Dalle ceneri rinasceremo
Mi
chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Sono nata nel distretto
12. Il distretto 12 era stato distrutto. Ora sta rinascendo dalle
proprie ceneri. Perché Capitol City è crollata.
Perché il
presidente Snow è morto. Perché io ho acceso la
scintilla che ha
distrutto la sua dittatura. Perché io ero la ghiandaia
imitatrice.
Ora vivo nel distretto 12. La guerra è finita. Mia sorella
è morta.
Mia madre è lontana. Gale è lontano. La paura mi
assale ogni volta
che chiudo gli occhi.
Ma
non ce n’è motivo. Gli Hunger Games sono finiti.
~
A
questo pensavo ogni volta che mi svegliavo di soprassalto, durante la
notte. Le braccia di Peeta erano l’unica ancora che mi
tratteneva
dalla follia. Calde e forti, erano come delle catene che impedivano
alla mia mente di volare altrove, in un mondo dove la pace era solo
una visione lontana, irrealizzabile. Nel mondo che ci eravamo appena
lasciati alle spalle.
Quando
mi succedeva, Peeta si svegliava e mi confortava. Ma c’erano
delle
volte in cui non mi andava di interrompere il suo sonno, che sembrava
così pacifico ora che la guerra era solo un terribile
ricordo.
Allora iniziavo a ripetere quella cantilenante filastrocca, nella mia
testa, per ricordarmi chi ero e cosa avevo fatto.
Ma
quel mattino, al mio risveglio, Peeta non c’era. Sentii
immediatamente il vuoto lasciato da lui. Come se improvvisamente si
fosse aperta una finestra e avesse fatto filtrare all’interno
della
stanza una folata di aria gelida. Mi voltai nel letto, scivolando al
posto che doveva essere occupato dal suo corpo caldo. Ma lui non
c’era.
Il
panico mi assalì. Ecco, era successo: era stato tutto un
sogno. Solo
un sogno, probabilmente creato dall’abuso di farmaci. O forse
ero
stata drogata. La pace non esisteva, Capitol City non era crollata e
Snow non era morto. Mi aveva catturata e ora mi stava torturando per
farmela pagare. Per aver messo a rischio non solo la sua vita, ma il
suo regno. Probabilmente non c’era nessun Peeta: lui era
già stato
ucciso. Mi era già stato portato via. Ancora. Non
c’era nessun
distretto 12 che risorgeva dalle sue ceneri, come una fenice. Non
c’era niente. Era stato tutto inutile. La ghiandaia
imitatrice
aveva fallito e il suo volo verso la libertà era stato
fermato. Gli
Hunger Games avrebbero continuato a mietere vittime innocenti.
No.
No. No. Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho 17 anni. Sto
diventando
pazza. Sto diventando pazza.Sto diventando pazza.
Improvvisamente
l’udito si risvegliò e captò dei rumori
provenienti dal piano di
sotto. Ecco, probabilmente erano dei pacificatori che stavano
preparando il modo migliore per torturarmi e estorcermi informazioni
sui ribelli.
Mestamente,
scostai le lenzuola bianche e pulite, che un tempo sapevano di fresco
ma ora mi ricordavano solo le anonime lenzuola dell’ospedale
del
13, dove avevo passato così tanto tempo. Reclusa. Dolorante.
Persa.
Infilai
le ciabatte e aprii la porta, cercando di non fare rumore. Scesi le
scale, pronta ad affrontare qualsiasi nemico mi aspettasse al piano
di sotto. Pronta a combattere con la sola forza fisica, se fosse
stato necessario.
Ma
non fu così.
Non
appena arrivai al piano terra un distinto profumo di miele mi invase
le narici. Miele e cannella. E forse anche mele. No. Non era reale.
Ma
invece lo era.
Entrai
in cucina, con passo felpato. E lui era
lì. Era vivo.
Mi
chiamo Katniss Everdeen. Ho 17 anni. Sono viva. La guerra è
finita.
Peeta è vivo. E sto diventando pazza. Ma non importa,
perché lui
sta bene.
Peeta
non si era accorto di me, così mi presi qualche istante per
osservarlo, come se dovessi avere un’ulteriore conferma che
lui
fosse li, che fosse vivo e che non fosse tutto solo un sogno.
Erano
passati molti giorni da quando era tornato anche lui a vivere nel
distretto 12 ma ad ogni modo non riuscivo ancora ad adattarmi. I
ricordi della guerra, del dolore e della follia erano ancora li, vivi
e brucianti sulla mia pelle, ancora in via di guarigione. Ma non
erano le ferite fisiche a preoccuparmi. Erano ferite che i farmaci
non potevano curare. Forse solo il tempo ne sarebbe stato in grado. O
forse no.
