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Autore: Faust_Lee_Gahan    20/05/2012    3 recensioni
«Dove non c'è immaginazione non c'è orrore, John.»
«Dillo al mio cervello. Così smetterà di farmi fare fantasie impossibili.»
[Sherlock/John]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lividi Amniotici'
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Titolo: Horror vacui

Summary: «Dove non c'è immaginazione non c'è orrore, John.»

«Dillo al mio cervello. Così smetterà di farmi fare fantasie impossibili.»«

Pairing: Sherlock/John

Rating: R

Words: 2437

Disclaimers: Non miei e “blablablabla! Lascia stare! Abbiamo detto queste cose centinaia di volte!”

Notes: Per la Sherlothon dello SFI sul prompt #5 (“Dove non c'è immaginazione non c'è orrore.”)





Horror vacui



Paura! La crepa che potrebbe inondare il tuo cervello di luce!”

(Tom Stoppard)




Gli occhi di John vagarono a scatti per la stanza. Strinse le labbra e le umettò. Fece tamburellare le dita sul bracciolo della poltrona di Ella. Prese fiato.

«E' la prima volta che racconto la nostra storia a qualcuno. Non lo sa nessuno. Nessuno capirebbe. E' tutto così difficile. E poi spiegare qualcosa è impossibile.»



Gliel'avevano detto. Ripetutamente. Ma lui non aveva voluto ascoltare.

L'amore è un suicidio, gli avevano detto. (1)

L'amore ci farà a pezzi, gli avevano detto.

L'amore di per sé non è abbastanza, gli avevano detto.

Ci avevano provato ad avvertirlo. Non li aveva voluti ascoltare. Con quel tepore si era tappato le orecchie. (2)



«E' stata la giornata più lunga della mia vita.»



John stava leggendo un libro, seduto in poltrona. Sherlock era di sopra- No. Non era di sopra. Perché avrebbe dovuto? No. Era in bagno- No. Era in camera sua- No. Doveva essere in cucina. Sì. Sì, era in cucina. A fare uno dei suoi soliti distruttivi esperimenti, probabilmente.

John stava leggendo un libro, seduto in poltrona. Sherlock era in cucina. Gli si avvicinò e si inginocchiò a lato della poltrona. Lo osservò per qualche minuto, poi gli prese la mano e gliela baciò piano. Passò al polso e risalì su per l'avambraccio, fino al collo. Lui lasciò andare il libro, sospirando, e infilandogli una mano nei riccioli neri, accarezzandoglieli. Glieli strinse quando sentì i denti chiudersi attorno alla sua pelle. Riusciva a percepire la sua arteria cozzare contro gli incisivi di Sherlock, a ritmo della musica sorda del suo battito cardiaco accelerato. Gli stava prendendo a morsi il cuore. Divertente come fosse una metafora dell'andamento della sua vita negli ultimi tempi. John lo baciò, infilandogli una mano sotto la camicia e la lingua in bocca, e-

No. Non era andata così.

