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Autore: Hiraedd    20/05/2012    14 recensioni
James Potter, è esattamente come chiunque non abbia gli occhi rivestiti di prosciutto e i capelli rossi (qualunque riferimento a persone realmente esistenti è pienamente voluto) può osservare ogni giorno… simpatico, sempre pronto a far ridere gli altri, generoso, darebbe la vita per i suoi amici e per quelli più deboli.
Peter Minus, beh, è Minus. Facendo coppia con lui nell’aula di Trasfigurazione ho imparato a conoscerlo meglio. Sempre in seconda fila, senza essere visto, sembrerebbe più una pedina che un giocatore. In realtà, mi sono accorta, è un giocatore tanto quanto gli altri.
Sirius Black... Sirius definisce tutti i confini. Gira per il mondo con scritto in fronte “QUI FINISCONO I BLACK E COMINCIO IO”.
Remus Lupin è la mente diabolica del gruppo. È il classico esempio di persona che tira la pietra e nasconde la mano, non per codardia, ma per quieto vivere. O meglio, fa tirare la pietra agli altri, decisamente, e si mantiene la sua reputazione da Prefetto e bravo ragazzo. Tutto quello che ci mette, è il cervello. Decisamente un personaggio degno di stima, un idolo (Dai pensieri di Marlene McKinnon)
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mary MacDonald, Peter Minus, Remus Lupin | Coppie: James/Lily, Sirius Black/Marlene McKinnon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'oltre il fuoco comincia l'amore'
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L’ultimo capitolo della prima parte di questa ff, è dedicata ai miei genitori, da cui ho preso spunto per far nascere Dorea Potter e Gillian Sidonie McDonald –uguali uguali a mia madre- e Fergus McDonald e Charlus Potter –che sono un po’ la copia di mio padre-.
 
 
LILY
JAMES
MARLENE
SIRIUS
MARY
EMMELINE
REMUS
PETER
FRANK
ALICE
RABASTAN
REGULUS
CORRISPONDENZA


 
 

Il momento sbagliato per diventare padre,
è diciotto anni prima di una guerra
E.B.White

 
 
 
 
 
Gillian Sidonie Mayfair in McDonald scosta le tendine di pizzo Leavers per scrutare la strada, l'ordinato vialetto della villa a schiera in cui abitano lei e suo marito -e sua figlia, per tre mesi all'anno- e lo steccato perfettamente bianco e tirato a lucido che separa la prima dal secondo.
Ha gli stessi capelli scuri della figlia, le stesse labbra generose e un non so che nello sguardo che trasuda voglia di vivere e di divertirsi. Benchè l'intensità dello sguardo sia quello che ha passato alla figlia, il colore varia decisamente: due punti di luce color della giada, di quel verde così chiaro da poter variare in grigio con un semplice battito di ciglia.
-Mary non è ancora tornata?-.
I passi di suo marito la distraggono dalla quieta osservazione del quartiere. Fergus McDonald ha gli occhi dello stesso colore della figlia, una piazzetta in testa tra i capelli ramati ormai radi e il volto assonnato di chi si è appena alzato dal divano in cui è crollato al ritorno dal funerale, stanco morto.
-no- risponde tornando a scrutare fuori dalla finestra.
-chissà dove l'ha portata quel Prewett- mormora Fergus versandosi una buona dose di succo di zucca direttamente in bocca dalla brocca -non è che mi fidi tanto di lui, si vede lontano chilometri che fa gli occhi dolci alla mia bambina-.
Jill scuote la testa rassegnata, indirizzando al marito una smorfia fintamente disgustata.
-e io che pensavo di aver sposato un illustre membro del Wizengamot e non un animale- ribatte scrollando il capo -non dire stupidaggini, Mary è troppo piccola, Gideon non la degnerebbe di un solo sguardo-.
-gli sguardi non c'entrano nulla- le assicura Fergus con quell'aria da truce irlandese che da sempre spaventa chi non lo conosce bene. In quest'ultima categoria non è fortunatamente da annoverarsi la moglie, che conoscendolo alla perfezione dopo diciannove anni di matrimonio e tre di fidanzamento sa benissimo come in realtà suo marito sia buono come il pane e placido come le acque di una polla -a quell'età è tutta questione di ormoni-.
-oh, quanto la fai lunga- lo rimbrotta scuotendo il capo -come se tu a quell'età fossi stato diverso. Guarda che mi ricordo benissimo di quando ti beccavo in qualche alcova nascosta a Hogwarts, e non eri certo solo-.
Il marito manda giù ancora un sorso di succo di zucca, poi appoggia la brocca al tavolo della cucina e guarda Jill come se le fossero spuntate le antenne.
-questo non c'entra assolutamente nulla- replica con lo scetticismo tipico degli avvocati, magici o babbani -ho messo la testa a posto. E poi qui non si parla di me o di te, ma della mia bambina-.
Jill sorride, intenerita.
-la tua bambina fra soli due mesi compie diciotto anni-.
-sarà la mia bambina anche quando ne avrà sessanta, avrà cinque figli, tredici nipoti e quattro gatti- le risponde a tono il marito, lasciando la cucina.
La donna scuote ancora la testa seguendo con lo sguardo Fergus fino a quando la sagoma di questo non sparisce su per le scale, probabilmente diretto in doccia. Alla fine, quando l'irlandese brontolone scompare alla vista, riporta l'attenzione alla strada.
Li vede spuntare da dietro l'angolo, Jill, con quell'occhio allenato che solo le mamme hanno per tutto ciò che riguarda le figlie, ridere l'una vicina all'altro come due vecchi amici, quei due che un mese prima non si conoscevano neanche, uno sguardo castano e sbarazzino e uno azzurro fresco come il cielo.
Forse suo marito non è bravo solo a brontolare, allora.
 

