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Autore: Mizar19    15/05/2012    2 recensioni
[Prima classificata al contest Bouquet di Femslash indetto da Lely1441 su Writers Arena Rewind]
[…]Non capivano quanto Elodie fosse premurosa, quanto mi amasse; era soltanto una persona difficile, da prendere per il verso giusto. Io ormai lo conoscevo bene quel verso, ma gli altri non capivano. Mi ero sentita accusare molte volte negli ultimi anni di essere una vittima, di essere prigioniera nella mia stessa casa; com’erano ingenue quelle persone a pensare che Elodie fosse la mia carceriera, era evidente che non capivano, nessuno capiva mai.[…]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Gli ultimi dieci
Autore: Mizar19
Fandom: Originale
Rating: 14 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 1413 parole (contatore di Word, esclusi citazione e titolo)
Avvertimenti: Character Death, Fem-slash, Angst
Genere: Drammatico, Introspettivo
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Note dell'Autore:  La storia è ambientata in Olanda, più precisamente a Rotterdam, l’unico indizio che permette al lettore di saperlo è il bar che verrà nominato ad un certo punto dalla voce narrante: il Café De Oude Sluis è infatti uno dei bar storici di Rotterdam.
Introduzione alla Fan's Fiction: […]Non capivano quanto Elodie fosse premurosa, quanto mi amasse; era soltanto una persona difficile, da prendere per il verso giusto. Io ormai lo conoscevo bene quel verso, ma gli altri non capivano. Mi ero sentita accusare molte volte negli ultimi anni di essere una vittima, di essere prigioniera nella mia stessa casa; com’erano ingenue quelle persone a pensare che Elodie fosse la mia carceriera, era evidente che non capivano, nessuno capiva mai.[…]

 
 
 
 

GLI ULTIMI DIECI

 
 

Si erano creati a vicenda un inferno, pur volendosi bene.
[M. Kundera]

 
 