John non stava leggendo un libro, seduto in poltrona. Era in piedi, davanti al balcone, la finestra chiusa, l'atmosfera fuori cupa. Aveva la vestaglia e l'aria persa nel vuoto grigio di Londra. Sherlock era in cucina, stavolta sì. Ne era sicuro. Sentiva l'odore acre di un esperimento. Gli si avvicinò, restando alle sue spalle. John lo spiò nel riflesso del vetro mentre lo osservava. I loro sguardi indagatori, morbosamente curiosi, si agganciarono nel vetro - o al di là dello specchio, in un'altra dimensione – e John trattenne il respiro, come se fosse stato beccato mentre commetteva un reato. Come se stesse davvero spiando qualcun altro, come se fosse davvero un voyeur. Provò a sentirsi colpevole. Dopo, forse, ci sarebbe anche riuscito. Senza smettere di guardare il suo riflesso, Sherlock si mise a respirargli nell'orecchio. Il suo fiato era una specie di spillo nel cervello, che dal timpano mandava brividi giù per tutta la spina dorsale. Veniva dalla cucina. John gli sentiva l'odore acre dell'esperimento addosso. E lo guardava. Lo guardava. Non abbassava mai lo sguardo. E lui, di rimando, non abbassava mai il suo. Le labbra di Sherlock sfiorarono la parte superiore dell'orecchio. Alzò la mano destra e con le dita gli sfiorò il viso, all'attaccatura dei capelli. Le sue dita lunghe che premevano sulla fronte. John ne seguì il movimento, reclinando la testa di qualche centimetro, ma senza distogliere lo sguardo dal suo. Sherlock fece lo stesso, mentre la mano sinistra gli prendeva l'orlo del maglione a righe. Le dita libere cominciarono il loro percorso passando piano per la fronte, corrugata appena per consentirgli di guardarlo, poi per le sopracciglia, entrambe. Si dilungò sul dorso del naso, prima di arrivare agli occhi. Come se esitasse, esplorò prima le sue occhiaie, lentamente, ridipingendole di colori più nuovi. Passando delicatamente sulle rughe rese più evidenti dallo stress post bellum e da quello post vado-a-vivere-a-Baker-Street, Sherlock si fermò un secondo, come se continuare potesse essere pericoloso. L'unica reazione di John fu quella di alzare il mento ancora un paio di millimetri. Sherlock la prese come un'autorizzazione, e prese a sfiorare le palpebre come a volerle chiudere. John assecondò i suoi pensieri ancora una volta, e l'ultima cosa che vide prima che il buio lo assalisse fu lo sguardo di Sherlock. Lo guardava in modo indecente. Indecente. Quello sguardo lo perseguitò anche ad occhi chiusi. Sentì nel suo orecchio un sospiro più forte e l'orlo del suo maglione che cadeva sul lato sinistro attorcigliarsi un po' più stretto attorno alle dita che lo tenevano. Sherlock trovò sotto i suoi polpastrelli – John pensava che fossero un po' ruvidi, ma non in modo fastidioso – le palpebre che rendevano il loro proprietario ormai cieco al mondo. Provvide a descriverglielo tracciando la linea degli zigomi, delle guance, arrivando alla mascella e poi al mento, piano, senza fretta. Il fiato che sentiva ormai dentro il cervello e lo martellava diventava sempre più pesante, il respiro sempre più affannoso, aritmico. Le dita della mano sinistra gli si erano praticamente inchiodate al fianco. Con la nuca adesso quasi del tutto appoggiata alla spalla di Sherlock, ne avvertiva chiaramente il petto che si alzava e si abbassava frenetico, alla continua ricerca di aria. E anche la sua respirazione non è che fosse messa meglio. Risalendo dal mento, le dita arrivarono alle labbra e presero a disegnargliene il contorno. Ne sfiorarono la consistenza. Le aprirono. La mano sinistra lasciò il maglione e il braccio gli circondò stretto la vita. John sentì distintamente il palmo della mano destra premergli contro le labbra aperte, non per farlo tacere, ma come se stessero controllando che continuasse a respirare, in verticale. Le dita erano schiacciate contro il suo naso. La bocca spalancata di Sherlock contro la sua pelle, a metà tra l'orecchio e la mandibola, mandava e tirava aria come se fosse stato in apnea per secoli. E John trattava la mano di Sherlock come se fosse stata la mascherina collegata a una bombola d'ossigeno. Forse erano stati in apnea entrambi. Il braccio di Sherlock attorno alla vita gli avrebbe frantumato le costole, e fu forse per il dolore che cominciò a gemere. Sherlock lo seguì. Il primo suonò come una liberazione. E più respirava più gemeva più Sherlock lo teneva schiacciato contro di sé, come se volesse farli diventare un'unica-

«Se ti distruggessi in questo momento, tu saresti mio per sempre.» (2)



Affanno. Affanno. Affanno.