*

 
-Prometti che ci penserai- mi dice alla fine quando riesce a smettere di ridere, con ancora un sorriso luminoso sul volto.
Arriccio le labbra, con la stessa smorfia che rivolgo a mia madre quando mi chiede di mettere in ordine la mia camera.
-pensare non costa nulla- concedo alla fine, scuotendo il capo rassegnata.
Il sorriso in risposta fa sembrare quello di prima la fiammella di una candela confrontata a un grande sole.
-bene- annuisce poi seriamente -perchè non ti ci vedo per nulla come auror o tiratore scelto-.
Inarco le sopracciglia.
-ah, no?- chiedo scettica.
-perdi la calma troppo facilmente, McDonald- mi risponde nuovamente divertito.
Sorridendo tra me e me mi accorgo che siamo a pochi passi dal cancelletto di casa mia.
-questa me la lego al dito, non ti rivol...-
-rivolgerò la parola per i prossimi duemila anni. Si, questa l'ho già sentita- mi prende in giro divertito, indicandomi casa mia -ora è meglio che rientri, c'è freddo e potresti ammalarti. Ci si vede... alla prossima riunione, ok?-.
Mi accorgo con stupore della piccola fitta di nostalgia che mi coglie alle sue parole. Negli ultimi giorni mi sono abituata talmente ai Prewett e a Dorcas che quasi ho scordato la differenza d'età e il fatto che non solo non ci siamo mai frequentati, ma fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che esistessero.
Dopodomani si torna a Hogwarts, a quel piccolo mondo che viene toccato solo raramente dai fatti esterni.
-si, certo- annuisco scacciando quella piccola fitta con uno dei miei soliti sorrisi sbarazzini, quelli che invitano a non prendermi troppo sul serio. Faccio fatica a respingere quel lieve senso di malinconia, quando lo vedo guardarmi con quel suo sguardo leggero, perché solo così si può chiamare, leggero -buon lavoro, allora, per le prossime settimane-.
Mi sorride in risposta, sbattendo le palpebre con quel tic che lo fa assomigliare ad un gufo. Anche suo fratello lo fa, mi sono accorta.
-grazie, e buon rientro a Hogwarts- mormora annuendo gentilmente.
Ok, devo ammetterlo, per un attimo sento l'imbarazzo condensarsi nell'aria come una cortina di nebbia. Come ci si saluta tra conoscenti che vanno particolarmente d'accordo?
Per tutte le giarrettiere di pizzo di Morgana, sono Mary McDonald, quella che farebbe arrossire un marinaio anche solo con uno sguardo! Non posso imbarazzarmi così, solo per due occhi azzurro pervinca!
Così, con tutta la disinvoltura che mi è propria in ogni movimento, in ogni sguardo, e con quella piccola punta di malizia nel sorriso che mi contraddistingue fin da che ho memoria, mi sporgo verso di lui e –sebbene con una certa fatica vista la notevole differenza d’altezza- lo coinvolgo in uno dei miei abbracci stritolaossa, quelli che ti fanno temere l’accartocciamento della cassa toracica per farti dimenticare la malinconia dell’addio imminente.
Con un sorrisetto, capisco che lui capisce, e lo sento rispondere con lo stesso entusiasmo disinvolto di chi non fa altro che abbracciare le persone –sebbene con più delicatezza, per ovvi motivi-.
-grazie davvero, Gideon- gli mormoro contro la guancia ricoperta di lieve peluria rossa –salutami Fabian e Dorcas-.
Mi volto velocemente, scostandomi da lui e da quel contatto forse troppo diretto, mantenendo le spalle dritte mentre mi dirigo verso casa senza guardare indietro, quasi a voler respingere quel senso di cameratismo ed insieme tristezza che in questo momento mi invade la mente. Riesco appena a vedere la tendina di pizzo della cucina muoversi e tornare al proprio posto, accompagnata dalle dita lunghe ed eleganti di mia madre, poi sospiro ed entro in casa, sentendo dietro di me i passi di Gideon allontanarsi.
Sorrido appena, e non so il perché.
 

