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Autore: Marguerite Tyreen    24/05/2012    1 recensioni
Sacramento (California), 1984.
Al “Black Jack”, modesto pub di periferia, s'incrociano per una sera i destini di Mickey, cantante rock di second'ordine con troppe ambizioni infrante, e di Margareth, scribacchina malinconica che continua ad annotare storie su un taccuino.
Due birre, quattro chiacchiere e il desiderio di un sentimento che non può avere futuro.
Un incontro fugace e casuale, ma che darà ad entrambi la forza di non arrendersi e di dire, come in una vecchia canzone: eccomi di nuovo qui, a camminare lungo la strada solitaria dei sogni.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonsalve, popolo di EFP!
Avrei tipo 284058219 mila storie da aggiornare e mi perdo a scrivere cose assolutamente scollegate da quello che sto portando avanti. Ok, però dopo mesi che non buttavo giù una riga, non posso essere troppo severa con la Musa per avermi mandato questa creaturina bruttina e spelacchiata. Ma, come si dice, ogni scarrafone è bello a mamma sua, quindi eccola qui.
Non so, potrei dire che è troppo personale per risultare qualcosa di davvero decente e che nulla di quello che sta qui dentro è scelto a caso, a partire dal titolo, dalla canzone, dai nomi dei personaggi. Potrei dire anche che l'ho scritta più per me stessa che per altro, ma mi dispiaceva lasciarla prendere polvere in una cartella di word. Soprattutto perchè se riuscisse a trasmettervi un'emozione o farvi trascorrere un momento piacevole, per me sarebbe una cosa meravigliosa **
Sono consapevole che non ci sia niente di realistico, in questa storia, ma prendetela per quella che dovrebbe essere: una metafora ^^'
Grazie mille a tutti, anche solo per essere passati di qui, e un bacione!
Marguerite.

P.S.  Dovrebbe essere una one-shot, anche se lunghetta, ma divido in due capitoli per comodità (vostra e mia) ^^
 

Credits: Le canzoni citate nel testo non sono roba mia, purtroppo! xD I was made for lovin' you e Here I go again appartengono rispettivamente ai Kiss e ai Whitesnake.

 

 

Ad A.
Per una cosa splendida che mi ha detto,
per essere la mia nuova, inconsapevole, fonte di ispirazione.
Perché i sogni contano sempre, indipendentemente dal loro esito.

A S.
per l'aiuto e il sostegno e per quello che sappiamo noi.
E per molte altre cose.
E perché le dovevo un personaggio “cazzuto” come quello di Jenny.

 

 

Tho' I keep searching for an answer
I never seem to find what I'm looking for
Oh Lord, I pray you give me strength to carry on
'cos I know what it means to walk along the lonely street of dreams.

(Whitesnake, Here I go again)



 

 

Here I Go Again
 


 

I.

 

