!»
Si affrettarono a rispondermi all’unisono e quello mi fece diventare ancor più sospettoso. Era da un po’ che Ruben si comportava in maniera bizzarra.
Davvero? Ma non è il re della bizzarria?
Okay, in maniera più bizzarra dei suoi soliti standard.
Uhm, dici?
Quella conversazione con il mio Ego stava davvero per mandarmi fuori dai gangheri. Inoltre, prendendomi del tempo per pensare ed analizzare la situazione, agli occhi di Ruben e di mia cugina sembravo un cerebroleso che fissava di traverso il cielo notturno.
«Eppure sembra che mi nascondiate qualcosa…» conclusi pensieroso.
L’idea che le persone a me più care condividessero dei segreti di cui non ero a conoscenza, mi metteva addosso una strana sensazione. Per un attimo pensai a Celeste. Davvero, forzai tutto me stesso per riuscire a resistere a quel pensiero, ma fu tutto inutile.
Mi immedesimai inconsciamente in lei e in quello che aveva provato vedendo che tutti intorno a lei avevano mentito, compreso il suo migliore amico Romeo. Mi sentii automaticamente una merda, una Vera. Gigantesca. Merda.
In quel momento avrei voluto prendere a pugni il mondo, tornare indietro a quel fatidico momento in cui mi ero inventato tutte quelle cazzate e dirle la verità, permetterle di prendermi a parolacce e darmi del rinoceronte senza cervello.
Sarebbe stato meglio non averla mai incontrata.
«N-No, ma-ma c-co-cosa dic-dici?» farfugliò Ruben.
Ovviamente, parlando con il sottoscritto, tornava in modalità tartagliamento acuto.
«It’s a really absurd situation!» si aggiunse Sofia.
Avremmo potuto continuare all’infinito, quei due mi nascondevano qualcosa ma ancora non avevano il coraggio di parlarmene. Sbuffai guardandoli di sottecchi, poi decisi che era meglio continuare o sarei morto congelato sul marciapiede di Soho.
«Vuoi che ti accompagniamo a casa?» le proposi, vedendo che Ruben non le staccava gli occhi di dosso.
Sofia arrossì e si aggiustò una ciocca ribelle di capelli ricci dietro l’orecchio. «Grazie.»
«Ti porto queste,» si offrì Ruben e le prese le buste senza che lei potesse protestare in qualche modo.
La famiglia Sogno, ovviamente la seconda famiglia Sogno, abitava poco più in là del quartiere di Soho. A Lexington St. Simone aveva trovato un appartamento, ovviamente attico e superattico, in cui si era ritirato a ‘vita privata’, così la chiamava lui, ma zia Liz preferiva spedirgli di tanto in tanto Sofia per vedere come se la passasse.
A giudicare dal quantitativo delle buste che aveva mano mia cugina, non faceva la spesa da mesi.
Al numero 128 ci arrivammo dopo una quindicina di minuti, passati nel più completo ed imbarazzante silenzio. In testa c’era Sofia che trotterellava tranquilla e leggera sul marciapiede ancora umido della pioggia del giorno prima, poi venivo io, carico di due buste, e infine Ruben con il sacchetto di carta da cui era rotolata fuori la mela.
Tirò fuori le chiavi proprio quando arrivammo di fronte al portone, in cima ad una piccola scalinata sorretta da due ampie colonne bianche. Mia cugina aprì il cancelletto in ferro battuto, che cigolò quel tanto da spaventare un gatto di passaggio, poi entrò dirigendosi verso l’ingresso. Io e Ruben le fummo subito dietro come un’ombra, soprattutto il mio migliore amico che me la raccontava sempre meno giusta.
«Thanks, guys,» sorrise lei, afferrando i sacchetti e attendendo sulla soglia della palazzina. «Ce la faccio a salire in ascensore da sola, grazie. C’è anche Rupert nella hall.»
Supposi che tale Rupert fosse una specie di usciere.
«Okay, noi torniamo verso l’hotel. Sono piuttosto stanco,» sbadigliai, stiracchiandomi le mani indolenzite per aver portato le buste della spesa. Era strano come mia cugina, una cantante di fama modesta lì a Londra, se ne andasse in giro senza alcun aiuto. Era ovvio che se lo potesse permettere, eppure lei era sempre stato un tipo semplice.
Lei era la mia pulcina da sempre.
«Ciao, Sofi,» smozzicò anche Ruben, senza incepparsi nemmeno una volta.
Era una cosa incredibile, ancora stentavo a credere al potere illuminante che mia cugina avesse su di lui.
«Ciao,» sospirò lei, avvicinandoglisi e sfiorandogli una guancia con una fuggevole carezza.
Ruben divenne color peperoncino messicano e si fissò i mocassini da sfigato con insistenza, fin quando non sentì il portone chiudersi alle spalle di Sofia.
Gli diedi una forte pacca sulla spalla, tanto che il poverino traballò lievemente in avanti, poi gli sorrisi amichevole.
«Insomma mia cugina…» e lasciai la frase in sospeso di proposito.
Vedere la faccia di Ruben dopo quello che avevo intuito fosse successo tra di loro era impagabile e soprattutto mi stava distraendo dal problema che iniziava con la lettera C.
«C-Co-Co-Co-C-Co…» balbettò in preda al panico.
«Sì, coccodé,» sghignazzai, scendendo i gradini e incamminandomi verso l’hotel.
Ruben deglutì a fatica, poi sospirò e mi seguì.
«N-Non c’è n-nie-niente tr-tra me e S-So-Sofi…» continuò a ripetermi.
«Certo, e io sono Napoleone.»
«È v-ve-vero!» insisté, ma ero fin troppo furbo per recitare ancora la parte delle tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo.
«Je suis Napoléon!» cominciai ad urlare a squarciagola, annegando un po’ di quel senso di smarrimento.
Mi sentivo ancora svuotato dopo quello che era successo, dopo che mi ero giocato tutto per una stupida bugia... ma forse era meglio aver amato e avere perso, che non aver amato affatto.
Magra consolazione.

***
*si prostrano ai piedi delle fanZ strisciando la faccia sul pavimento sudicio, mangiando caccole di Robbeo*
Vi chiediamo umilmente perdono per il mega-ritardo nella pubblicazione di questo capitolo. Ci sono stati alcuni problemi, tra cui università, blocco dello scrittore e quant'altro, ma finalmente ci siamo riuscite!!!
YEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE (non ce ne frega una ceppa!)
Comunque, speriamo che il capitolo sia stato di vostro gradimento, nonostante sia arrivato con un ritardo mostruoso. 'NZomma Cel andrà a Londra e la pace con Robbeo sembra ormai fatta, anche se Ven non ce la racconta giusta. Chissà cosa hanno organizzato quei due, eh?
Vabbuò, ci prostriamo ai vostri insulti/giudizi! *baciano per terra*
Ultima domanda: ma quanto è carina Sofi?? *ww*

Ora un po' di pubblicità:
Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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