*

 
Gillian vede sua figlia rientrare in casa con lo sguardo opaco e uno strano sorriso sulle labbra, un sorriso che quasi pare dover lottare per uscire.
La sente, prima di vederla realmente, sbattere la porta alle proprie spalle –perché si, sua figlia è totalmente incapace di quella grazia congenita e raffinata eleganza che tutte le sue amiche hanno passato in eredità alle loro figlie purosangue-, togliersi il cappotto con movimenti decisi e per nulla gentili, sfilarsi sciarpa e cappello –puntualmente abbandonati a marcire sopra il portaombrelli, come se non ci fosse a meno di un passo di distanza l’attaccapanni intagliato in ebano e betulla-, scompigliarsi i capelli con un movimento disinvolto e togliere i guanti per gettarli sulla madia dell’ingresso.
-è stato gentile, Prewett, ad accompagnarti fino a casa-.
Con un sorrisetto nascosto dietro alla tazza da te, Gillian si gode lo spettacolo della figlia presa in contropiede. Non è facile, cogliere Mary con le mani nel sacco, nemmeno se si è sua madre.
-è vero- annuisce alla fine con una disinvoltura che ingannerebbe chiunque, tranne Jill –è stato molto cortese-.
Annuisce piano, indicando alla figlia la cucina.
-c’è il pranzo, a meno che tu non abbia già mangiato con…-
-no, anzi, ho una fame da lupi- la interrompe Mary con un sorrisetto sbarazzino fiondandosi in cucina –hai provato a fare il manzo come lo fa la nonna? Sembra avere un buon odore-.
Normalmente è Fergus che cucina, in quella casa atipica di purosangue mezzi irlandesi e mezzi matti. Jill si dedica soprattutto ai dolci, che le vengono sempre piuttosto bene, esclusa la crostata alla frutta, il suo personale tallone d’Achille.
-sono passata dai Potter, prima di tornare qui- dice scoperchiando il piatto colmo di stufato di manzo alla birra –ma Lily dormiva, a quanto ha detto Lène-.
-sembrava stare meglio, all’uscita del cimitero. Deve essersi un po’ consolata, forse, stando da sola con sua sorella-.
Mary da in una risatina che di divertito ha ben poco, poi inizia a mangiare lentamente, gustandosi la carne talmente tenera che si scioglie in bocca e fissando la finestra con aria un po’ distratta.
Gillian sorride appena, pensando a come poter riportare la discussione su ciò che le interessa veramente.
-sai, tuo padre dice che il figlio dei Prewett ti fa gli occhi dolci-.
Già, i McDonald in generale sono gente a cui piace prendere il toro per le corna, come si usa dire. Mary smette per un solo attimo di mangiare, ben lungi dall’apparire imbarazzata da una constatazione del genere e, anzi, pensando per un attimo a tutto quello che è successo in quei giorni.
Alla fine scuote il capo, sbuffando appena.
-nah, Gid non ci pensa neanche a me, sono troppo piccola. È gentile e simpatico, tutto qui- scrolla la forchetta come a fare segno di lasciar perdere.
-è quello che ho risposto anche io. Peccato, però, è carino. Ed è scapolo-.
Mary si ferma ancora una volta, e adesso non ha quello sguardo lieve che aveva fino ad un attimo fa, ma un’espressione completamente diversa. Pare quasi una bambina che sia stata colta con le mani nel barattolo della marmellata, in dubbio se leccarsi le dita e dichiararsi colpevole o fare gli occhi dolci e distogliere l’attenzione.
Jill glielo legge in volto, che quel pensiero sua figlia l’ha già fatto qualche volta.
 