Sacramento (California), maggio 1984
 

-Un altro pub pidocchioso, Mickey?- chiese Al, carezzando distrattamente la custodia del basso, quando il cantante parcheggiò il furgoncino davanti all'entrata posteriore del Black Jack.
-Sei mai riuscito a procurarci ingaggi migliori? Dovresti baciarti i gomiti che ci pensa Mickey, altrimenti saremmo tutti a spasso. - Jenny chiuse la portiera con un sospiro lieve che, per un istante, contrastò con la sua figura decisa. Liberò i capelli bruni dall'elastico, scrollando la testa.
-Grazie, bambola. Fortuna che ci sei tu!
-Beh, ti ringrazio per la considerazione, Mickey. - il chitarrista, una sorta di lungo serpente boa in letargo con gli occhiali da sole tondi e la chioma fluente scarmigliata, fino ad un attimo prima era rimasto acciambellato sul sedile posteriore. Ora si era degnato di scendere, ma solo per guardare con aria pigra Al che scaricava gli strumenti.
-Bell'aiuto che dai sempre! Hai dormito per tutto il viaggio, Frank.
-Ho riposato, Jenny. Riposato. Devo esserlo, prima di un'esibizione. Altrimenti poi faccio cilecca.
-Come con le donne. - scherzò Mickey.
-Coglione! Poi non dire che non te li cerchi, questi epiteti.
L'interno del Black Jack era deserto, eccezion fatta per il gestore che sgomberava dai tavoli i resti della serata precedente.
-Fuori dalle palle: è chiuso.
Aveva la voce di chi aveva ingoiato un rospo.
-Alla faccia dell'accoglienza, signori! Ad averlo saputo, lasciavamo gli strumenti sul furgone e giravamo i tacchi.
Al si mise a sedere su uno degli sgabelli.
-Ma lascia perdere, Al! Senta, siamo i Wild Boys.
-I … chi? - il tizio sbatté il canovaccio a scacchi sul bancone e guardò storto Mickey.
-I Wild Boys, quelli che devono suonare stasera.
-Ah, siete voi.
-Sì, abbiamo trovato l'ingaggio tramite...
-Va bene, va bene, non mi interessa... basta che ci sia qualcuno a strimpellare e a tener sveglia la gente sennò qui è un cimitero. Questo non è certo Woodstock e voi siete più o meno quello che posso permettermi abitualmente: cioè degli amatori. Quindi, poche pippe e lavorare!
Mickey si scacciò una ciocca di capelli biondi dagli occhi: -Guardi che siamo professionisti. Lo facciamo di mestiere. Chieda in giro di noi, in quanti locali abbiamo suonato: San Francisco, Buffalo, Dallas... - gli porse la mano – Mi chiamo Michael Bonnett. E loro sono Jennifer Hutton, alla tastiera, Albert Douglas, al basso, e il nostro chitarrista Frank Custer.
Frank intercalò le parole dell'amico con uno sbadiglio discreto.
-Ok, ok, bello. La paga vi sta bene, sì? Perché se tutta questa lagna è per un aumento sappi che non sborso un centesimo di più. Quello è il palco, quelle sono le casse e le luci. Vedete di sistemarvi come meglio credete. Di arrangiarvi e di non rompere le scatole a me.

 