Peeta
era davanti ai fornelli. Indossava ancora il pigiama e sopra di esso
portava un grembiule bianco. Si muoveva agilmente, spostando rapido
più padelle alla volta come se fosse la cosa più
facile del mondo.
Sembrava più a suo agio li di quanto non lo fosse mai stato.
Mi
chiesi come avesse fatto a sopravvivere nell’arena, una
creatura
così buona e pura... trasformata dalle mani distruttrici di
un città
diabolica e del suo abile burattinaio.
Quando
mossi un altro passo nella sua direzione, finalmente lui si accorse
della mia presenza. Ebbe un sussulto prima di voltarsi con uno scatto
rapido. Allora non ero solo io quella che viveva ancora come se un
nemico potesse spuntare fuori da un momento all’altro, armato
di
fucile.
«Buongiorno.»
Disse lui, agitando una padella vuota.
«Cosa
stai facendo?»
«Ho
preparato dei muffin. Te li avrei portati a letto, non volevo
svegliarti. Mi sembrava che stessi dormendo bene.» Disse con
un
sorriso sincero sulle labbra.
Ed
in effetti era così. Da quando Peeta era tornato, da quando
ogni
sera si coricava nel letto con me, gli incubi se n’erano
andati,
come se solo la sua presenza fosse abbastanza per scacciarli.
Decisi
di non raccontargli nulla del mio momento di cedimento avuto poco
prima, quando avevo pensato che la vita dei giorni scorsi fosse stato
solo un sogno, un’illusione. Non mi pareva giusto guastare il
suo
buon umore.
«Va
tutto bene, Katniss?» Peeta spense i fornelli e
abbandonò le
padelle vuote. Sul tavolo apparecchiato c’era un vassoio
pieno di
muffin dorati e una caraffa di succo. Al centro, in un vasetto di
cristallo, c’erano i fiori che Peeta aveva piantato in
giardino, il
giorno del suo ritorno. Delle bellissime primule appena colte. Prime
rose. Prim.
«Katniss?»
Ripeté lui, slacciandosi il grembiule e lasciandolo cadere
sullo
schienale di una sedia. Si era accorto che stavo fissando i fiori,
con sguardo distante.
Mi
costrinsi a piegare le labbra in un sorriso forzato. «Sto
bene.»
Dissi con voce poco convincente. E un istante dopo, senza nemmeno
avere il bisogno di chiederlo, le sue braccia erano li, attorno a me,
e mi proteggevano da tutto il male che voleva attaccarmi e
trascinarmi nel suo oblio. Senza rendermene conto una lacrima
scappò
dalle mie ciglia scivolando giù, veloce, sulla mia guancia
fino a
posarsi sulla maglietta di lui. Peeta mi accarezzava i capelli,
cercando di calmarmi. E funzionava.
«Shhh»
sussurrava. «Va tutto bene, Katniss. Va tutto bene. Nessuno
può
farti del male.»
Mi
presi ancora qualche secondo, beandomi di quella sensazione di
calore, prima di allontanarmi di poco da lui, per guardarlo dritto
nei suoi occhi azzurri. E non riuscii a trattenermi.
«Ho
avuto paura, prima. Quando non ti ho trovato al mio fianco.»
«Katniss...»
«Ho
avuto paura che fosse tutto un sogno. Che la guerra non fosse mai
finita. Che Snow fosse ancora vivo e sulle mie traccie. Che tu te ne
fossi andato via, per sempre.»
«Katniss,
questo non succederà mai. Lo sai bene.» Disse con
voce sicura. Sì,
Peeta era il mio scoglio, il mio porto sicuro. Ciò di cui
avevo
bisogno per sopravvivere, dopo tanto dolore e tante perdite. Ma
c’era
qualcosa di più. Qualcosa di profondo che mi spingeva a
desiderare
la sua presenza, sempre e comunque. Non volevo che mi lasciasse.
Sentivo il bisogno di averlo accanto.
Mi
sporsi verso di lui e lo baciai. Era bello farlo, ora. Ora che
nessuna telecamera ci stava spiando. Ora che era tutto reale, e non
una recita per far colpo sugli sponsor. Potevamo amarci davvero, come
fanno i ragazzi e le ragazze della nostra età. Era un
sentimento
puro, dettato dal desiderio e non dall’istinto di
sopravvivenza.
Questo aspetto del presente era forse quello più forte, che
riusciva
a tenermi legata alla realtà. E io mi ci aggrappavo con
tutte le mie
forze.
La
mano di Peeta si posò leggera come una piuma sulla mia
guancia.
«Allora...»
dissi io, prendendo fiato. «Li assaggiamo o no questi tuoi
dolci?»
Il
sorriso tornò sulle labbra di Peeta, rendendolo ancora
più bello.
