Prima parte
Giorno
d’inverno
Vette di nuvole.
Appaiono anche in
sogno,
senza confini
Kato
Shuson
CAPITOLO 1
FREDDO
Freddo.
Fu la prima cosa che
avvertì. E
poi un dolore sordo, pulsante alla tempia destra. E la sensazione
sgradevole di
non possedere più un corpo.
Strinse i denti, e con un immenso
sforzo riuscì a mettersi a sedere. Respirò piano,
cercando di scacciare le
vertigini che l’assalivano. Quando si sentì
abbastanza sicura, apri gli occhi.
Bianco.
Non c’era altro. Bianco. Bianco. Dovunque.
Cercò di mettere a fuoco le
immagini, ma la neve cadeva troppo fitta e dal terreno si alzava una
nebbia
leggera che confondeva i contorni delle cose.
Una nuova fitta la costrinse a
portare una mano alla testa. Avvertì qualcosa di vischioso
sulle dita. Non
dovette neanche guardare per capire di cosa si trattasse. Sangue.
Poco, per fortuna. Giusto un
graffio.
Prese un po’ di neve e se la
passo sul taglio alla tempia, sul viso, sul collo.
Sudava.
Era freddo, ma lei sudava. Le
sembrava di soffocare.
Prese fiato, e provò ad
alzarsi
in piedi. Ci riuscì solo per un istante; un violento
capogiro la costrinse di
nuovo a terra.
Freddo. Di nuovo. E bianco. La
neve continuava a cadere, soffici fiocchi. Una coperta mortale.
Non poteva restare lì,
sdraiata
nella neve. Lo sapeva bene. Sarebbe morta. Però era anche
cosciente che non
aveva la forza per muoversi di molto. Ma non si sarebbe arresa. Non lo
avrebbe
mai fatto.
Si trascinò carponi verso
il suo
zaino e appoggiandosi ad un albero riuscì a mettersi in
piedi.
Doveva andarsene da lì. Era
l’unica cosa che in quel momento le passava per la testa. Non
importava dove
fosse, solo non poteva stare lì. Né
addormentarsi. Doveva cercare un riparo,
uno qualsiasi.
Conosceva la montagna. Ci era
nata. E anche se non aveva idea delle insidie che quel luogo
sconosciuto poteva
celare, iniziò a camminare.
Bastava quello. Camminare. Per
restare svegli e sfuggire alla morsa del gelo. Almeno, finchè
le forze non l’avessero abbandonata. Ma per
allora sperava di aver trovato un riparo.
Attizzò il fuoco
aggiungendovi un
ciocco di legna e si strinse di più nel maglione.
Era stata fortunata a trovare
quel rifugio. Probabilmente, d’estate veniva
usato dai taglialegna che salivano sulla montagna. Anche se le era
sembrato
piuttosto vecchio; anzi, più che vecchio,
“primitivo”. Le assi non dovevano mai
aver conosciuto la pialla, e anche i chiodi erano strani. In ferro, e
non in
acciaio, come erano quelli che si vendono in tutti i negozi di
ferramenta. E
poi sembravano lavorati a mano, usciti dalla fucina di un fabbro.
Ci riflettè
un po’, ma era troppo stanca per
arrovellarsi il cervello con riflessioni di così poca
utilità. Piuttosto,
avrebbe voluto tanto sapere dove si trovava.
L’ultima cosa che ricordava
era
di esser scivolata lungo un pendio roccioso. Come una principiante.
Dannazione.
Non che con quella nebbia improvvisa si vedesse
qualcosa, ma lei si era tradita in modo stupido. Infantile.
Sperò che glia altri si
accorgessero presto della sua assenza, e tornassero a cercarla.
Scacciò subito
quel pensiero. Sarebbe stato da imprudenti avventurarsi sul monte Fuji
con quel tempo e senza
essere esperti del luogo.
No. Era più probabile che
si
sarebbero rivolti alle autorità forestali. Il che
significava di certo passare
quella notte all’addiaccio.
Sospirò. Non le importava
più di
tanto. Ora che aveva un riparo, non le importava quanto ci avrebbero
messo.
Gettò un nuovo ramo nel
fuoco e
si smarrì nel guardare la danza di sottili pagliuzze dorate.
Sarebbe arrivata a valle da sola.
Aveva deciso.