***


-E questo lui lo chiama palco? Queste sono quattro assi inchiodate. - sbuffò Al.
Con un altoparlante tra le braccia, vagava senza sapere bene dove piazzare le attrezzature.
-Stai sempre a lamentarti, Al! Dovresti prendere esempio da Frank e vederla in modo più ottimista: per lui le quattro assi sarebbero perfette per schiacciarci un pisolino.
Il chitarrista, ancora appollaiato sullo sgabello, li guardava con un sopracciglio alzato, senza sprecare energie per intromettersi nella conversazione.
-Tu taci, donna!- Al cercò di rimanere serio, ma non riuscì a trattenere un sorriso – E passami quel cavo elettrico.
-Al, non trattare male la bambina, eh!
Mickey si era tolto la giacca di pelle nera per armeggiare con la scenografia e darle una parvenza di dignità.
-Ehi, Mickey... te la sei vista quella? - Frank gli tirò una gomitata di nascosto.
Il locale si stava affollando. Per lo più erano lavoratori venuti a farsi incartare un panino in fretta o gente di passaggio, in sosta per il pranzo, che sarebbe presto ripartita chissà per dove.
Mickey guardò nella direzione indicatagli dall'amico. Al bancone sedeva una ragazza appariscente, con le forme inguainate in una salopette di jeans e i capelli lasciati sciolti e selvaggi in una cascata di ricci bruni lungo la schiena. Nel tavolino poco distante, invece, un'altra dall'aria più dimessa si portava alternativamente alle labbra l'orlo di una tazza di caffè e la biro con cui annotava parole su un taccuino.
-Quale?
-Quella, la bambola al bancone.
-Anche l'altra non è male. - tornò a districare il filo del microfono.
-Beh, insomma... Senti, Mickey, e se ci provo? La invito qui per stasera.
-E a me lo chiedi? Sei grande e vaccinato, non hai mica bisogno della balia, no? Ma levami una curiosità, ti svegli solo quando ci sono delle donne in cir... Frank?
Si appoggiò al muro con le spalle: voleva proprio godersela, la scena dell'amico che era partito in quarta e con fare dinoccolato si era avvicinato alla bellezza in salopette.
Frank si era piazzato gli occhiali da sole sulla testa e, appoggiato al bancone con un gomito, certamente doveva essersene uscito con una di quelle sue solite freddure che lasciavano indifferenti, se non imbarazzati, gli interlocutori e facevano scoppiare a ridere solo lui, scoprendo una dentatura equina.
Ma aveva avuto ben poco tempo per ridere, giusto quello che era servito all'armadio calvo e tatuato di uscire dal bagno e frapporsi tra lui e la ragazza.
-Mary, che vuole questo tizio? Ehi, amico, è la mia fidanzata, questa.
-La sua... ehm... la sua fidanzata? Eh, certo, l'immaginavo. Buona giornata, signori. Mi sono improvvisamente ricordato di avere... beh, una cosa importante da fare. Arrivederci, eh!
I due erano poi spariti a bordo di una Harley, un attimo prima che Frank tornasse alla sua chitarra.
-Adesso mi spieghi che diavolo hai da ridere, Mickey.
-Avresti dovuto vedere la tua faccia, Frankie, quando quel tipo... - cercò di respirare, scrollando la chioma bionda – Oh mio Dio! È stato troppo divertente. Era una spanna più alto di te.
-E quaranta chili più di me. Per la miseria, Mickey, avrei voluto vedere te.
-A me non capitano queste cose, semplicemente perché non vado ad insidiare fidanzate altrui.
Vedi, se tu fossi andato a sederti gentilmente al tavolo di quella signorina, ordinando un caffè e mettendoti a chiacchierare con molta educazione, stasera avresti potuto trovare un'ammiratrice in più ad applaudirti.
-Perché non ci vai tu, allora? Visto che sembri così bravo.
-Perché non mi gira. Lo sai che da quando mi ha piantato Hanna, non...
-Ti farà le ragnatele, ragazzo mio.
-Cazzo, Frank, sei sempre un signore!
-Oh, senti: è vero!
-Il fatto che non mi sia legato a nessun'altra, non vuol dire che gli faccio fare le ragnatele. Quanto a te, se invece di perdere tempo con le ragazze dei centauri andassi ad aiutare Jenny, sono convinto che le faresti anche piacere.
-Dici?
-Sono tre anni che ti sbava dietro, per favore! Cavolo! Adesso te l'ho detto e trai le tue conclusioni, così lei smetterà di piangere che tu non la fili e tu smetterai di fare fiasco con le altre.
-E tu?
-E io vado a fare compagnia alla signorina.
-Quale signorina?
-Quella del caffè.
Lei, la signorina al tavolino non li aveva degnati di un'occhiata. Continuava a scrivere in silenzio, adesso più velocemente di prima, con aria assorta.
Mickey ordinò una tazza di caffè, prima di scostare la sedia.