John allungò la mano tremante sul comodino, cercando a tastoni l'inalatore. Lo trovò, con uno scatto si alzò a sedere e prese a respirarci dentro. Inspirare, espirare. Chiuse gli occhi per cercare di tranquillizzarsi. Inspirare, espirare. Era un ricordo o una fantasia? Inspirare, espirare. Si aprì una distesa di cielo azzurro nella sua mente. Inspirare, espirare.

«Io ho tante cose da fare. Una di queste è forse liberarmi dell'asma.»

Gliel'avevano detto. Ripetutamente.

Troppo amore ti ucciderà, gli avevano detto. (1)

Ci avevano provato ad avvertirlo.

«O di Sherlock. Non lo so. E' uguale.»

Non li aveva voluti ascoltare.



John aveva camminato in punta di piedi per non disturbarlo. Per non disturbare quella figura stretta e lunga distante da lui di pochi passi, e che tuttavia gli aveva lanciato un'occhiata di sbieco nonostante il poco rumore che i suoi piedi avevano emesso. Per non disturbarlo. Aveva poi alzato la testa, prendendo coraggio per parlare.

«Buongiorno.» aveva detto timido.

Lui si era voltato di scatto a guardarlo, con stupore. «Mi rivolgete la parola?»

«Certo che vi rivolgo la parola. Non dovrei?»

«Non ci sono abituato. Difficilmente le persone arrivano fin qui.»

«Credete di essere molto in profondità?»

«Abbastanza, sì. Sono protetto, qui. Al buio.»

John aveva fatto un passo avanti, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.

«Non sono d'accordo con voi. Trovo invece che emettiate una luce accecante.»

L'anima sconosciuta si era voltata finalmente a guardarlo. Lo scrutò nelle profondità delle pupille, ancora con quello stupore sul viso.

«Voi pensate davvero questo?»

«Certo che lo penso. Potrei difficilmente mentirvi. Sono sicuro che lo capireste subito.»

«Siete pericolosamente vicino.»

John aveva abbassato gli occhi e si era accorto che era vero, che aveva camminato senza accorgersene.

«Mi dispiace. Non volevo essere invadente.»

«Non lo siete. Siete solo pericolosamente vicino.»

John lo aveva guardato negli occhi, fisso. Erano quelli più di tutto il resto che emettevano la luce straordinaria che vedeva.

«Ho dovuto fare un riassunto di tutti i motivi per cui lui è...»

«Devo andare.»

«Unico.»



«Dove non c'è immaginazione non c'è orrore, John.»

«Dillo al mio cervello. Così smetterà di farmi fare fantasie impossibili.»



Sherlock era steso a terra, al centro dell'antro buio. John non si premurò di fare piano stavolta. Gli si inginocchiò affianco.

«Cos'è che ti protegge?»

«Come?»

«Mi hai detto che qui sei protetto.»

«E allora?»

«Gli amici proteggono le persone.»

«Io non ho amici.»

«Allora cos'è che ti protegge?»

«I miei pensieri. Non li vedi?»

John abbassò gli occhi e li vide: per terra, intorno a lui, fogli di ogni genere e dimensione erano sparsi senza un ordine apparente. Ne raccolse uno e notò che erano post-it. Uno in particolare gli saltò agli occhi. C'era scritto solo: John. Lo prese e se l'attaccò addosso. E così un altro, e poi un altro. Sherlock si alzò a sedere di scatto, fulminandolo.

«Che stai facendo?»

«Perché?»

«Posali, sono miei.»

«Alcuni hanno il mio nome.»

«E allora? Non puoi venire qui e attaccarti le mie parole addosso! E questo è privato!» aggiunse strappandogliene uno dal petto.

Raccolse le gambe al petto e si voltò dall'altro lato, dandogli le spalle.

«Mi hai ferito.»

«Dovevi pensarci prima di trafugarmi i pensieri.»

«Mi hai ferito quando hai detto di non avere amici.»

Sherlock alzò la testa, ma non si girò.

