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Autore: Deirbhile    22/05/2012    1 recensioni
- Non credo di aver mai conosciuto appieno mia figlia, con tutto il tempo che passava sola nella sua stanza a scrivere. Ma tu sembri un’acuta osservatrice-
Quella frase destò la ragazza dall’angoscioso torpore in cui era caduta. Si asciugò lesta una lacrima e si decise a spezzare il silenzio con voce ferma.
- Non eravamo migliori amiche o qualcosa del genere. Ci limitavamo ad osservarci. Credo che questo significasse molto di più per lei. Diceva che la gente non riusciva mai ad andare oltre la prima impressione. Tornavamo a casa insieme molto spesso. Era una ragazza pacata, mi chiedevo come facesse a controllare così le sue emozioni-
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note di Deirbhile:

Prima di procedere con la storia, vorrei rivolgermi direttamente a voi lettori. Questo è uno dei racconti brevi che ho scritto in questo periodo, ma non so quanti ne pubblicherò su Efp per ora.

So che è molto lungo, quindi ringrazio in anticipo chi riuscirà a finirlo tutto! Un’ultima cosa… Mi piacerebbe ricevere qualche recensione, l’ho pubblicato proprio per ricevere il parere di qualcuno che possa giudicarmi oggettivamente :D

Non mi dilungo più di tanto… Buona lettura!

P.S.: per eventuali errori di stesura, chiedo scusa fin da ora ma non ho avuto il tempo di rileggerlo scrupolosamente!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Erano due giorni che Lea Doherty se n’era andata. Aveva lasciato i suoi occhiali da lettura neri sulla libreria e, come ogni venerdì pomeriggio, aveva varcato la soglia del suo portone di legno lucido ed era uscita nella piazza soleggiata proprio sotto il suo balcone. Aveva preso una limonata, si era seduta sulla panchina di fronte alla fontana, dove l’acqua riluceva al sole del tramonto come oro rosso. Lì i pesci schizzavano come macchie di sangue. Era un tiepido pomeriggio di marzo. Aveva bevuto con calma la sua bevanda fresca e aveva deciso di attraversare la strada per tornare a casa a finire il pezzo che stava scrivendo. Aveva trovato l’ispirazione in quel cielo dai colori aspri. Una macchina era passata velocemente, con un pazzo al volante, e le aveva fatto trovare anche la morte. E’ questo che raccontarono a Gray in paese, questo che si limitò a dirle il padre di Lea al telefono. Lo aveva sentito squillare alle dieci di sera ed era uscita immediatamente dalla doccia. Aveva letto il numero e si era chiesta cosa potesse mai volere. Lea era un tipo molto discreto, Gray sapeva che non avrebbe mai telefonato a quell’ora, conoscendo il rito della sua rilassante doccia serale. Aveva chiuso gli occhi ed era svenuta sul colpo, non appena le era giunta la notizia.

“Che significa che ci ha lasciati?”

Era svenuta e ricordò di essersi ripresa solo qualche ora dopo, quando suo padre era tornato a casa dal lavoro e l’aveva trovata in simili condizioni.

