Note di Deirbhile:
Prima di procedere con
la storia, vorrei rivolgermi direttamente a voi lettori. Questo è uno dei
racconti brevi che ho scritto in
questo periodo, ma non so quanti ne pubblicherò su Efp per ora.
So che è molto lungo,
quindi ringrazio in anticipo chi riuscirà a finirlo tutto! Un’ultima cosa… Mi
piacerebbe ricevere qualche recensione, l’ho pubblicato proprio per ricevere il
parere di qualcuno che possa giudicarmi oggettivamente
:D
Non mi dilungo più di
tanto… Buona lettura!
P.S.: per eventuali errori di
stesura, chiedo scusa fin da ora ma non ho avuto il tempo di rileggerlo
scrupolosamente!
Erano due giorni che Lea
Doherty se n’era andata.
Aveva lasciato i suoi occhiali da lettura neri sulla libreria e, come ogni
venerdì pomeriggio, aveva varcato la soglia del suo portone di legno lucido ed
era uscita nella piazza soleggiata proprio sotto il suo balcone. Aveva preso
una limonata, si era seduta sulla panchina di fronte alla fontana, dove l’acqua
riluceva al sole del tramonto come oro rosso. Lì i pesci schizzavano come
macchie di sangue. Era un tiepido pomeriggio di marzo. Aveva bevuto con calma
la sua bevanda fresca e aveva deciso di attraversare la strada per tornare a
casa a finire il pezzo che stava scrivendo. Aveva trovato l’ispirazione in quel
cielo dai colori aspri. Una macchina era passata velocemente, con un pazzo al
volante, e le aveva fatto trovare anche la morte. E’
questo che raccontarono a Gray in paese, questo che
si limitò a dirle il padre di Lea al telefono. Lo aveva sentito squillare alle
dieci di sera ed era uscita immediatamente dalla doccia. Aveva letto il numero
e si era chiesta cosa potesse mai volere. Lea era un tipo molto discreto, Gray sapeva che non avrebbe mai telefonato a quell’ora, conoscendo il rito della sua rilassante doccia
serale. Aveva chiuso gli occhi ed era svenuta sul colpo, non appena le era
giunta la notizia.
“Che significa che ci ha lasciati?”
Era svenuta e ricordò di essersi ripresa solo qualche ora dopo, quando suo
padre era tornato a casa dal lavoro e l’aveva trovata in simili condizioni.
In quei due giorni non aveva
fatto altro che stare seduta. Si alzava la mattina, verso le sei e mezzo, si infilava a caso una delle sue felpe colorate, e camminava
a piedi per poi sedersi sulla panchina dove lei
aveva trascorso gli ultimi istanti della sua vita. Saltava la scuola,
lasciava che il bus passasse alle sette e trenta di fronte al suo appartamento
senza che nessuno si accorgesse della sua assenza. Lasciava il proprio posto a
scaldarsi al sole insieme a quello di Lea. Restava
seduta lì, a toccare il metallo della panchina, cercando una traccia di calore.
Cercando un suo tocco, un punto in cui lei avesse lasciato le
sue dita scorrere nei pomeriggi invernali. Appoggiava il capo allo
schienale, immaginando che i suoi capelli vermigli fossero
esattamente lì dove lei era solita piegare la testa per guardare il
cielo. Il primo giorno dopo la sua morte, era stata seduta lì fino a
mezzogiorno. Aveva lasciato il cellulare spento e al suo ritorno a casa, con
volto mesto e asciutto, suo padre l’aveva rimproverata bruscamente per essere
sparita in quel modo. Ma Gray,
in fondo, sapeva che suo padre non aveva davvero intenzione di arrabbiarsi. In
qualche modo, le era concesso questo ed altro in quella situazione. In secondo
giorno, si era seduta di nuovo sulla panchina, ma si era concentrata sul
portone di legno lucido che troneggiava poco lontano. Non aveva ancora avuto il
coraggio di andare a vedere la sua salma. Investita da un pazzo ubriaco. Investita. Quella parola continuava a
lampeggiarle in testa, seguita da tanti flash abbaglianti. Lea
che rideva, Lea che leggeva in un angolo della classe, che mangiava le barrette
dietetiche per paura d’ingrassare. E ancora lei e Lea
che camminavano verso casa dopo scuola, Lea e i suoi libri, Lea al suo
diciassettesimo compleanno, fasciata nel suo abitino bianco. Si alzò, di
scatto. Attraversò la strada lentamente, come a sfidare una macchina invisibile
ad investire anche lei e a strapparle con i suoi artigli di metallo tutto ciò
che aveva. Poteva giurare di aver visto
una macchia di sangue, proprio vicino alla fontana dei pesciolini rossi.