«E' passato molto tempo. Ci stai ancora pensando?»

«Perché mi tratti in questo modo?»

Sherlock sbatté il pugno a terra e lo guardò irato.

«E' così che tratto le persone, John. E' così che le tratto! Perché non capisci?»

Incastrò il viso tra le braccia e le ginocchia.

«Vattene. Lasciami in pace.»

«Lui si riempie di fantasmi.»

O forse era lui ad averne.



«Che si dice fuori, dottore?»

«Niente.» (3)



Adesso mi è tornato l'asma, lo sapevi?

Vorrei che mi prendessi per mano. Il salto nel vuoto lo farei senza pensarci due volte, o anche una sola, se ti fa piacere. (3)



«Io lo sto molestando coi miei desideri, in cui per la prima volta lui non c'entra assolutamente niente.»



Affanno. Affanno. Affanno.

Si era nascosto sotto la scrivania appena l'aveva sentito arrivare. Il vuoto. Prese l'inalatore preventivamente messo nella tasca del camice e respirò di nuovo. Inspirare, espirare. Doveva liberarsi dell'asma, non era più un ragazzino. Inspirare, espirare. L'asma che gli era tornato. Inspirare, espirare. Il vuoto che era sopraggiunto. Inspirare, espirare. Aveva un sapore diverso, stavolta. Inspirare, espirare. Non sapeva di niente, stavolta. Inspirare, espirare. Il vuoto, il nulla, rappresentato da una stupida mancanza d'aria. Inspirare, espirare. Che modo simpatico ha la vita di mettertelo in quel posto. Inspirare, espirare.

«E ha paura.»

O forse era lui ad averne.




«Fammi capire bene. Tu immagini l'anima di Sherlock in un antro buio con i pensieri scritti sui post-it?»

«Prova a impedirmelo.»



Sherlock era appoggiato ad un angolo. Lo fissava senza dire nulla. John seduto per terra, a gambe incrociate, guardava e sistemava i post-it. Aumentavano a dismisura ogni giorno.

«Mi hai detto che ti proteggono. Come?»

«Le persone di solito scappano appena ne leggono uno.»

«Le persone non arrivano fin qui, giusto?»

«Giusto.»

«E io?»

«Tu non sei le persone.»

«E cosa sono io?»

Sostenne il suo sguardo per un momento, poi si staccò dal muro e si sedette di fronte a lui, per terra. Frugò nell'interno della sua giacca e ne cacciò una pila di foglietti tutti attaccati tra di loro, in modo disorganico e disordinato. Li poggiò in mezzo a loro due, guardandoli con una certa apprensione.

«Cosa sono?»

«Parole. Quelle che non ho mai detto. La maggior parte sono per te.»

John le guardò stupito. «Posso toccarle?»

«Se le vuoi sono tue.»

John sorrise e lentamente prese un foglio, attaccandoselo addosso. Ne prese un altro, e poi un altro. Era felice come quando da bambino riceveva a Natale il regalo che più aveva ambito durante l'anno. Sherlock lo osservava, le labbra tirate in un sorriso incerto.

Allungò anche lui la mano e ne prese uno. Aveva l'aria di essere vecchio, o comunque molto consumato. Come se Sherlock l'avesse utilizzato più volte, come se se lo fosse sempre andato a guardare. Sopra c'era solo un punto interrogativo.

Delicatamente, lo posò sulle labbra di John e passandoci due dita sopra lo attaccò per bene. Gli sfiorò il viso, con la stessa cura di un bambino che ha tra le mani il suo giocattolo preferito.

«Sherlock è una fabbrica di dolore.»

«Non so se riuscirai a sopportarle, le mie parole, John. Sono pesanti. Difficili. Non posso proteggerti da loro. Vorrei che tu fossi uno sconosciuto di cui mi possa liberare. Solo che adesso sei tu che illumini questo posto buio.»

Gli prese il volto fra entrambe le mani.

