Cordiale atmosfera da studio di gentiluomo britannico.
Due uomini, in esso, vestiti entrambi piuttosto signorilmente.
Pavimento come un tavolo da biliardo. Verde. Ispido. Insipido. Librerie a muro non
eccessivamente stipate di libri dalle copertine forse interessanti, e suppellettili. Una
scrivania in legno. Una scatola di sigari aperta. Un calamaio. Un computer portatile,
chiuso.
Lui era davanti a me, casualmente appoggiato alla scrivania, con le braccia
conserte, e non si dava molta pena di guardarmi. Aveva il sorrisetto discreto degli
scaltri uomini d'affari. Io?. . Ero sulla poltrona, ovviamente, dai larghi braccioli, di
tessuto ruvido, violaceo. Buona per dormirci, pensai, se allora avessi avuto sonno.
Ed ero seduto col sedere affondato nel cuscino, le spalle abbandonate pesantemente
allo schienale, il collo un po' rigido, un po' dolorante. E gli avambracci
ordinatamente poggiati sui braccioli. La luce era tenue, artificiale. Nessuna finestra.
La sua voce era fonda e meditabonda.
<< Polvere >> Commentò, quindi.
<< Sono convinto che, alla fin fine, l'umanità non sia ossessionata da altro che la
propria polvere. Che sia la cenere dei morti, o la gloria comunque effimera, che
sia l'amore di altri esseri predestinati alla mortalità. Essi periscono, essi e i loro
vaneggiamenti demenziali. >>
Pacata Considerazione. Io continuavo a tacere, e così i suoi occhi si spostarono su
di me. Occhi penetranti, di un comune azzurro slavato, ben messi al centro del
volto squadrato, tozzo. Eppure trasudava intelligenza, e classe.
Esattamente come io trasudavo odio.
<< ... Siete talmente avvinghiati alle vostre cataste di pensieri ammucchiati, che non
riuscite a vederci. Non riuscite a Vederci. >> Sibilò, suadente, cinico. << ... A parte
quando decidiamo di palesarci a voi, nonostante siamo così evidenti, così espliciti e
pericolosamente inaccorti, per voi non siamo altro che ombre leggere. Nuvole
traslucide di passaggio.>>
Silenzio.
Silenzio.
Respiravo a bocca socchiusa, senza intaccarlo nella sua beffardaggine. Il
silenzio.
Edàrre lasciò trapelare la vera espressione del suo sguardo, per un momento, una
luce dura, ripida. Mi trovai costretto a spostare nei suoi i miei occhi. Che erano
scuri, invece, foschi. Al di sopra del naso insignificante e dei baffetti sottili e delle
labbra altrettanto fine. Al di sotto della fronte poco spaziosa e dei capelli non
troppo corti, di un castano fango sporcati di nero, qua e là.
Lo guardai senza troppo sentimento. << Sciocche. Allucinazioni. Di. Profeti >>
Scandì, osservandomi.Silenzio, risposi.
<< Non sei proprio capace di dimostrarti educato quel tanto da contribuire alla
conversazione, Contrad? >>
Silenzio.
Silenzio. E poi fiato asciutto che mi passava in gola.
<< 'ndare. >> La mia voce era resa squamosa dal fatto che non mi ero schiarito
la gola. E non parlavo da giorni, cioè il tempo che avevamo trascorso
ininterrottamente in quello studio, in cui lui aveva continuato a filosofare giocando
con me. E a provocarmi. Senza che io avessi bevuto, mangiato, o dormito. E
neanche lui, dopotutto, ma credevo fosse una cosa che potesse non toccarlo più di
molto, trattandosi di uno come lui. Ed escluderò il fatto, che questa fosse solo
l'ultima delle sue divertenti trovate, per corrodermi fino in fondo. Ma, adesso, mi ero
davvero stancato.
La rabbia cominciò ad addensarmisi negli occhi, come cartilagine emotiva, passando
poi a smangiucchiarsi i miei lineamenti, la mia maschera di immobilità plasticata.
<< Come, scusa? >> Un piegarsi impercettibile in avanti, e gli occhi comunque
distaccati, lui sapeva da sempre quello che avevo cercato di dirgli.