Dieci secondi, il tempo durante il quale avevo sostato nell’ingresso accanto a Mathilde. Avevo appena richiuso la porta alle mie spalle, una mano sui rigidi e rotondi bottoni del cappotto, quando la voce della mia compagna mi raggiunse.
«Zelda? Sei tornata?». Il tono era freddo, per nulla entusiasta; sospirai, inghiottendo faticosamente un blocco di saliva: le avevo promesso che sarei rientrata per le diciotto, erano le diciotto e quarantacinque.
«Mi spiace, ci siamo trattenute…», mormorai togliendomi la giacca e invitando Mathilde a fare altrettanto.
Nove giorni erano passati dall’ultima volta che avevo fatto tardi. Elodie non apprezzava ignorare i miei spostamenti: doveva sempre essere informata circa le persone che avrei incontrato, i luoghi in cui mi sarei soffermata e, soprattutto, il tempo che avrei trascorso lontana da casa, lontana da lei. Nemmeno a me piaceva separarci troppo a lungo e quando non rispondeva al telefono una mano invisibile si chiudeva sulla mia gola.
Otto anni fa ci eravamo messe assieme, appena maggiorenni e quasi sconosciute: eravamo due perfette estranee con un’amica in comune, la cara Mathilde che ora stava appendendo il suo giubbotto sopra al mio; avevamo trascorso una sera intera a parlare ignorando il resto del mondo, sedute in disparte su un divano dalla fodera rossa.
Elodie era decisa, forte, con uno spiccato accento del sud e tanta grinta in corpo. Era un’atleta, una sportiva, sempre in movimento, iperattiva, dinamica. Mi coinvolgeva totalmente, avvolgendomi con le sue parole, i suoi racconti. Entro la fine della serata eravamo appiccicate per le labbra e io ero semplicemente felice.
Dopo quella fatale pomiciata figlia dell’energia adolescenziale non ci siamo più separate.
Sette gli amici con cui avevamo formato spontaneamente un gruppo per ritrovarsi e divertirsi nel corso della settimana. Tutti diversi, eccentrici e colorati, ragazzi e ragazze a cui volevamo bene e che ne volevano a noi. Lentamente sono sbiaditi, inghiottiti nella foschia dei ricordi, uno ad uno.
«Non è un po’ tardi per tornare a casa?», sibilò Elodie sbucando nell’ingresso.
Ogni tanto continuo a chiedermi cosa stiano facendo. Si sono laureati? Lavorano? Chissà se qualcuno si è sposato, se ha dei figli. Mathilde era l’ultimo tralcio di vite rimasto legato a noi, colei che senza saperlo aveva dato forma al nostro futuro, a questo presente.
«Mi dispiace tanto, te lo giuro», dissi avvicinandomi a piccoli passi cercando un suo abbraccio; mi allontanò con lo sguardo.
Sei anni di università avevano portato effimere ventate d’aria fresca alla nostra relazione, ma come giungevano queste persone se ne andavano, ancora sigillate e sconosciute, lasciando dietro di loro l’impressione di una strada che non ci è più dato percorrere. Io però continuavo ad avere Elodie e il suo amore, tutto era perfettamente chiaro e bastevole.
«Saresti dovuta rientrare quarantacinque minuti fa». Tono acido, sguardo di rimprovero. Non mi piaceva quella sua espressione, mi intristiva, colpevolizzava. Era così ingiusto che lei s’arrabbiasse tanto a causa mia.
«Lo so, ti ho detto che mi dispiace… Non mi sono accorta del tempo che trascorreva…», tentai di spiegarle.
Mathilde ci osservava, rimpicciolendo nell’angolo dell’ingresso: respiravo la sua tensione, il suo imbarazzo, la sua frustrazione. Non era la prima volta che si trovava nel mezzo di simili discussioni e sapevo che le detestava, ma lei non capiva, nessuno capiva mai.
«Cinque volte! Ti ho chiamata cinque volte!», sbottò Elodie. Attendevo quello scatto, quell’esplosione, ormai la conoscevo fin troppo bene: prima veniva il cipiglio scuro di rimprovero, poi rovesciava la rabbia, una secchiata che mi inzuppava ogni volta.
«Forse il telefono non prendeva, non mi è arrivato nulla». Afferrai la borsetta e vi frugai all’interno, finché il cellulare mi scivolò tra le mani: né messaggi, né telefonate.
«Guarda, Elodie, non c’è nulla», le mostrai il display intonso del mio telefonino. Il mio sguardo non avrebbe potuto essere più innocente e sincero.
«Dove sei andata?»
«Te l’ho detto, ero al Café De Oude Sluis. Abbiamo bevuto qualcosa di caldo… Forse nel punto dove eravamo noi prendeva male il…»
«Casualmente, vero? Zelda, cosa mi stai nascondendo?», inquisì afferrandomi un polso per avvicinarmi a lei e potermi fissare a fondo negli occhi. La borsetta mi sfuggì di mano e cadde a terra; urtai goffamente il suo petto, aggrappandomi alla sua felpa per non perdere l’equilibrio.
«Nulla, Elodie», sussurrai mantenendo il contatto visivo. I suoi occhi azzurri si strinsero.
«Mathilde, che ruolo hai in questa storia?», le domandò improvvisamente, trascinandola nel mezzo della discussione. Elodie avrebbe capito, ero sicura che non avrei avuto bisogno di rassicurarla ancora per molto prima che si decidesse a placare i toni. Bastava che Mathilde le dicesse che non era accaduto nulla di male, che il telefono non prendeva. Bastava che se ne andasse e mi lasciasse sola con Elodie.
«Mi rifiuto di rispondere. Stai impedendo a Zelda di vivere, forse non te ne rendi conto», ringhiò Mathilde avvicinandosi con passo deciso. No, non andava per nulla bene.
«Mathilde, dille che non c’è nulla di cui preoccuparsi, dille la verità», la pregai. Sapevo che Elodie si sarebbe arrabbiata, si sarebbe arrabbiata davvero tanto: non voleva mai ascoltare Mathilde quando le muoveva le solite accuse, l’ultima persona rimasta che ancora persisteva.
«Io non dirò nulla, che creda cosa preferisce. Tu meriti di meglio, Zelda, meriti una persona che ti ami e ti rispetti, non una carceriera».
«No, non è vero, smettila di dire così…», la pregai chiudendo gli occhi, aggrappandomi alla mia compagna. Elodie teneva a me, aveva bisogno di me e mi voleva vicina, mai mi avrebbe impedito di vivere, mai mi avrebbe rinchiusa; ne avevo parlato diverse volte con Mathilde, lei non capiva, nessuno capiva mai.
Non capivano quanto Elodie fosse premurosa, quanto mi amasse; era soltanto una persona difficile, da prendere per il verso giusto. Io ormai lo conoscevo bene quel verso, ma gli altri non capivano. Mi ero sentita accusare molte volte negli ultimi anni di essere una vittima, di essere prigioniera nella mia stessa casa; com’erano ingenue quelle persone a pensare che Elodie fosse la mia carceriera, era evidente che non capivano, nessuno capiva mai.
Quattro pensieri attraversarono velocemente la mia mente mentre seguivo lo sguardo d’odio diretto a Mathilde: Elodie la voleva fuori di casa, non le parlerà mai più, quando se ne andrà mi bacerà e mi perdonerà per essermi comportata male, dopo cena guarderemo un film abbracciate sul divano – lei sarà dolce, mi accarezzerà i capelli, mi porterà la coperta di pile - e ogni problema sarà svanito.
«Ti sei innamorata della mia ragazza?!», abbaiò Elodie abbracciandomi con più forza, stringendomi fino a togliermi il fiato. Erano braccia protettive, braccia conosciute. Chiusi gli occhi e provai piacere nel sentirla attorno a me; premetti piano la guancia sulla morbida stoffa della felpa, inspirandone la familiare fragranza di ammorbidente, creme e deodorante.
«Sei veramente stupida. Smettila di farle del male, Elodie», replicò Mathilde incrociando le braccia.
«Fuori da questa casa. Ora», impose lasciandomi andare all’improvviso. Il profumo svanì di colpo, al suo posto nulla.
«Cosa…?», balbettai senza capire. Le sue parole erano dirette a me, non a Mathilde.
«Ho detto che ora te ne vai da casa nostra. Ho bisogno di starmene da sola», sibilò.
Tre persone erano fisicamente presenti in quella stanza, ad occuparne lo spazio e a respirarne l’aria, ma all’improvviso ne era rimasta soltanto una, boccheggiante e incredula. Non volevo andarmene, non volevo lasciarla sola. Mi mancò il fiato.
Cos’ero io senza di lei?
«Elodie, ti prego…», singhiozzai avvicinandomi di un passo, la mano tesa in avanti per afferrarla oltre la rabbia.
«No, non questa volta».
«Elodie…»
«Non mi toccare! Ti ho detto di no! Ora vattene con Mathilde, magari ti chiamo più tardi. Sempre che il tuo telefono prenda…», il suo tono era ferreo, il suo sguardo ancora di più. Il respiro si fece affannoso mentre Mathilde si avvicinava e mi posava una mano sulla spalla.
Ma io non ero ancora pronta per la resa.
«Non voglio andarmene, voglio parlarti… da sola». Mi scrollai di dosso Mathilde per poi precipitarmi tra le braccia di Elodie.
Due le mani che mi respinsero con forza, premendo sul mio petto all’altezza delle clavicole. Barcollai sbilanciata, tentando di recuperare l’equilibrio; un angolo del tappeto sfrangiato mi impedì di rimettermi in piedi, insinuandosi sotto la suola liscia delle mie scarpe. Ebbi il tempo di inspirare profondamente e udire l’urlo spaventato di Mathilde mentre la sensazione del pavimento che si avvicinava a me si faceva più forte, facendomi formicolare la schiena. Rabbrividii chiudendo gli occhi.
Uno solo il colpo contro il ripiano marmoreo della cassettiera che mi impedì di riaprirli.