In quei due giorni non aveva fatto altro che stare seduta. Si alzava la mattina, verso le sei e mezzo, si infilava a caso una delle sue felpe colorate, e camminava a piedi per poi sedersi sulla panchina dove lei aveva trascorso gli ultimi istanti della sua vita. Saltava la scuola, lasciava che il bus passasse alle sette e trenta di fronte al suo appartamento senza che nessuno si accorgesse della sua assenza. Lasciava il proprio posto a scaldarsi al sole insieme a quello di Lea. Restava seduta lì, a toccare il metallo della panchina, cercando una traccia di calore. Cercando un suo tocco, un punto in cui lei avesse lasciato le sue dita scorrere nei pomeriggi invernali. Appoggiava il capo allo schienale, immaginando che i suoi capelli vermigli fossero esattamente lì dove lei era solita piegare la testa per guardare il cielo. Il primo giorno dopo la sua morte, era stata seduta lì fino a mezzogiorno. Aveva lasciato il cellulare spento e al suo ritorno a casa, con volto mesto e asciutto, suo padre l’aveva rimproverata bruscamente per essere sparita in quel modo. Ma Gray, in fondo, sapeva che suo padre non aveva davvero intenzione di arrabbiarsi. In qualche modo, le era concesso questo ed altro in quella situazione. In secondo giorno, si era seduta di nuovo sulla panchina, ma si era concentrata sul portone di legno lucido che troneggiava poco lontano. Non aveva ancora avuto il coraggio di andare a vedere la sua salma. Investita da un pazzo ubriaco. Investita. Quella parola continuava a lampeggiarle in testa, seguita da tanti flash abbaglianti. Lea che rideva, Lea che leggeva in un angolo della classe, che mangiava le barrette dietetiche per paura d’ingrassare. E ancora lei e Lea che camminavano verso casa dopo scuola, Lea e i suoi libri, Lea al suo diciassettesimo compleanno, fasciata nel suo abitino bianco. Si alzò, di scatto. Attraversò la strada lentamente, come a sfidare una macchina invisibile ad investire anche lei e a strapparle con i suoi artigli di metallo tutto ciò che aveva.  Poteva giurare di aver visto una macchia di sangue, proprio vicino alla fontana dei pesciolini rossi. Camminò imperterrita, ritta nella sua felpa grigia. Tremava come una foglia e così violentemente che persino il battito del suo cuore si era ridotto al una semplice vibrazione. Il portone era spalancato. Entrò, misurando i passi e trattenendo le lacrime. Non ne aveva versata nemmeno una da quando lei se n’era andata. Vide sua madre, una signora sulla cinquantina, che spazzava il piccolo cortile interno. C’erano altre voci, provenienti dalle scale che portavano all’appartamento. L’orologio di marmo sul frontone della facciata segnava le quattro del pomeriggio. Il sole calava molto più lentamente che a febbraio, ma quel giorno era livido.

 

- Buonasera-

 

La voce di Gray parve ruvida e stropicciata, come una cartaccia appallottolata nella tasca posteriore dei jeans. La donna alzò lo sguardo, puntando gli occhi azzurrini dritti verso i suoi. Posò subito la scopa e le si accostò.  Era vestita totalmente di nero e quello fece pentire immediatamente Gray di aver attraversato la strada.

 

- Ti ho vista seduta sulla panchina ieri mattina e oggi, quando mi sono affacciata all’alba, c’eri ancora. Mi chiedevo quando ti saresti decisa a venire-

 

La ragazza non si ricordava di aver mai parlato con la madre di Lea, se non in occasione di qualche festa. Le era parsa, però, una donna molto intelligente, con uno sguardo acuto e ghiacciato, così diverso da quello caldo e confortevole della figlia.

 

- E’ stato difficile- ammise, infine. Abbassò il capo, rimirandosi del converse macchiate di fango. Lea si meritava molto più di quello. Si meritava molto più di un branco di persone che probabilmente l’avevano vista sì e no un paio di volte da bambina, vestite a lutto a piangere la sua morte prematura. Si meritava una persona migliore di lei, un’amica che fosse in prima fila al suo funerale. Gray sapeva che Lea non avrebbe voluto una dipartita del genere, però. In vita era stata una persona così energica, così controversa che il pensiero della morte, qualora l’aveva sfiorata, le aveva procurato solo una grande risata. Avrebbe voluto qualcosa di più felice, ma avrebbe voluto che lei ci fosse. Gray provò un improvviso moto d’orgoglio nel constatare che per Lea era stata importante. Ma il pensiero della sua bara, di quella chiesa soffocante e dei parenti distrutti, le fece salire un conato di vomito. Non sarebbe andata a darle l’ultimo saluto. “Sei una vigliacca” di disse.

 

- E’ stato difficile per tutti-

La donna ruppe il silenzio e la invitò ad entrare. Gray scosse la testa, sentendosela vuota. Eppure aveva la vaga sensazione che sarebbe esplosa da un momento all’altro.

 

- Ero passata per sapere dove fosse Lea-

 

I suoi occhi lignei, sembrarono incendiarsi a quelle parole, pronunciate con tanta intensità. La madre di Lea si avvicinò ancora di più, tanto che la ragazza dai capelli rossi poté notare le piccole striature rosse che le venavano le iridi.

 

- La bara è in chiesa, il funerale comincerà fra un’ora-

 

Il dolore nella voce di quella donna spaventò Gray più di qualunque altra cosa. Più del sangue sulla strada, più delle lacrime delle sue compagne di classe, più del ricordo insistente di quella maledetta sera. Sentì lo stomaco scendergli giù alle ginocchia e minacciare di liquefarsi, le palpebre abbassarsi, le mani contrarsi. Decise di fermarsi per fare quattro chiacchiere con la donna, per calmare quegli spasmi.