-Scusa, posso?
Lei annuì, senza dir nulla, limitandosi a trarre verso di sé la propria consumazione e la propria agenda.
-Fa un caldo maledetto.
-Come? - gli chiese, distrattamente. Non sembrava avere davvero voglia di cominciare una conversazione.
-Dicevo, fa un gran caldo, oggi. Sempre così, da queste parti?
-Sì, direi di sì. Non sei di qua?
-No, sono di San Francisco.
-Beh, poca differenza ci passa da San Francisco a Sacramento. Almeno credo. Non l'ho mai vista, San Francisco.
Mickey si strinse nelle spalle: -Non è un granché. Non se ci sei nato, almeno.
-Si finisce sempre per essere più critici per la città dove si nasce. Certo che qui è un mortorio, soprattutto a quest'ora.
-Non mi sembrava.
-E' una periferia, alla fine. Non ci si può aspettare molto.
Lui prese una sorsata di caffè: -Lavori qui?
-Sì, nello stabile qui dietro.
-E cosa fai? Se posso chiederlo.
-C'è una ditta di import-export. Tengo la contabilità. Una noia, credimi.
-Ah, ti avrei detta una maestra.
La ragazza si sistemò gli occhiali sul naso, una montatura spessa color tartaruga, appena troppo grande per il suo viso. Notò che aveva occhi altrettanto grandi, di un comune castano, contornati da un trucco leggero. E capelli dello stesso castano ordinario, lisci, tagliati corti in un carré senza fronzoli, che lasciava scoperto il collo. O, meglio, quella parte di collo che non era costretta nel colletto della camicia a sottili righe verdi.
-Una maestra? - posò lo sguardo sui propri appunti – No, no. Non sono compiti degli studenti. - rise, discretamente, un po' timida.
-Conteggi, allora?
-Nemmeno. - chiuse il taccuino, riponendolo nella borsa.
-Scusa, non volevo essere invadente.
-Non fa nulla. E tu? Voglio dire, sei qui per affari, per vacanza, per...
-Per lavoro, sì. Io sono... beh, puoi ridere, ma faccio il cantante in una band.
Alzò un sopracciglio e prese ad osservarlo con attenzione, dagli occhi azzurri e acuti alla massa bionda di capelli portati lunghi e mossi fino alle spalle, alla t-shirt nera in cui avrebbe voluto sprofondare, per quello sguardo onesto e indagatore che si era improvvisamente trovato addosso.
Sembrava dovesse fargli un ritratto.
-Qualcosa non va?
-Oh no, no, niente. Stavo cercando di trovare i segni dell'artista.
-I “segni dell'artista”?
-Sì, qualcosa che mi facesse capire che sei un artista, no?
-Non credevo esistessero segni esteriori.
Lei si era soffermata sulle sue mani, strette attorno alla tazza, adesso.
-A volte sì. Sai, quando passi tanto tempo qui, a questo tavolino, ad osservare la gente e a raccontare delle persone, spesso ti accorgi di conoscerle un po', anche se non le hai mai viste prima.
-Capisco. - mentì.
-Che genere fate? Io non mi intendo di musica, purtroppo. Quello che so, l'ho imparato stando qua dentro.
-Hard rock, principalmente.
-Le canzoni sono vostre?
-Qualcosa sì. Poi il nostro paroliere ci ha lasciato.
-Peccato.
-Era la mia fidanzata. Ha lasciato me e ha lasciato il gruppo. E adesso ci ritroviamo a fare cover, più che altro. È per questo che non saremo mai famosi. Ma nemmeno con Hanna lo saremmo stati, temo. Comunque, eccoli là, i gloriosi musicisti dei Wild Boys. A proposito, - le tese la mano – Michael Bonnett. Mickey.
-Margareth Wilboury. Marg.
-Margareth come la Margareth di This sporting life.
Lei rise di nuovo.
-Il film di Anderson, l'avrai visto, no?
-Sì sì. È che di solito dicono: Margareth come la Thatcher.
-No, no, ci mancherebbe!
-Ti piace il cinema, allora.
-Scherzi! È una vita che mi piace il cinema. Non come la musica, magari, ma diciamo che me ne intendo.
-Oh, bene. Anch'io. Però a me piace il cinema europeo. Sai, Bergman, le cose francesi, Carnè, Delvaux, quelli lì.
-Perché escludi che a me piaccia Bergman?
-Bah, non so. Come si riesce a far convivere Bergman con l'hard rock?
-Si fa convivere molto di peggio. - le sorrise.
-Su questo hai ragione. - si alzò, lasciando gli spiccioli sul tavolo – Adesso devo proprio andare.
-Proprio quando si cominciava a parlare di Bergman? Peccato.
Margareth si lasciò guardare, mentre si sistemava la cinghia della borsetta.
-Già, peccato.
Mickey si sporse sulla sedia: -Ti accompagno.
-Come?
-Ti accompagno al lavoro. - la raggiunse.
-Ma io non sto andando al lavoro.
-Ti accompagno comunque.
-Ma qui? Dovrai... non so... provare, suppongo.
-Le canzoni le so a memoria! - si gettò la giacca sulla spalla – Se la caveranno senza di me, sono in gamba, loro.