Camminò imperterrita, ritta nella sua felpa grigia. Tremava come una foglia e
così violentemente che persino il battito del suo cuore si era ridotto al una semplice vibrazione. Il portone era spalancato.
Entrò, misurando i passi e trattenendo le lacrime. Non ne aveva
versata nemmeno una da quando lei se n’era andata. Vide sua madre, una signora
sulla cinquantina, che spazzava il piccolo cortile interno. C’erano altre voci,
provenienti dalle scale che portavano all’appartamento. L’orologio di marmo sul
frontone della facciata segnava le quattro del pomeriggio. Il sole calava molto
più lentamente che a febbraio, ma quel giorno era
livido.
- Buonasera-
La voce di Gray parve ruvida e stropicciata, come una cartaccia
appallottolata nella tasca posteriore dei jeans. La
donna alzò lo sguardo, puntando gli occhi azzurrini dritti verso i suoi. Posò
subito la scopa e le si accostò. Era vestita totalmente di nero e quello fece pentire immediatamente Gray
di aver attraversato la strada.
- Ti ho vista seduta
sulla panchina ieri mattina e oggi, quando mi sono affacciata all’alba, c’eri ancora. Mi chiedevo quando ti
saresti decisa a venire-
La ragazza non si
ricordava di aver mai parlato con la madre di Lea, se non in occasione di
qualche festa. Le era parsa, però, una donna molto intelligente, con uno
sguardo acuto e ghiacciato, così diverso da quello caldo e confortevole della
figlia.
- E’
stato difficile- ammise, infine. Abbassò il capo, rimirandosi del converse macchiate di fango. Lea si meritava molto più
di quello. Si meritava molto più di un branco di persone che probabilmente
l’avevano vista sì e no un paio di volte da bambina, vestite a lutto a piangere
la sua morte prematura. Si meritava una persona migliore di lei, un’amica che fosse in prima fila al suo funerale. Gray
sapeva che Lea non avrebbe voluto una dipartita del
genere, però. In vita era stata una persona così energica, così controversa che
il pensiero della morte, qualora l’aveva sfiorata, le
aveva procurato solo una grande risata. Avrebbe voluto qualcosa di più felice,
ma avrebbe voluto che lei ci fosse. Gray provò un
improvviso moto d’orgoglio nel constatare che per Lea era stata importante. Ma il pensiero della sua bara, di quella chiesa soffocante e
dei parenti distrutti, le fece salire un conato di vomito. Non sarebbe andata a
darle l’ultimo saluto. “Sei una vigliacca” di disse.
- E’ stato difficile per
tutti-
La donna ruppe il
silenzio e la invitò ad entrare. Gray scosse la
testa, sentendosela vuota. Eppure aveva la vaga
sensazione che sarebbe esplosa da un momento all’altro.
- Ero passata per sapere
dove fosse Lea-
I suoi occhi lignei,
sembrarono incendiarsi a quelle parole, pronunciate con tanta intensità. La
madre di Lea si avvicinò ancora di più, tanto che la ragazza dai capelli rossi
poté notare le piccole striature rosse che le venavano
le iridi.
- La bara è in chiesa, il funerale comincerà fra un’ora-
Il dolore nella voce di
quella donna spaventò Gray più di qualunque altra
cosa. Più del sangue sulla strada, più delle lacrime delle
sue compagne di classe, più del ricordo insistente di quella maledetta sera.
Sentì lo stomaco scendergli giù alle ginocchia e minacciare di liquefarsi, le
palpebre abbassarsi, le mani contrarsi. Decise di fermarsi per fare quattro
chiacchiere con la donna, per calmare quegli spasmi.
- Comunque
intendevo dov’è la sua anima- continuò, mentre con lei si avviava verso
l’ingresso dell’appartamento.
Doveva essere impazzita,
la sua lingua si era mossa senza che il cervello le avesse inviato
alcun impulso razionale. La signora Doherty sospirò,
prendendola delicatamente per una spalla e strascinandola dentro casa,
sorpassando un gruppetto di uomini in nero che
discutevano sulla soglia. La condusse in cucina, la fece sedere e le offrì un
bicchiere di succo d’arancia. Poi, finalmente, decise di parlare.