 

- Comunque intendevo dov’è la sua anima- continuò, mentre con lei si avviava verso l’ingresso dell’appartamento.

Doveva essere impazzita, la sua lingua si era mossa senza che il cervello le avesse inviato alcun impulso razionale. La signora Doherty sospirò, prendendola delicatamente per una spalla e strascinandola dentro casa, sorpassando un gruppetto di uomini in nero che discutevano sulla soglia. La condusse in cucina, la fece sedere e le offrì un bicchiere di succo d’arancia. Poi, finalmente, decise di parlare.

 

- Suppongo sia andata in paradiso-

Gray aggrottò le sopracciglia sottili, puntando lo sguardo su una delle fotografie appese al frigorifero. Lea al diploma di suo fratello.

 

- Ma io mi sento come se fosse qui, proprio vicino a me- sussurrò flebilmente. Di colpo, tutta la sua voglia di essere forte si ridusse in un mucchio di sabbia e sentì una lacrima gravarle sulle ciglia.

 

- Ma lei in un certo senso è anche qui- 

Il volto della donna sembrava essersi addolcito a quella constatazione.

 

Gray si accorse di non essersi ancora presentata. Era quasi sicura che la signora Doherty l’avesse riconosciuta per il suo aspetto tutt’altro che casuale. I capelli di quella tonalità potevano appartenere solo alla famiglia Harvey.

 

-Mi scusi, forse non si ricorda nemmeno di me. Mi chiamo Nicole Harv…-

 

- Ma ti fai chiamare Gray, mi ricordo bene di te- la interruppe la signora Doherty.

 

- Ero… sono un’amica di Lea-

 

- Lea mi parlava spesso di te. Ti ammirava molto, sai? Le piacevano i tuoi capelli, il paragonava al fuoco-

Rise sommessamente, con un velo di malinconia.

 

- Già, non mancava mai di dirmelo. Era una persona molto curiosa-

Mentre Gray parlava, osservava il fondo del bicchiere. Era come se Lea la stesse fissando, da quella fotografia appesa al frigorifero.

 

- Non credo di aver mai conosciuto appieno mia figlia, con tutto il tempo che passava sola nella sua stanza a scrivere. Ma tu sembri un’acuta osservatrice-

 

Quella frase destò la ragazza dall’angoscioso torpore in cui era caduta. Si asciugò lesta una lacrima e si decise a spezzare il silenzio con voce ferma.

 

- Non eravamo migliori amiche o qualcosa del genere. Ci limitavamo ad osservarci. Credo che questo significasse molto di più per lei. Diceva che la gente non riusciva mai ad andare oltre la prima impressione. Tornavamo a casa insieme molto spesso. Era una ragazza molto pacata, mi chiedevo come facesse a controllare così le sue emozioni-

 

Fece una pausa. Un po’ per il bisogno d’ossigeno, un po’ perché voleva asciugarsi un’altra lacrima silenziosa senza troppa teatralità. La sua voce era immobile nell’aria. Sembrava che tutti i cuori del mondo avessero smesso di battere e che le lancette si fossero fermate in tutti gli orologi. Le pareti verde mela di quella cucina di colpo sembrarono troppo strette a Grey. Sarebbe voluta uscire e urlare a tutti l’essenza di Lea. La signora Doherty la fissava assorta, come se invece del suo viso serico e bagnato vedesse quelle parole prendere forma. La rossa deglutì e si decise a continuare.

 

- Le piaceva il mondo. Credo non ci fosse persona più adatta di lei a vivere. Osservava, imprimeva nella sua mente tutto ciò che accadeva intorno a lei e lo tramutava in inchiostro su carta. Non c’era persona più predisposta di lei alla vita, con la sua curiosità, la sua fragilità, la sua voglia di emergere. Non credo che tutti riuscissero a capire cosa si celasse dietro i suoi occhi. E’ lì che ho visto qualcosa, la prima volta che ci incontrammo. Ho capito subito che i nostri spiriti erano affini, in un certo senso.-

 

- La conoscevi meglio di qualunque altro amico, vero?-

 

- Sono sicura che lei mi conoscesse molto meglio di quando non facessi io. A volte mi capitava di guardarla mentre leggeva. Aveva lo sguardo perso , eppure così completo!-

 

La donna di fronte a lei sorrise, per la prima volta con un po’ d’affetto. Le riempì un altro bicchiere di succo, nella speranza che rimanesse ancora a farle compagnia. Gray bevve e si preparò a riprendere il discorso.