*

 
Quando Dorea Potter apre la porta della stanza che momentaneamente –e, ormai lo sa, per sempre- è di Lily, il vassoio del tè tra le mani aristocratiche, quasi se lo aspetta di trovare quello che trova.
I capelli rossi della ragazza, distesi sul cuscino come una pezza di seta cangiante color del fuoco, si mischiano alla zazzera arruffata di suo figlio, addormentato con gli occhiali storti e la bocca semiaperta, sul cuscino rivestito di raso verde. Per un attimo le sembra di guardare un quadro, una tela su cui la sapiente mano di un artista ha dipinto con brevi e veloci tocchi di pennello l’essenza stessa di quei due ragazzi.
È passata appena un’ora da quando sono tornati, da quando ha visto Lily rifugiarsi in camera e James seguirla quatto quatto, quasi a cercare l’invisibilità del mantello che era di suo padre, e che ora è suo. Sorride appena fra se.
Come se lei non lo avesse visto, con quell’aria da cane bastonato rigirarsi per la casa per giorni e giorni, prima del funerale, e poi alla cerimonia stessa, lottare contro quell’istinto primordiale che è l’adolescenza, e che ti porta a pensare di avere tutti contro.
Il sorriso si tira in una smorfia poco felice, al pensiero che quei due ragazzi, e i loro amici, e lei stessa, e suo marito… tutti loro, hanno davvero qualcuno contro, in quel momento, adolescenza o meno.
Con il vassoio sempre ben saldo tra le mani e lo sguardo vispo e attento si avvicina ai due, notando le scarpe di entrambi ai piedi del letto, il modo protettivo in cui James tiene il braccio sulla vita di Lily, il viso sereno della ragazza e il colore scuro del suo abito a renderle il volto ancora più pallido di quanto già non sia.
Appoggia delicatamente il vassoio sullo scrittoio della camera, attenta a non far tintinnare le tazze di fine porcellana, e poi si dirige alle finestre, con l’unico intendo di chiudere le tende e, con esse, sbattere fuori il pallido sole invernale che fa capolino dalle vetrate.
Quando la stanza si adombra, finalmente, si dirige a passi lievi verso la porta, sempre attenta a non svegliare nessuno. Arrivata al battente di legno, però, si ferma un attimo e torna a voltarsi, l’espressione guardinga di una madre preoccupata e, a voler proprio vedere, anche imbarazzata. Socchiude lievemente gli occhi chiari, mettendo a fuoco le due sagome sul letto, che dormono della grossa e non si accorgono minimamente di lei e dei suoi pensieri.
Osserva attentamente l’abito da cerimonia che James ancora indossa, la camicia elegantemente chiusa nei polsi, i gemelli smaltati nei colori di Grifondoro –unica condizione posta quando, a undici anni, gli sono stati regalati da Fidelma e il resto della famiglia McKinnon-, il mantello che ancora non si è tolto. E poi la ragazza, con il suo abito scuro sotto al ginocchio, le calze color carne e un piccolo ciondolo al collo.
Forse è ora di fare a James e Sirius il discorso delle api e dei fiorellini.
È un pensiero veloce, quello che le passa per la mente, e che subito la fa avvampare come un ciocco di legna secca nel più caldo dei camini. Ringrazia di essere al buio, se la vedesse suo marito la prenderebbe in giro a vita per questa sua riluttanza nel riconoscere nei suoi bambini due giovani uomini.
Forse posso lasciare che sia Charlus a spiegare loro i meccanismi dell’essere umano.
 