«Se solo tu potessi vederti, John.»

Toccò con gli occhi ogni neo, ogni ruga, ogni dettaglio possibile del suo volto.

«Sei perfetto.»

Gli baciò le labbra coperte dal post-it. Quello non cadde, ma altri sì. Su uno c'era scritto: sei perfetto.

Baciò il suo punto interrogativo più volte, e John, impacciato dalla sua ingombrante presenza, non riusciva a ricambiare come avrebbe voluto. Infilò le dita tra i capelli e se lo strinse addosso, facendolo restare attaccato a quelle che dovevano essere le sue labbra. Sherlock gli afferrò i polsi, premendogli i pollici sulle vene e percorrendo con questi il loro corso, perdendosi nelle diramazioni. Non faceva altro che tenere la fronte appoggiata contro la sua, tanto da fargli male, e respiragli sul viso con la bocca aperta. John riusciva a sentire il calore del suo fiato che filtrava attraverso il post-it, e le labbra di Sherlock quasi attorno più che sopra le sue. Ma non erano ancora uno. John voleva essere una cosa sola con lui, voleva tenerselo attaccato sulla pelle per sempre, insieme ai suoi pensieri e alle sue parole mai dette. «-magari col suo sapore addosso-» Sherlock evidentemente gli lesse nel pensiero perché lasciò andare i suoi polsi e alzò gli orli del maglione a righe, cominciando a infilarselo. Ne raggiunse il collo, lasciando sulla pancia e sul petto una scia di fiato e saliva. La testa spuntò bisognosa d'aria e baciò di nuovo, inevitabilmente dato che erano attaccati, le labbra nascoste di John. Ci respirò pesantemente contro, il naso schiacciato sul suo. Respirò sul suo punto interrogativo-

«Vorrei scorrerti nelle vene.»

«Ha sempre le mani sporche di sangue.»



«La mano di Sherlock ti stringe fino a soffocarti. Fino all'infarto.»



Affanno. Affanno. Affanno.

Era caduto dalla poltrona e arrancò ansante fino al tavolino. Tremando si aggrappò alla sedia e trovò l'inalatore quasi subito. Vuoto. Inspirare, espirare. La realtà l'aveva colpito in mezzo agli occhi. Inspirare, espirare. Avrebbe dovuto provare a sparire. Inspirare, espirare. Ma c'è un solo modo per scappare da qui. Inspirare. Espirare.

Una volta calmatosi, si alzò e si diresse a passo sicuro verso il bagno. Aprì il mobile delle medicine e prese il tubetto che stava adocchiando da giorni. Si guardò allo specchio.

Gliel'avevano detto. Ripetutamente.

Tutto quello di cui hai bisogno è l'amore, gli avevano detto. (1)

Aprì il tubetto. Il tappo fece un rumore troppo buffo, inadatto alla situazione.

Tutto quello di cui hai bisogno è l'amore.

Che stronzata.



«E' stata la giornata più lunga della mia vita.»





Notes, again:

Sperimenti di scrittura. E' colpa della Sherlothon, che si sappia! Ma parliamo delle citazioni: i dialoghi in corsivo sono citazioni da Sangue – La morte non esiste di Libero De Rienzo, praticamente il mio film preferito; (1) sono varie canzoni che in effetti ci avevano avvertito sulla potenza distruttiva dell'amore e sono in sequenza: Bodies degli Smashing Pumpkins, Love will tear us apart degli Joy Division, Love, in itself dei Depeche Mode, Too much love will kill you dei Queen e All you need is love dei Beatles; (2) da Stigma di Kazuya Minekura; (3) autocitazioni spudorate da Ritorno al crepuscolo e da Nei nostri luoghi; la citazione iniziale è tratta da Rosencrantz e Guidenstern sono morti. E direi basta.

Grazie a Sonia, as usual. ♥ Se c'è bisogno di chiarimenti, io sono qui! XD Magari non vi risponderò subito, ma in tempi recenti sì! XD

  
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