 

- C’è una cosa che mi ha sempre colpito di sua figlia. Una volta, mentre tornavamo a casa, mi chiese se fingevo. Fingere cosa? Le chiedevo io. Mi spiegò che secondo lei tutti fingevano qualcosa: un sorriso, fingevano d’amare, di essere felici. Rimasi sorpresa per la domanda che mi pose. Ma se tutti fingono e tutti ne sono al corrente, allora perché ci comportiamo come se andasse tutto bene?-

 

La signora Doherty sembrò irrigidirsi a quelle parole e si mosse nervosamente sulla sedia.

 

- C’è qualcosa che non va?- le domandò educatamente Gray. La donna scosse la testa, con labbro tremante. Le lacrime su viso della ragazza dai capelli rossi si erano completamente seccate.

 

- E’ solo che mi rendo conto di sapere davvero poco su mia figlia-

 

- Ho avuto la stessa sensazione per molto tempo, mi creda-

 

Si guardarono per un attimo, consapevoli. Consapevoli che entrambe stavano fingendo qualcosa. L’aria si fece elettrica, improvvisamente. Poi qualcuno bussò alla porta lievemente socchiusa e la signora Doherty si alzò. Apparvero sulla soglia due ragazze, dovevano essere due del club del libro che aveva fondato Lea. Avevano gli occhi arrossati e stringevano fra le mani un libro ciascuna.

 

- Signora Doherty, suo marito vuole che scenda giù. La funzione comincerà a breve- disse una di loro, la ragazza con un vistoso piercing sull’orecchio sinistro.

 

- Di’ ad Andrew che arrivo subito- la liquidò la donna.

 

 

La donna lanciò un ultimo sguardo carico di parole a Gray.  Fece per uscire dalla cucina, e seguire le due amiche di Lea, ma poi rientrò e, con mani tremanti, ripose la caraffa vuota e i bicchieri sporchi nel lavello. Poi, si avvicinò di nuovo alla ragazza dai capelli rossi, e la scrutò in viso. Passò in rassegna i suoi occhi grandi e scuri, che in quel momento esprimevano un distratto disagio, mentre a loro volta fissavano la fotografia di Lea appesa al frigorifero. Doveva andarsene o avrebbe finito per esaurirsi tutta in quella stanza. Spirare come polvere e sparire  nello stesso posto dov’era andata Lea. Trattenne le lacrime, mentre la donna di mezz’età spostò lo sguardo sulla sua piccola cicatrice al lato dell’orecchio sinistro. Infine, sembrò analizzare la sua espressione enigmatica.

-La funzione comincerà fra poco, ma immagino non verrai- sentenziò infine. Il suo tono era pacato, calmo come il suono dell’oceano all’alba. Gray sospirò, combattuta.

- Sono una vigliacca che non sa scendere a patto con i suoi sentimenti, mi dispiace-

Mentre lo diceva, si mordeva le labbra a sangue. Il suo viso si contraeva continuamente nell’attesa di liberarsi di quel groppo acido che le si era formato all’altezza della gola. Gray gliel’avrebbe data vita. Di colpo, si rese conto di quanto fosse ridicola. Lì in piedi, in quella cucina verde mela, davanti alla fotografia di Lea che la fissava.  Si disse che, dopotutto, la signora Doherty era molto simile a sua figlia. Stessi occhi grigi, stessa capacità di scandagliare le anime senza destar sospetto.

-Lea non la pensava così-

Quello fu il colpo di grazia. Le sue labbra si incrinarono di nuovo pericolosamente. Le facevano male. Si era lasciata sfuggire solo qualche lacrima, ma non aveva intenzione di annegare in quel vortice che sembrava voler emergere dai suoi occhi. Il senso di nausea la colse di nuovo, come quella sera. “Lea non la pensava così” si ripeté.

-Mi dispiace-  singhiozzò, stringendo una mano sul bordo del tavolo di legno così forte da rendersi le nocche completamente esangui. Voleva piangere. Voleva andarsene. Sparire, come polvere. Non tornare. Un immensa pena verso se stessa la invase.  La signora Doherty scosse la testa, sorridendo.

- C’è una cosa che dovresti vedere prima di andartene. –

Probabilmente aveva intuito la sua intenzione di scappare quanto più possibile lontano da quell’orologio di marmo che rintoccava ogni minuto. Ogni minuto che passava sentiva le sue mani contrarsi sempre di più e il suo petto sbalzare ad ogni sospiro.