*

 
Sento bussare alla porta con un tocco delicato, e alzo lo sguardo quel tanto che basta per incrociare quello scuro di Lène, che mi fissa dalla porta.
-posso entrare?-.
Inclino il capo e le faccio un sorriso divertito, pensando che, Merlino, a volte Marlene McKinnon è proprio in grado di stupirmi! Con tutte le volte in cui mi sono intrufolato in camera sua, mi chiede anche il permesso per entrare nella mia.
-hai finito di giocare a scacchi con Charlus?- chiedo curioso.
Lei mi rivolge uno sguardo a metà tra l’indispettito e il divertito, lasciandosi andare ad una risata strana.
-le pedine si sono rifiutate di giocare per me, lo hanno chiamato un suicidio di massa-.
Faccio un sorriso il più possibile compassionevole pensando che, effettivamente, è proprio negata a giocare a scacchi. Anche io, fossi stata una di quelle pedine, mi sarei rifiutato… ma questo è meglio non farglielo sapere.
-sei un bastardo, Sirius Black- mi si avventa contro con un pugno poco gentile al petto. Ecco, appunto, deve avermi letto nel pensiero.
-un bastardo che ti piace, però- le faccio notare indicandole il letto accanto a me e facendole segno di sedersi, o sdraiarsi.
-modesto-.
Annuisco, divertito.
-si, è una delle mie tante qualità, mi pare di avertelo già detto- le rispondo a tono –ma non ti devi preoccupare, mia cara, non sentirti in soggezione nello stare insieme ad un essere tanto perfetto-.
Ed eccoli, gli occhi scuri di Lène, assottigliarsi leggermente come quelli di un gatto.
-secondo te dovremo parlare un po’ di questa cosa dello stare insieme?- mi dice dopo qualche attimo di silenzio, in un tono leggero e disinvolto che quasi mi inganna. Se non avessi impiegato gli ultimi quattro mesi a studiarla come un’ossessione –quale è diventata, poi- quasi quasi potrei cascarci. Ma ormai, dopo averla guardata tanto, dopo averla vista in preda a qualsiasi emozione –dalla rabbia al dolore, dalla gioia all’estasi del piacere- non può più ingannarmi.
-se tu lo vuoi- mormoro in risposta con un tono egualmente falso.
Perché alla fine, le cose fra me e la McKinnon si sono risolte bene, no?
Insomma, a capodanno, con quei bei discorsi –discorsi sentiti, davvero- ho iniziato a crederci. E si, pensare in questi termini da una parte mi esalta dall’altra mi da il voltastomaco.
Non sono mai stato particolarmente romantico.
Ho voglia di toccarla, di sentire la morbidezza della sua pelle sotto i miei polpastrelli e di vedere il rossore –non avrei mai creduto che potesse arrossire tanto, l’algida, controllata McKinnon- sulle sue guance, sfumare sugli zigomi perfetti e illuminare gli occhi di gioia.
-hai pensato che abbiamo passato un sacco di tempo a parlare, in questi giorni, ma non abbiamo fatto altro?- mi chiede innocentissimamente, con un sorrisetto da bambina sulle labbra generose.
Deglutisco, ricordando d’un tratto che nemmeno io sono immune al rossore.
Non è cosa che mi faccia piacere ricordare.
Insomma, ha un così strano senso del pudore, Lène!
-mhmph, dici?- chiedo sfiorandole con le dita lievi il fianco, e sentendola trattenere il respiro per un attimo. Arrossisce, in un vampa di calore che invoglia a sfidarne ancora la presenza. Uno sguardo malizioso smentisce tutto, l’imbarazzo e il pudore, che forse è solo eccitazione ben celata.
-dico- mi risponde ridendo appena divertita, voltandosi fino ad avere il mio sguardo all’altezza del mio, una gamba lunga a contatto con la mia.
-se Zia Doree entra adesso in questa camera ci fa a fette e poi le dà in pasto ad Adone- le faccio presente sorridendo contro le sue labbra.
-e poi tu saresti un Grifondoro?- mi chiede beffarda, un sorriso sarcastico sulle belle labbra –alla faccia del coraggio-.
Ringhio divertito alzandomi sui gomiti e lasciandola scivolare sotto di me.
-mi stai dando del codardo, McKinnon?- le chiedo all’orecchio prima di prenderle tra i denti il lobo dell’orecchio destro. Un morso, un bacio, un morso, un bacio.
-…forse…- mormora soffocando un gemito e artigliandomi un braccio con la mano.
Soffoco un singulto quando inizia con dita lievi a slacciarmi i bottoni della camicia e…
-Sirius, è tuo il mant…-.
Al suono di voce di Zia Dorea scatto sull’attenti come una molla, scendendo dal letto ed allontanandomi da Lène con un unico movimento fluido.
Vedo lo sguardo della zia –pietrificata sulla porta con una mano ancora sulla maniglia- saettare da me a Marlene e poi da Marlene a me, soffermandosi sulla camicia mezza sbottonata e sul succhiotto sul collo di Lène, che io mi stavo diligentemente impegnando a marchiare.
La vedo deglutire, poi scuotere appena il capo.
-non fa niente- mormora con voce flebile, sempre inchiodata dallo stupore.
Immagino le servirà qualche minuto per riprendersi.
 