- Suppongo sia andata in
paradiso-
Gray aggrottò le
sopracciglia sottili, puntando lo sguardo su una delle fotografie appese al frigorifero.
Lea al diploma di suo fratello.
- Ma
io mi sento come se fosse qui, proprio vicino a me- sussurrò flebilmente. Di colpo, tutta la sua voglia di essere forte si ridusse in
un mucchio di sabbia e sentì una lacrima gravarle sulle ciglia.
- Ma lei in un certo
senso è anche qui-
Il volto della donna
sembrava essersi addolcito a quella constatazione.
Gray si accorse di non
essersi ancora presentata. Era quasi sicura che la signora Doherty
l’avesse riconosciuta per il suo aspetto tutt’altro
che casuale. I capelli di quella tonalità potevano appartenere solo alla
famiglia Harvey.
-Mi scusi,
forse non si ricorda nemmeno di me. Mi chiamo Nicole
Harv…-
- Ma
ti fai chiamare Gray, mi ricordo bene di te- la
interruppe la signora Doherty.
- Ero…
sono un’amica di Lea-
- Lea mi parlava spesso
di te. Ti ammirava molto, sai? Le piacevano i tuoi capelli, il paragonava al fuoco-
Rise sommessamente, con
un velo di malinconia.
- Già, non mancava mai
di dirmelo. Era una persona molto curiosa-
Mentre Gray
parlava, osservava il fondo del bicchiere. Era come se Lea la
stesse fissando, da quella fotografia appesa al frigorifero.
- Non
credo di aver mai conosciuto appieno mia figlia, con tutto il tempo che passava
sola nella sua stanza a scrivere. Ma tu sembri
un’acuta osservatrice-
Quella frase destò la
ragazza dall’angoscioso torpore in cui era caduta. Si asciugò lesta una lacrima
e si decise a spezzare il silenzio con voce ferma.
- Non eravamo migliori
amiche o qualcosa del genere. Ci limitavamo ad osservarci. Credo che questo significasse molto di più per lei. Diceva
che la gente non riusciva mai ad andare oltre la prima impressione. Tornavamo a casa insieme molto spesso. Era una ragazza molto pacata, mi chiedevo come facesse a controllare così le sue
emozioni-
Fece una pausa. Un po’ per il bisogno d’ossigeno, un po’ perché voleva asciugarsi
un’altra lacrima silenziosa senza troppa teatralità. La sua voce era
immobile nell’aria. Sembrava che tutti i cuori del mondo avessero smesso di battere
e che le lancette si fossero fermate in tutti gli orologi. Le pareti verde mela
di quella cucina di colpo sembrarono troppo strette a Grey.
Sarebbe voluta uscire e urlare a tutti l’essenza di
Lea. La signora Doherty la fissava assorta, come se
invece del suo viso serico e bagnato vedesse quelle parole prendere forma. La
rossa deglutì e si decise a continuare.
- Le piaceva il mondo.
Credo non ci fosse persona più adatta di lei a vivere.
Osservava, imprimeva nella sua mente tutto ciò che accadeva intorno a lei e lo
tramutava in inchiostro su carta. Non c’era persona più predisposta di lei alla
vita, con la sua curiosità, la sua fragilità, la sua
voglia di emergere. Non credo che tutti riuscissero a
capire cosa si celasse dietro i suoi occhi. E’ lì che ho visto qualcosa, la
prima volta che ci incontrammo. Ho capito subito che i
nostri spiriti erano affini, in un certo senso.-
- La conoscevi meglio di
qualunque altro amico, vero?-
- Sono sicura che lei mi
conoscesse molto meglio di quando non facessi io. A
volte mi capitava di guardarla mentre leggeva. Aveva
lo sguardo perso , eppure così completo!-
La
donna di fronte a lei sorrise, per la prima volta con un po’ d’affetto. Le riempì un altro
bicchiere di succo, nella speranza che rimanesse ancora a farle compagnia. Gray bevve e si preparò a riprendere il discorso.
- C’è una cosa che mi ha
sempre colpito di sua figlia. Una volta, mentre tornavamo a casa, mi chiese se fingevo. Fingere cosa? Le chiedevo io. Mi spiegò che secondo
lei tutti fingevano qualcosa: un sorriso, fingevano
d’amare, di essere felici. Rimasi sorpresa per la domanda che mi pose. Ma se tutti fingono e tutti ne sono al corrente, allora perché ci comportiamo come se andasse
tutto bene?-
La signora Doherty sembrò irrigidirsi a quelle parole e si mosse
nervosamente sulla sedia.
