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Autore: Love_in_idleness    07/12/2006    2 recensioni
C'è una sola cosa che accomuna tutti gli uomini in tutto il mondo - il Tempo. Probabilmente, in un angolo del pianeta, nello stesso istante, un’amicizia nasce ed un’altra si spezza; qualcuno porta il lutto, qualcuno ricomincia a vivere; qualcuno muore, qualcuno nasce; qualcuno si innamora, qualcuno si dimentica la passione; qualcuno vive incubi abissali, qualcuno contempla un paesaggio nell’assoluta solitudine. *AVVERTENZA* - la storia è formata da one-shot slegate tra loro. Solo il capitolo II è drammatico e il capitolo X shonen-ai.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare

Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare. La storia non è una storia, ma un insieme di one-shot che come avrete capito sono collegate soltanto dalla stessa durata temporale, e precisamente un minuto, cioè le 17.58 del

Ventuno Novembre, che poi cambiano per il fuso orario... ho messo come avvertenze shonen-ai e drammatico perché sono due cose che possono scoraggiare la lettura, ma riguardano solo particolari capitoli, precisamente il X e il II. Se preferite saltateli. Per il resto specificherò il genere del capitolo prima di cominciare. Questo è molto generale e non ha controindicazioni di nessun tipo, credo ^_^, quindi buona lettura.

I.

[Berlino; Ventuno Novembre 2006, 17.58]

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una fredda giornata di Novembre, soffusa, nebbiosa, sfocata dai tratti della foschia depositata sull’orizzonte già buio. Sulle strade rimaneva ancora un po’ della neve caduta all’inizio del mese, illuminata dai repentini abbagli delle macchine e dallo sfavillio dei grattacieli moderni.

Hanse guardò il suo orologio. Erano le quasi le sei. Le cinque e cinquantotto.

Reclinò la testa contro la poltrona di velluto rosso impolverata e sospirò profondamente, immerso nell’oscurità e nella desolazione di quella sala solitaria, fatiscente, decaduta. Il cinema chiuso, il Metropolitan Theater, gli era sempre piaciuto per quel tocco raffinato di belle époque che trasmetteva con la sua semplice presenza, come a testimoniare la precarietà di un’epoca lussuosa ormai trascorsa, quando si trasmettevano i film muti in bianco e nero e le grandi pellicole parlavano di amori sinceri e profondissimi. Ogni volta che aveva bisogno di tranquillità sapeva di poterla ritrovare nel silenzio e nell’imperturbabilità di quella sala fredda e abbandonata.

Per questo l’aveva portata lì. Aveva aperto la porta rovinata, ceduta da chissà quanti anni, e l’aveva guidata all’interno come se le stesse mostrando casa sua. Ma non era stato sufficiente. Lei non aveva capito lo spirito di decadenza, la bellezza dimenticata e sussurrata di quel luogo segreto e personalissimo. Non aveva voluto condividere la meravigliosa stanza nascosta agli occhi frenetici del mondo. Aveva portato nell’equilibrio di quell’epoca lontana la luce disarmonica della modernità e della superficialità; aveva infranto con la sua sola presenza la delicata bolla di vetro che preservava intatta, in una semplice stanza inaccessibile del mondo, l’ultima cosa viva, morente, di una decade passata.

Aveva rovinato tutto. Con quegli occhi e quella voce pieni di banalità aveva distrutto un piccolo, sofisticato sogno. Poi se ne era andata. Dopo un anno, aveva semplicemente deciso di prendere le sue cose –la sua borsetta, la sua sciarpa profumata, il suo rossetto rosso, il suo cappotto di flanella- e di tornarsene a casa senza di lui.

Hanse non pensava seriamente di amarla. Non come si amava nei film del 1910, totalmente, enfaticamente, appassionatamente. Ma sapeva, credeva davvero di volerle bene, di essere, in fondo, legato a lei da un sentimento di tenerezza, di fiducia e di rispetto che era qualcosa di molto simile all’amore nel suo stato primordiale. Forse si era sbagliato. Su quella poltrona polverosa, al buio della sala, aveva riflettuto per due ore sulle illusioni più malvagie dell’innamoramento, aveva pianto, si era domandato come avesse potuto essere così cieco, si era arrabbiato. Gli sembrava di aver sacrificato molto della sua vita per poterle stare accanto.

In un tempo così dilatato ed immobile non si accorgeva di nulla. La moquette cremisi stesa ancora sul pavimento nel corridoio centrale attutiva il rumore dei passi. Florian si sedette di fianco a lui senza dire una parola, respirando il più dolcemente possibile. Tremava ancora del freddo della sera, chiusa all’esterno del teatro, e da un senso di irrequieta ansietà.

Hanse si voltò in uno scatto d’ira e di sensi di colpa. Fino all’anno precedente, ricordò in un attimo, lui e Florian entravano sempre insieme nel loro posto segreto. Erano più piccoli, erano appena adolescenti, si nascondevano dentro quella struttura fatiscente le prime volte che fumavano, o quando dovevano parlare di pensieri troppo intimi per essere divulgati al resto del mondo. Tra quei muri rimbombava il sussurro della loro amicizia infranta, ed il ricordo li pitturava di un alone di dolcezza malinconica. Florian aveva in mente tutto, ogni dettaglio. Florian era sempre stato tacitamente presente, anche quando Hanse aveva cominciato ad andare da solo al teatro per pensare dopo gli appuntamenti con ‘la sua ragazza’.

“Hansi, missà che questa sera non hai niente da fare, vero?”

Hanse notò il tono stranamente gentile della sua voce, la morbidezza di poche parole così banali, eppure così intense. Sembrava volergli dire che era passato solo un giorno, solo un’ora da quella litigata orribile, che la gelosia era uno stupido punto di vista, che un legame tranciato dall’orgoglio può essere riallacciato in un nodo strettissimo con una frase tanto semplice.

“No,” Rispose.

“Vieni a berti una birra? Mi annoio un po’. C’è il basket.”

“D’accordo.”

“Mangiamo qualcosa da qualche parte, non so. Alla Stube, o dove vuoi tu.”

“D’accordo, Flo.”

Sorrise lievemente. Non capiva come Florian potesse essere arrivato lì in quel momento, con quell’idea. Florian, alla fine, c’era sempre nei momenti peggiori e anche in quelli migliori. Si era dimenticato della sua precisione.

“Flo?” Hanse intuiva di aver perso qualcosa di relativamente importante, ma di aver rimediato ad un errore enorme.

“Mm?”

“Flo, mi sei – mancato.”

Hanse si sentiva felice nonostante tutto. Nonostante un addio doloroso. Nonostante un pianto imbarazzante. Nonostante la polvere del Metropolitan, nonostante il freddo pungente di quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, con la sua nebbia, con la sua neve scintillante, con la sua notte precoce caduta sulla città come un dio addormentato.

[Happy Ending]

__

Questi capitoli saranno tutti molto brevi. Spero vi sia piaciuta, e in ogni caso, per favore, lasciatemi un commento, mi piacciono tanto *___*... Grazie a tutti e alla prossima.

   
 
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