Anche i miei occhi erano distaccati. soprattutto quando la rabbia colò giù da essi,
fino al palato e all'esofago e ai polmoni. Alzai le labbra a scoprire i denti, poi
non così bianchi, in un gesto tipico.
<< Lasciami ANDARE!! >>
Ruggii, facendo tremare tutta l'argenteria.
Edàrre rise. I nostri sguardi ancora fissati, spalancò la bocca e mi fece guardare la
sua lingua che sussultava negli spasmi in mezzo alla saliva. La sua voce si
moltiplicò d'intensità nell'aria, divenne roboante. Divenne grottesca e densa, tanto che
avevo l'impressione di poterla vedere ammucchiarsi addosso alle pareti. Si gonfiò,
s'inacidì, riempì con sobbalzi invisibili la stanza. Poi, premette fino a
spezzarla, come una quinta di vetro.
Edàrre gettò la testa all'indietro.
Lo studio implose in mille frammenti taglienti, con suoni di scricchiolii secchi e di
frantumi che cozzano, sopra, sotto, tutt'attorno a noi. La poltrona e la scrivania
rimasero le sole cose integre a galleggiare in un'improvviso baratro infinito di etere
pallido che si era spalancato e c'aveva ingoiato, integre sì, anche se scolorirono
d'un tratto. I pezzi della stanza mulinarono attorno a noi per pochi secondi, poi
schizzarono via, andarono a dissolversi lontano nel vuoto che ora ci circondava.
Edàrre sembrava soddisfatto di tutto ciò, tanto che finalmente chiuse le labbra in un
ghigno compiaciuto, tacendo.
Ma la pacchia durò poco.
Presto ci ritrovammo soli, esposti in quello spazio niveo, senza immagini familiari -
per quanto potesse risultarmi familiare lo studio-. E lui spostò nuovamente il suo
sguardo su di me. Lo scherno freddo dei suoi occhi si velò di una smorfia di
disprezzo, quando mormorò: << Mmh. Togliamo i costumi di scena. >> Schioccò le
dita, e sia i miei che i suoi eleganti abiti ottocenteschi si dissolsero, lasciando il
posto al nostro autentico aspetto, quello oltre l'illusione di Edàrre.
I miei vestiti erano semplicemente ridotti a cenci, strappati, sudati, maleodoranti. Il
mantello mi cadeva addosso in pieghe scomposte. Erano fastidiosi sulla pelle, per
non dire brucianti. Sui miei tagli. Ed ero ferito. I capelli erano sporchi e arruffati,
il mio occhio destro era pesto, il mio labbro era ancora un po' gonfio e
sanguinante, il mio corpo era pieno di graffi e di colpi ricevuti. Già.
Me ne ero davvero dimenticato. In un solo attimo fui invaso dal dolore, che
s'allargò come una macchia liquida tra le fibre d'un tappeto, strusciando sulle mie
ossa come una lingua infinita di pena.
Fui attraversato da un tremito e mi scappò un singhiozzo insonoro.
La trasformazione di Edàrre si limitò ad un cambio d'abiti, in quanto me lo trovai
davanti vestito con una corta tunica nera e un paio di vecchi jeans.
Le sue sopracciglia si sollevarono, come meravigliandosi delle mie condizioni. Gli
rivolsi un risolino irritato. Maledetto demone. Maledetto..
<< Contrad! Hai dimenticato forse che è sgarbato pensare male tra sè?
Soprattutto se lo fai nei riguardi di chi può sentirlo?! .. Aah, no. Questo ti costerà..
la scenografia>> I suoi occhi ebbero un guizzo, ed anche la poltrona sparì, e la
scrivania. Il bianco attorno a noi ebbe un fremito, si irrigidì, divenne di seta. Una
tenda di seta, per l'esattezza. Stavamo per tornare nella mia reale prigione.
Stavo per tornarci, precisamente. Perché Edàrre là non c'era. Oh no, lui
era nella mia mente, gli piaceva torturarmi da lì, piuttosto che fuori da un'illusione.