- C’è qualcosa che non
va?- le domandò educatamente Gray. La donna scosse la
testa, con labbro tremante. Le lacrime su viso della ragazza dai capelli rossi
si erano completamente seccate.
- E’ solo che mi rendo
conto di sapere davvero poco su mia figlia-
- Ho
avuto la stessa sensazione per molto tempo, mi creda-
Si guardarono per un
attimo, consapevoli. Consapevoli che entrambe stavano
fingendo qualcosa. L’aria si fece elettrica, improvvisamente. Poi qualcuno
bussò alla porta lievemente socchiusa e la signora Doherty
si alzò. Apparvero sulla soglia due ragazze, dovevano essere due
del club del libro che aveva fondato Lea. Avevano gli occhi arrossati e
stringevano fra le mani un libro ciascuna.
- Signora Doherty, suo marito vuole che scenda giù. La funzione
comincerà a breve- disse una di loro, la ragazza con un vistoso
piercing sull’orecchio sinistro.
- Di’ ad Andrew che arrivo subito- la liquidò la donna.
La donna lanciò un
ultimo sguardo carico di parole a Gray. Fece
per uscire dalla cucina, e seguire le due amiche di Lea, ma poi rientrò e, con
mani tremanti, ripose la caraffa vuota e i bicchieri sporchi nel lavello. Poi,
si avvicinò di nuovo alla ragazza dai capelli rossi, e la scrutò in viso. Passò
in rassegna i suoi occhi grandi e scuri, che in quel momento esprimevano un
distratto disagio, mentre a loro volta fissavano la fotografia di Lea appesa al
frigorifero. Doveva andarsene o avrebbe finito per
esaurirsi tutta in quella stanza. Spirare come polvere e
sparire nello stesso posto dov’era andata Lea. Trattenne le
lacrime, mentre la donna di mezz’età spostò lo sguardo sulla sua piccola
cicatrice al lato dell’orecchio sinistro. Infine, sembrò analizzare la sua
espressione enigmatica.
-La
funzione comincerà fra poco, ma immagino non verrai-
sentenziò infine. Il suo tono era pacato, calmo come
il suono dell’oceano all’alba. Gray sospirò,
combattuta.
-
Sono una vigliacca che non sa scendere a patto con i suoi sentimenti, mi
dispiace-
Mentre lo diceva, si mordeva
le labbra a sangue. Il suo viso si contraeva continuamente nell’attesa di
liberarsi di quel groppo acido che le si era formato all’altezza
della gola. Gray gliel’avrebbe data vita. Di colpo,
si rese conto di quanto fosse ridicola. Lì in piedi, in quella cucina verde
mela, davanti alla fotografia di Lea che la fissava. Si disse che, dopotutto, la signora Doherty
era molto simile a sua figlia. Stessi occhi grigi, stessa
capacità di scandagliare le anime senza destar sospetto.
-Lea non la pensava così-
Quello
fu il colpo di grazia. Le sue labbra si incrinarono di
nuovo pericolosamente. Le facevano male. Si era lasciata sfuggire solo qualche
lacrima, ma non aveva intenzione di annegare in quel vortice che sembrava voler
emergere dai suoi occhi. Il senso di nausea la colse di nuovo, come quella
sera. “Lea non la pensava così” si ripeté.
-Mi
dispiace- singhiozzò,
stringendo una mano sul bordo del tavolo di legno così forte da rendersi le
nocche completamente esangui. Voleva piangere. Voleva andarsene. Sparire, come
polvere. Non tornare. Un immensa pena verso se stessa
la invase. La signora Doherty scosse la testa,
sorridendo.
-
C’è una cosa che dovresti vedere prima di andartene. –
Probabilmente
aveva intuito la sua intenzione di scappare quanto più possibile lontano da quell’orologio di marmo che rintoccava ogni minuto. Ogni
minuto che passava sentiva le sue mani contrarsi sempre di più e il suo petto
sbalzare ad ogni sospiro.
-Ma certo-
La
sua voce era debole e vibrava violentemente fra le mura di quel corridoio buio.
La signora Doherty la condusse ad una porta, oltre la
quale Gray era sicura di trovare la camera di Lea.