Radiante come il sole. «Ma certo.» Da perfetto
galantuomo mi scostò
la sedia, facendomi accomodare. Ma mente stava per sedersi sulla sua,
un sibilo lo costrinse a tirarsi indietro.
«Hey!»
Esclamò.
«Ranuncolo!»
Guardai con disappunto l’orrido gatto, che dalla sedia di
Peeta mi
fissava. O forse stava guardando i dolcetti? La sua coda guizzava
avanti e indietro, come se si stesse preparando a balzare.
«Ne
vuoi uno anche tu?» Gli chiese Peeta.
«No,
non fanno bene quelle cose per i gatti.»
Peeta
mi rivolse uno sguardo divertito. «E da quando ti preoccupi
della
sua salute?»
Sorrisi,
lanciando per terra un pezzetto di pane. Il gatto balzò
giù dalla
sedia, seguendolo immediatamente. Io e Ranuncolo non abbiamo mai
avuto un buon rapporto. Prima dei giochi un mio pensiero quotidiano
era decidere il modo migliore per cucinare un gatto. Ma poi mi
bloccavo sempre, perché sapevo che una certa persona non mi
avrebbe
mai perdonata, se avessi ucciso e cucinato il suo gattino innocente.
Da
quando lui è tornato a casa per cercare Prim. Da quando ho
capito
quanto le volesse bene. Perché lui ha sofferto con me. Un
gatto mi
ha capita più di chiunque altro. Ecco perché ci
tengo a lui, ora.
«Non
ha importanza. Solo mi spiacerebbe vederlo morire, dopotutto.»
Peeta
sorrise, ma mi accorsi che aveva fatto il collegamento. Mi mise nel
piatto un paio di muffin e versò del succo nel mio
bicchiere. Così
iniziammo a mangiare, lanciandoci qualche fugace occhiata e
sorridendoci di tanto in tanto. Non avrei mai pensato ad un futuro
simile, solo qualche mese fa. A dire la verità non avrei mai
pensato
che avrebbe potuto esserci un futuro per me. Avevo sempre creduto di
morire in quella guerra, come una buona martire che si rispetti. E
invece eccomi qui. Con il sorriso sulle labbra. La paura della guerra
ancora vicina. Ma Peeta ancora più vicino. E questo
è tutto quello
che conta, adesso.
~
Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Vivo nel distretto 12. Quando chiudo gli occhi, mi sembra di tornare indietro nel tempo, alla guerra. Sento ancora i fucili che sparano. I corpi che cadono. Il cannone che nell’arena annunciava i Tributi morti. Ma quando mi sveglio sono a casa. A casa mia. La pace è tornata ed è stata costruita per durare. Panem si sta lentamente rialzando per rinascere dalle sue ceneri. Sono felice. Ma sono anche triste. Questa è la mia vita. Non potrà mai essere normale. Ma ho Peeta al mio fianco. Io amo lui e lui ama me. E’ tutto quello che importa. E’ l’unica persona in grado di compensare il vuoto nel mio cuore. Un giorno forse ci sposeremo. Forse avremo dei figli. Lui li desidera tanto, lo so già. E loro potranno crescere felici. Vivranno nel distretto 12. Non ci sarà alcuna guerra. E soprattutto, non ci saranno più gli Hunger Games ad aspettarli, come un nero incubo nascosto nell’ombra. La ghiandaia imitatrice ha fatto il suo lavoro. E ora le sue fiamme possono estinguersi, così come si sono accese. Con una scintilla. E potrà di nuovo tornare a librarsi nel cielo, cantando. Libera. E felice.
~
SPAZIO AUTORE
Salve
a tutti popolo di efp. Questa è la prima volta che scrivo
qualcosa
su Hunger Games. Spero di non aver fatto un flop totale! :)
E’
solo che ho finito l’altro giorno di leggere
‘’il canto della
rivolta’’ e non ce l’ho fatta a
trattenermi, ho dovuto buttare
giù qualche riga e alla fine è uscita questa one
shot.
Perché
è così: ogni volta che finisco una saga che mi ha
davvero
appassionata, mi sento vuota e malinconica e non ce la faccio proprio
a mettere da parte i libri. Così, sconsolata, inizio a
scribacchiare
qualcosa. Questo è stato il risultato. Un pezzettino della
nuova
vita di Katniss e Peeta, un semplice momento che mostra quanto ancora
il ricordo della guerra sia vivo nelle loro menti, ma quanto il
desiderio della pace sia forte dentro di loro.
Niente,
spero solo che leggiate e apprezziate questa storiella e in caso,
fatemi sapere cosa ne pensate! Di solito non scrivo one shot, quindi
qualsiasi critica è bene accetta, purché sia
costruttiva ;)
Grazie
a tutti quelli che leggeranno e recensiranno e, spero, alla prossima
;)
E... may the odds be ever in your favor ♥
~ C