I demoni hanno varie abitudini, sapete. Lui godeva nella follia. Sguazzava in melme
oniriche urlando come un maiale. Macerava con cura ricordi macabri e li lasciava
depositare su passioni sepolte. Succhiava canzoni fanciullesche come un uovo
attraverso un buco nel guscio. Si divertiva a vedere subconscio e ragione contrarsi
e contorcersi e battersi l'un l'altra a colpi di maglio, schizzando pensieri
sanguinolenti ovunque.
Fiato. << E.. dàrre, >>
<< Sì, Den? >>
Fiato. Fiato. Dovetti constatare che, ora, mi tremava la voce. Deglutii con rabbia,
rapido. Fiato. << Perché continui a tenermi qui?!.. Mara.. è.. io.. devo..>>
<< Fa' silenzio, Contrad. >> Mi zittì.
Brusco. Rude. Scoperto. Incredibilmente e palesemente scoperto.
<< Ch.. e.. che cosa sai che io.. Non so?!? Che sai di lei? >>
Non sorrideva più.
Anzi, se la stava battendo dalle mie allucinazioni, impallidendo in via di
sparizione. Eh no!
<< EDARRE!! >> Gridai. Con quanto fiato m'era rimasto in gola.
Le tende tremarono e m'attraversarono. Ero nuovamente nella cosiddetta realtà. Ecco.
In realtà, io non ero neanche seduto. Ero in ginocchio, quasi, ed intendo
sottolineare il quasi, prostrato. I miei polsi erano segati da maledette catene
d'avorio che mi tenevano bloccato alla parete, lasciandomi corda per avanzare solo
di un metro. Proprio fino alla riga bianchissima segnata col gesso sul pavimento
bianco sporco. E tutt'intorno, solo tende bianche, che frusciavano, e che si erano
strette attorno a me ogni volta che Edàrre aveva voluto catapultarmi in un ennesimo
incubo, in un'illusione.
Non riuscivo neanche a vederlo più, ora, ma percepivo che poco di lui era ancora
intento ad andar via. Dalla mia mente. E fu con quella che mi aggrappai a lui con
tutta la mia rabbia, per trascinarlo nuovamente a me, folle a volerlo, per inchiodarlo
e farlo confessare. Edàrre. Oh, eccoti, amico mio. Come va? Sono comodi, i miei pensieri?
Abbassai lentamente le palpebre. Per vederlo "da dentro". E oh, se si
divincolava! Scalciava e fischiava come uno scorpione rabbioso, Uh uh, ma si
era già spinto troppo a fondo nella mia coscienza, per torturarmi, e l'entrata
vischiosa ci aveva messo poco a intrappolarlo dove fino a poco prima se la
spassava.
<< Smettila! Smettila, stupido! Tu non capisci!! >> Ringhiò, e godetti nel
sentire una qualche paura nella voce prima beffarda. << Ah, sì? davvero? >>
Gongolai. Poi, il pensiero di Mara m'attraversò come la lama d'una ghigliottina. Una
ghigliottina di furore. E di lacrime.
<< Che sai di lei? Dimmelo, Edàrre. >> Il mio tono era asciutto, e incalzante.
Lui spalancò le orbite, ma tacque. << Dimmelo, demone! >> Sbraitai.
Allora Edàrre singhiozzò. Una cosa a dir poco singolare, e irripetibile, per un
demone. Io credevo che neanche ne fossero capaci, a dire il vero. Guardai
quell'infantile lieve scuotersi del suo petto, sbalordito. E fu così che
fu così che mi fece vedere.
Mara. Mara amava me. Non lui. Nonostante avesse cercato di sedurla, di portarmela
via. Mara aveva sempre amato me.
Io dovevo dovevo ritrovarla. Dovunque si fosse nascosta, per qualunque motivo
avesse deciso di fuggire, di andar via, senza dirmi nulla.
Ero ansioso di sapere tutto quello che avessi potuto cavar via dal demone, che mi
teneva là, impedendomi la ricerca. Ah, sapevo bene che lui avrebbe fatto di tutto
per tenermi lontano da lei. Che si fosse allontanata da me, poi, quella era stata
una manna. Maledetto.
Vidi immagini sfocate e deformi, che mi passarono davanti agli occhi come le aveva
viste lui, dai suoi occhi. Vidi ciò che aveva fatto.