-Ma certo-

La sua voce era debole e vibrava violentemente fra le mura di quel corridoio buio. La signora Doherty la condusse ad una porta, oltre la quale Gray era sicura di trovare la camera di Lea. Qualcosa le diceva che non doveva entrare per nessun motivo al mondo. Qualcosa le diceva che, invece, doveva spalancarla e sospirare nel vedere Lea che tranquillamente leggeva sulla sua poltrona. Ma Lea era morta. L’indecisione sembrò aumentare in un crescendo angoscioso, finché la donna non le poggiò una mano ossuta sulla spalla, spingendola delicatamente in avanti.

-Su, entra-

Gray chiuse gli occhi, poggiando una mano sulla maniglia di fattura antica. Era decorata da ghirigori dorati, il cui motivo si stagliava nitidamente contro l’ebano lucido su cui erano fissati.

Allungò una mano ad accarezzare il legno, mentre ogni organo del suo corpicino minacciava di sciogliersi. Di nuovo la voglia disperata di cadere nel vuoto.

-Non so se  è il caso- tremò, voltandosi verso la donna. La vide alzare leggermente un angolo della bocca, in un mezzo sorriso mesto.

- Ti aspetterò fuori. Hai bisogno di entrare-

Gray si chiese come facesse quella donnina a conoscerla così bene dopo soltanto un’ora di chiacchiere. Pensò che forse era stata Lea a raccontarle quelle sue piccole sfaccettature che la rendevano così criptica. Annuì e scavò a fondo nella sua anima alla ricerca di un po’ di coraggio. Di un po’ di coraggio per aprire quella porta e lasciarsi cadere nel vuoto.  “Ti farai male”, si fece sentire il suo istinto di sopravvivenza. Poi, dopo vari dolorosi tentennamenti, la luce della finestra che dava sulla piazza la trafisse come una lama fredda e piacevole.  La stanza di Lea la circondava, così come le sue cose, il suo profumo, la sua essenza, i suoi libri, i suoi occhiali. Il sole moriva dietro le sottili cortine. Dietro di lei, la signora Doherty chiuse leggermente la porta, dopo un cenno d’assenso da parte della ragazza.

Ora capiva dove fosse ciò che cercava. Si sedette al centro della stanza, sul pavimento lucido di parquet , incrociando le gambe sottili. Chiuse gli occhi e si lasciò annullare. Scomparì totalmente. Si accorse che era viva solo per le lacrime gelate che le rigavano il viso. Si alzò e si diresse verso il letto. Un letto a baldacchino con le cortine del colore preferito di Lea. Un bel verde smeraldo, vellutato. Lo sfiorò, mentre lo sguardo si annebbiava fino a farla sentire in un acquario dai vetri appannati. Toccò lievemente anche la copertina dei libri posti sul comodino, sulla libreria. Arrivò alla scrivania stile ottocentesco a tentoni, mentre con l’altra mano stringeva convulsamente gli occhiali neri da lettura di Lea. Incredibile come quella stanza dicesse tutto di lei. Le pareti ricoperte dalla carta da parati a motivi floreali, l’aroma di caffè e ciclamini,  il computer abbandonato in un angolo della scrivania.

Si sedette sulla piccola sedia di legno scuro e fu come riaprire gli occhi dopo un tuffo. Da lì poteva vedere benissimo la piazza che si estendeva sotto la finestra. La fontana con i pesciolini rossi, il bar dove Lea aveva preso la sua ultima limonata, la panchina, la macchia di sangue. Cominciò a piangere, senza nemmeno curarsi dei singhiozzi che le scappavano dalla bocca. Annullarsi. Dissolversi come povere.

-E’ tutta colpa tua- mormorò. Poi lo ripeté più forte. Con più rabbia. Con più dolore. Con più dolcezza.

Si mise a leggere il suo vecchio diario, a sfogliare i suoi libri. A respirare la sua aria.

Rimase seduta alla scrivania fino a quando il sole non calò dietro le colline. E capì che la signora Doherty aveva voluto lasciarla lì sola con la figlia. Dopo di che, con il viso tirato per le lacrime, uscì da quella casa. Corse fino al suo appartamento e, una volta dentro, tirò fuori il foglio dal giubbotto.

 

Caro diario,                                                                                                                          13\09\02

oggi ho conosciuto una ragazzina davvero strana. Porta i capelli rossi in una treccia e ha gli occhi grandi come quelli di un gufo. Sembra curiosa, ma ha un non so che di inquietante. 

 

 

 

  
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