*

Qua sotto riporto il giudizio di Lely1441 (grazie, biscottino ♥):



Prima classificata:
“Gli ultimi dieci” di Mizar19, con un punteggio di: 8.4


Grammatica e sintassi: 8
Capacità espressiva: 8
Rispetto parametri e traccia: 9
Originalità e creatività: 8.5

Di questa storia mi è piaciuto soprattutto il ritmo dato dai dieci ‘passi’ antecedenti alla disgrazia. Oltre ad essere collegati tutti ad elementi diversi (gli anni, gli amici, le telefonate), donano un ritmo scandito alla vicenda, aumentando il senso d’ansia che si prova leggendola - cosa che, considerato il genere, non può che risultare appropriato ed efficace.
Le citazioni sono usate davvero adeguatamente: sia quella iniziale, che permea tutto il racconto, sia quella inserita e rielaborata facendo sì che il senso rimanesse quello originale, ma al contempo lo stile della frase di riferimento non appesantisse troppo quello della storia, che è meno arzigogolato e più semplice.
La vicenda è drammatica, ma resa molto bene: il rapporto tra Elodie e Zelda è ormai malato, usurato, ma quest’ultima, nella sua ingenuità, non riesce - o non vuole - vederlo. La principale vittima è proprio lei, e penso che anche la tematica della gelosia sia riportata bene non solo da parte di chi ne soffre, ma soprattutto da parte di chi la soffre. Zelda resta convinta del loro amore, rimane convinta che tutto si potrà aggiustare, che l’importante è rimanere insieme. Non le interessa subire le scenate della sua ragazza, non finché a queste segue la certezza di una riappacificazione. È un circolo vizioso che potrebbe durare all’infinito, e a cui non può mettere la parola ‘fine’: ha (hanno) perso tutti i suoi amici, rifiuta di ascoltare l’unica persona che tenta ancora di intervenire. Elodie è la sua unica ragione di vita, e soffrire a causa sua non le importa.
Trovo che sia un’introspezione ben fatta: pur essendo drammatica, non vira mai su toni patetici o eccessivi, e in poche pagine riusciamo a capire il diabolico meccanismo dietro al rapporto. Ci sono delle imprecisioni nel testo, come la consecutio temporum che un paio di volte manca e l’uso che ho trovato inappropriato, in un contesto simile, della parola troppo formale ‘pomiciata’; tutto sommato non gravi errori, ma che risaltano di più in una storia breve. Lo stile è fluido e calzante, il registro si adatta bene al quadro generale. Un’ottima storia, in sintesi.


   
 
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