E vidi che si era insinuato voluttuosamente nel suo inconscio, senza nemmeno
prendersi la briga di aspettare che dormisse, perché da parte sua non c'era alcuna
differenza. Lei non aveva comunque alcun potere di contrastarlo.
E vidi che aveva gironzolato impudicamente dentro di lei, nei suoi ricordi, nelle
paure, nelle cose segrete che teneva celate in seno, nascoste anche a me.
Si era trastullato con la ninna nanna di sua madre, ed aveva sfiorato le sue
guance la prima volta che un ragazzo l'aveva fatta arrossire. Si era sollazzato con
i discorsi senza senso che faceva a se stessa per convincersi di smettere di
provare qualsiasi emozione le risultasse pericolosa, come una puerile paura del
buio, o nei momenti in cui lui stesso le aveva suscitato passione.
Infine si era preso, come souvenir personale, un incubo rosso in cui suo padre le
veniva incontro, ed aveva gli occhi marci ed uno squarcio lungo il petto da cui
colavano mari di sangue e lei avrebbe voluto scappare ma la sua caviglia era
macchiata di quel sangue e sembrava che non avesse potuto camminare mai più. E
il cielo aveva vomitato su di loro una brodaglia nauseabonda di fango e di fame e
dalla sua gola non era uscito altro che un fiotto di angoscia muta.
E d'un tratto, mentre s'aggirava in un corridoio silenzioso del suo subconscio,
Edàrre aveva commesso un'errore. Si era mosso troppo furiosamente, e qualcosa,
qualcosa aveva tremato ed era caduto ai suoi piedi, frantumandosi con un suono
cristallino ed indifeso. Qualcosa di bianco.
Mara s'era uccisa. Mara...
s'era Uccisa.
Mara.
Mara.
E lui, lui lo aveva poi scoperto, non aveva potuto fare niente nulla per fermarla. E
che aveva fatto? Aveva preso me. E ora rividi chiaramente tutti i miei supplizi,
nell'arco di millenni di non-tempo, perché era lì ch'ero rinchiuso, in un limbo di un
secondo allungato nell'eternità. E vidi perché m'aveva sottoposto agli
interminabili martiri, il motivo di tanto accanimento nell'incalzare il dolore.
Perché io non ero come lei. Io non ero indifeso e vulnerabile. E a fatica riusciva
a scavare nei comparti più segreti di me, in quei luoghi che davvero volevo che
restassero improfanabili.
Ma, quando ero ridotto allo stremo, quando il mio cuore cedeva e la mia mente
stremata perdeva presa sul controllo e sulla difesa di quelle ricchezze, allora senza
che me ne accorgessi lui sbirciava attraverso lo spiraglio. E che cosa diavolo era
andato a sbirciare, se non la cosa più sacra? Che cosa?
Mara.
Lui che era arrivato a lei, poi l'aveva persa per sempre. E l'unica maniera
possibile che gli era rimasta per vederla, per averla, era averla attraverso di me,
dei miei ricordi, delle emozioni infinite, incalcolabili che avevamo provato l'uno per
l'altra e che mi avrebbero legato a lei per sempre. Che m'avrebbero reso per
sempre l'unico e assoluto accesso a lei.
Mara... Mara era.. No. . .
I legacci che tenevano avvinghiato a me Edàrre si disciolsero. Lo liberarono.
S'udì un lacerante schiocco, quando l'essenza oltraggiata e furiosa del demone si
districò dalle muffose catene psichiche, rugghiando una vendetta atroce e inumana
anche dal punto di vista d'un demone.
Ma quegli, dopo aver alzato in aria un'enorme falce di terrori cosmici, pronta ad
essere calata, si bloccò. Istantaneamente.
Perché il destinatario del suo collerico delirio, l'umano conosciuto come Dennar
Contrad, si era accasciato contro di lui, scivolando al suolo.
Ed aveva abbandonato ogni legame, ogni resistenza, ogni particella contratta di sè
nelle mani dure e negli occhi azzurri del demone, in un gesto assoluto di
prostrazione e sgomento e cordoglio. Perché oramai poteva anche essere totalmente
suo, poteva anche cancellarsi e rimanere a lui comunque, Edàrre poteva fare di lui
ciò che avesse preferito. Perché lui
aveva trovato
era stato trovato da
il dolore che
strazia.