Qualcosa le diceva che non doveva entrare per nessun
motivo al mondo. Qualcosa le diceva che, invece,
doveva spalancarla e sospirare nel vedere Lea che tranquillamente leggeva sulla
sua poltrona. Ma Lea era morta. L’indecisione sembrò aumentare in un crescendo angoscioso, finché
la donna non le poggiò una mano ossuta sulla spalla, spingendola delicatamente
in avanti.
-Su,
entra-
Gray chiuse gli occhi, poggiando una mano sulla maniglia di
fattura antica. Era decorata da ghirigori dorati, il cui motivo
si stagliava nitidamente contro l’ebano lucido su cui erano fissati.
Allungò una mano ad
accarezzare il legno, mentre ogni organo del suo corpicino
minacciava di sciogliersi. Di nuovo la voglia disperata di cadere nel vuoto.
-Non so se è il
caso- tremò, voltandosi verso la donna. La vide alzare
leggermente un angolo della bocca, in un mezzo sorriso mesto.
-
Ti aspetterò fuori. Hai bisogno di entrare-
Gray si chiese come facesse quella donnina a conoscerla così
bene dopo soltanto un’ora di chiacchiere. Pensò che forse era
stata Lea a raccontarle quelle sue piccole sfaccettature che la
rendevano così criptica. Annuì e scavò a fondo nella sua anima alla ricerca di
un po’ di coraggio. Di un po’ di coraggio per aprire quella porta e lasciarsi
cadere nel vuoto. “Ti farai male”, si fece
sentire il suo istinto di sopravvivenza. Poi, dopo vari dolorosi tentennamenti,
la luce della finestra che dava sulla piazza la trafisse come una lama fredda e
piacevole. La stanza di Lea la circondava, così come le sue cose, il suo profumo, la sua essenza, i suoi libri, i suoi occhiali.
Il sole moriva dietro le sottili cortine. Dietro di
lei, la signora Doherty chiuse leggermente la porta,
dopo un cenno d’assenso da parte della ragazza.
Ora
capiva dove fosse ciò che cercava. Si sedette al
centro della stanza, sul pavimento lucido di parquet ,
incrociando le gambe sottili. Chiuse gli occhi e si lasciò annullare. Scomparì
totalmente. Si accorse che era viva solo per le lacrime gelate che le rigavano
il viso. Si alzò e si diresse verso il letto. Un letto a
baldacchino con le cortine del colore preferito di Lea. Un bel verde
smeraldo, vellutato. Lo sfiorò, mentre lo sguardo si annebbiava fino a farla
sentire in un acquario dai vetri appannati. Toccò lievemente anche la copertina
dei libri posti sul comodino, sulla libreria. Arrivò alla scrivania stile
ottocentesco a tentoni, mentre con l’altra mano
stringeva convulsamente gli occhiali neri da lettura di Lea. Incredibile
come quella stanza dicesse tutto di lei. Le pareti
ricoperte dalla carta da parati a motivi floreali, l’aroma di caffè e ciclamini, il computer abbandonato in un
angolo della scrivania.
Si sedette sulla piccola
sedia di legno scuro e fu come riaprire gli occhi dopo un tuffo. Da lì poteva
vedere benissimo la piazza che si estendeva sotto la finestra. La fontana con i pesciolini rossi, il bar dove Lea aveva preso la
sua ultima limonata, la panchina, la macchia di sangue. Cominciò a
piangere, senza nemmeno curarsi dei singhiozzi che le scappavano dalla bocca.
Annullarsi. Dissolversi come povere.
-E’ tutta colpa tua- mormorò. Poi lo ripeté più forte. Con più
rabbia. Con più dolore. Con più dolcezza.
Si
mise a leggere il suo vecchio diario, a sfogliare i suoi
libri. A respirare la sua aria.
Rimase
seduta alla scrivania fino a quando il sole non calò
dietro le colline. E capì che la signora Doherty aveva voluto lasciarla lì sola con la figlia. Dopo di che, con il viso tirato per le lacrime, uscì da quella casa.
Corse fino al suo appartamento e, una volta dentro, tirò fuori il foglio dal
giubbotto.
Caro diario,
13\09\02
oggi ho conosciuto una
ragazzina davvero strana. Porta i capelli rossi in una treccia e ha gli occhi
grandi come quelli di un gufo. Sembra curiosa, ma ha un non so che di inquietante.