*

 
Dorea si chiude alle spalle la porta della camera di Lily, poi va verso le scale ripercorrendo la lista delle cose da fare nel pomeriggio.
Ha delle scartoffie da compilare per il lavoro –e chi se lo immaginava che fare l’Auror comportasse un tale spreco di carta e di inchiostro?-, deve andare alla Gringott per sistemare alcuni conti, passare per l’ennesima volta a casa McKinnon per cercare di far ragionare la sorella, andare in ufficio a portare le scartoffie ed essere in casa in tempo per cena. Sono solo le tre del pomeriggio, e già si sente stanca.
-ehi, hai finito di giocare a scacchi con tuo zio?- chiede a Lène quando la ragazza le passa accanto per salire al piano di sopra, sulle scale.
-si- le risponde tetra la ragazza.
Dorea sorride, lei e Marlene si assomigliano sotto molti punti di vista. Quando lei perde a scacchi contro suo marito diventa intrattabile, e perde sempre perché non ci azzecca per niente con gli scacchi.
-vuoi che passo da casa tua per prendere il baule per Hogwarts, Lène?-.
La ragazza si ferma un secondo solo sulle scale, forse pensando che le piacerebbe passarci lei, da casa propria, per prendersi il suo baule.
-si, grazie zia-.
Dorea annuisce, continuando il percorso per raggiungere la sala. Su una delle poltrone, un mantello scuro fa bella mostra di se, le iniziali elegantemente ricamate in filo d’argento sul colletto.
Merlino, i ragazzi si dimenticherebbero persino la testa se non l’avessero attaccata al collo.
Afferra il mantello di velluto pesante –quello elegante, non quello ordinario-, lo scruta attentamente con occhio critico e si volta ancora verso le scale.
Le fa talmente tante volte, in quei giorni, per star dietro a quegli impiastri dei figli, che ormai non rischia nemmeno più di avere il fiatone dopo l’ennesima sfacchinata.
Si dirige senza indugio verso la camera di Sirius, soprappensiero.
-Sirius, è il tuo mant…-
Le manca la voce quando vede quello che ha davanti.
Resta imbambolata per qualche attimo, lasciando che il suo sguardo passi da un Sirius enormemente scompigliato e con l’aria colpevole di un cane bastonato ad una Marlene con lo sguardo innocente, la cui innocenza è completamente messa in dubbio dal segno rosso che ha sul collo.
Lei, stesa sul letto, lui, in piedi e in imbarazzo.
-non fa niente- mormora con voce flebile all’indirizzo del figlio adottivo.
Le serve qualche minuto per riprendersi dallo shock.
-fate come se non fosse successo niente, il tuo mantello-.
Detto questo, si volta e veloce com’è arrivata se ne va, richiudendosi la porta alle spalle e tirando più sospiri velocemente.
È proprio il caso di far loro il discorso delle api e dei fiorellini.
 
 
 
 
 
 
 
NOTE:
 
buonasera a tutti! Vi ho fatto aspettare un po’ per quest’ultimo capitolo, però ho un modo per farmi perdonare. Finita di aggiornare questa storia aggiungerò immediatamente il prologo della seconda parte, che ho già finito di scrivere, quindi diciamo che entro al massimo una decina di minuti dovrebbe essere online!
Si chiamerà “L’amore ai tempi dell’odio”, e la troverete sulla mia pagina, come sempre.
Detto questo, dall’inizio della seconda parte si cambia metodo di narrazione….
Bene, non so più che dire quindi mi sa che mi congederò,
grazie a tutti per le recensioni, risponderò tra domani e dopodomani, giuro
buona lettura,
Hir.
 
P.S. se vi va di leggerla, ho aggiunto una storia sulle sorelle Black, che non c’entra nulla con questa ff, ma che comunque potete trovare sul mio profilo. Si intitola “…ma, più di ogni alta cosa, la bocca delle Black”
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
   
 
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