 

***
 

-E allora, cos'altro ti piace?
Il pomeriggio era caldo, forse in modo eccessivo per risultare gradevole. Senza contare che l'asfalto della strada si perdeva verso l'orizzonte in una nuvola di umidità dai bordi tremanti. Lei aveva le gambe troppo lunghe e il passo troppo veloce per starle dietro senza un lieve affanno. Ma era graziosa, nei gesti timidi eppure franchi con cui gli si rivolgeva.
-Voglio dire, non solo il cinema di Bergman, immagino.
-La pittura. Ma non dipingo.
-Eppoi?
-La scrittura, soprattutto.
-Ma non scrivi.
-Al contrario. Scrivo. È che... beh, nemmeno io sono famosa. Non ho mai pubblicato niente. Sai, sempre le solite scuse degli editori: c'è più gente che scrive di quello che riescono effettivamente a vendere. Un modo carino per dire che non vali nulla. E allora finisci per restartene qui, a sognare Parigi, mentre tieni la contabilità per una ditta qualsiasi.
-Così sei un'artista anche tu.
-Oh, artista è una parola grossa. Non sprecarla per me. - Margareth si tormentò le mani.
-Figurati! Se scrivi sei un'artista. Punto. Alcuni hanno successo, altri no. Ma se sei un'artista dentro di te, nessuno può permettersi di farti credere il contrario. E tu avrai successo, te lo auguro.
-Speriamo. Sembri uno convinto.
-No, al contrario. Mi sono parecchio rassegnato. Sai, a trent'anni passati, finisci per sentire la differenza tra quelle che erano le tue ambizioni e quello che fai per guadagnarti il pane.
-Decisamente. Io lo sento anche se i trenta non li ho nemmeno sfiorati. È parecchio dura. Voglio dire, riuscire a trovare le energie per fare entrambe le cose: per lavorare e per inseguire le ambizioni artistiche. Infatti, mi sa che la seconda cosa l'ho parecchio trascurata.
-Scrivere a un tavolino di un pub non è trascurare. Ciò non toglie che sia davvero difficile, sì.

So cosa significa camminare solo lungo la strada solitaria dei sogni”, tanto per citare i...
Margareth lo guardò, scrollando la testa e scoppiando a ridere.
-Oh, ma sei davvero un disastro! I Whitesnake! Here I go again, l'hai mai sentita?
-Macché...
-Sei una causa persa, ragazza.
-Lo so.
-Vieni al Black Jack, stasera. La canterò per te.
-Ma figurati. - arrossì di colpo – Io di sera non esco quasi mai.
-Fai un'eccezione. Non capita tutti i giorni di avere la fortuna di veder esibirsi i Wild Boys.
-L'immagino.
-Allora dai, che ti costa? A meno che tu non abbia già un altro impegno...
-No, non ho altri impegni. E ho detto una bugia: al Black Jack ci vado tutte le sere a scrivere.
-Perché? Ti ispira?
-Sì. C'è sempre un gran via vai di gente interessante. È tutta una vita che faccio la spettatrice. E che aspetto qualcuno che non arriverà.
-Un uomo? Beh, scusa, devo essere stato parecchio indiscreto.
-Un uomo, sì. E pur accorgendomi che è un illusione, continuo ad aspettarlo. Forse, perché amo più le idee che le persone. Forse perché l'illusione mi fa meno paura della realtà. Devo sembrarti tutta matta.
-No, mi sembri a posto. Ti capisco benissimo. Ma non hai l'impressione di star gettando via del tempo?
-Per quello che ho da fare... in cos'altro potrei impiegarlo, dopotutto? La mia vita è talmente noiosa. Non è difficile, a quel punto, diventare scrittori e perdersi nell'esistenza degli altri. Ma non intristiamoci! A che ora suonate?
-Alle otto.
-Bene. Io sono arrivata. Alle otto, Mickey Bonnett. Sei sicuro di saper trovare la strada?
-Al massimo mi perdo.
-Ottima filosofia. A stasera!
Sparì dietro un portone.
A stasera, Margareth.

 

[Continua]

   
 
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