E' di nuovo primavera
Non
la
riconoscevo più, non era lei. Dov’era finita
l’allegra e spensierata bambina con
cui trascorrevo i pomeriggi della mia infanzia? Perché ora
sul suo volto
scorgevo solo due profonde, perenni cupe occhiaie e un sorriso spento?
Si stava
consumando, la sua luminosa fiamma si stava lentamente spegnendo e la
cera
sciogliendo. Ma nessuno lo notava o non ci dava importanza. Io
però non potevo
tollerare di vedere la mia migliore amica, la mia anima gemella, morire
in
questo modo. Vederla circondata da tutta quella spazzatura distruggeva
anche
me. Tutti vedevano solo la sua fama, il suo viso su ogni rivista, ma
nessuno
aveva il coraggio di indagare più profondamente su chi
realmente lei fosse,
l’importante erano tutti i soldi che faceva guadagnare
all’industria musicale.
Io però vivevo fianco a fianco con lei da tutta la vita, il
nostro legame era
più forte di quello tra due sorelle gemelle, e mi bastava
una rapida occhiata
per vedere che stava morendo. Oltrepassava il limite ogni giorno, non
rendendosi conto di giocare a nascondino con la morte, e che prima o
poi la
morte l’avrebbe trovata e se la sarebbe portata via. E tutto
questo per colpa
della sua fama, del suo sogno che era divenuto realtà. Fin
da piccina aveva
desiderato diventare qualcuno, essere la più grande rock
star del pianeta,
urlare a pieni polmoni le sue canzoni nel microfono. E non appena
ciò si era
concretizzato davanti ai suoi occhi, togliendole il respiro per la
sorpresa e
l’emozione, aveva iniziato a volare troppo in alto,
credendosi in cima al
mondo, ribellandosi alla vita stessa, imboccando il tunnel di sex,
drugs and
rock ‘n’ roll che ogni star che si rispetti prima o
poi prende. Ogni sera
varcava il portone di casa sbronza fino al midollo, con gli occhi
straboccanti
di cocaina, avvinghiata a bei moretti come piacevano a lei. Non
passavamo più
sane serate insieme, io e lei, lei ed io, sul sofà sfondato
a guardare un film
strappalacrime con una tazza fumante di cioccolata in mano,
raccontandoci le
nostre sventure amorose o gli ultimi gossip letti. Non reggevo
più la
situazione, non potevo vederla sbriciolarsi davanti ai miei occhi e non
fare
nulla. Ricordo perfettamente quella sera, come si trattasse di un
istante fa.
Appoggiata alla finestra, fumando una sigaretta, la guardavo, distesa
sul
nostro letto disfatto. Dormiva, un sonno superficiale che ormai
raramente si
concedeva. Era arrotolata su se stessa, come una larva umana. Una
nuvola grigia
oscurò il cielo per un momento. Fu come se la morte passasse
sopra le nostre
teste. Fu questione di un attimo, ma proprio in quell’attimo
decisi che dovevo
riprendermi la mia migliore amica e portarla in salvo. Con un gesto
violento
gettai il mozzicone fuori dalla finestra e con altrettanta veemenza
inizia a raccattare
da ogni angolo della stanza qualsiasi oggetto collegato a tutti i suoi
tipi di
dipendenza. Misi a soqquadro la stanza, rovesciando qualunque oggetto
mi
capitasse tra le mani. E intanto piangevo. Piangevo per la rabbia, per
il
dolore, per lo sconforto, per il senso di sconfitta e impotenza verso
tutto lo
schifo che mi trovavo davanti. Perché aveva dovuto rovinarsi
in quel modo?
Quando si guardava allo specchio non vedeva che si stava trasformando
in un
putrido mostro alimentato solo dalla cattiveria del mondo e della
droga? Perché
non apriva gli occhi, perché non riusciva a vedere?
Perché sembravo essere
l’unica ad accorgersi di tutto ciò? O forse anche
lei forse si rendeva conto
dell’odore di morte che emanava, ma non le importava, stava
bene nella suo buco
pieno di ratti e sporcizia. E questo mi faceva ancora più
rabbia. Scagliai una
abatjour contro il muro, frantumandola. Lei si svegliò di
soprassalto,
mettendosi a sedere sul letto. Si guardava intorno smarrita, poi
spostava lo
sguardo interrogativa su di me. Mi gettai a peso morto sul letto,
affianco a
lei. Appoggiai la testa sul suo ventre, ascoltando il suo respiro
leggero.
Piangevo sempre più forte, mi mancava l’aria, le
lacrime spuntavano dai miei
occhi come la pioggia scroscia dalle nubi autunnali. Presi le sue esili
mani
tra le mie. “Perché, perché,
perché, perché!” strillai. Lei si
spaventò, ma intuì
a cosa mi riferivo. Fece un lungo sospiro. Mi accarezzò il
volto e i capelli. “Basta,
smettila con questo schifo, cambia vita. Torna chi eri
prima.” “Lo farò, te lo
prometto.” “No! Devi farlo ora, adesso, in questo
esatto momento. Devi dire
addio a tutto questo, e devi farlo ora.” Sospirò
ancora. Alzai lo sguardo,
incrociai il suo. Socchiuse le palpebre, si passò i
polpastrelli sulle tempie
come abitualmente faceva quando rifletteva, rimase in silenzio per
alcuni
minuti. “Va bene, la smetto. Buttiamo tutto. Voglio
rincominciare tutto da
capo. Sono stanca di stare male. Ma so che potrò farcela
solo se tu sarai qui,
accanto a me.” I miei occhi si illuminarono, mi
aprì nel sorriso più sincero.
Ci abbracciammo. Fu l’abbraccio più lungo della
nostra intera amicizia. Un
abbraccio serrato, nulla avrebbe potuto separarci in quel momento. La
coccolai,
accarezzai la sua testolina piena di ricci indomabili. Sentivo il suo
cuore
premere forte contro il mio petto, battendo all’unisono con
il mio. Stava
piangendo anche lei, percepivo le sue lacrime calde bagnarmi le spalle.
Buttammo tutto, era tempo di voltare pagina, di rincominciare a vivere.
Iniziò
così un lungo periodo di disintossicazione. Non la rinchiusi
in una clinica,
sapevo sarebbe soffocata in quei posti tetri. Mi presi cura di lei io
personalmente, come le avevo promesso. Ascoltavo ogni suo isterico
pianto ed
ogni sua preghiera. “Non sopporto più questo
lacerante dolore, sento ogni
muscolo urlare aiuto. Ti prego, dammi qualcosa per stare meglio, per
favore…”
Non le detti neanche un piccolo antidolorifico, doveva soffrire e
imparare dai
suoi errori per riuscire a stare bene in seguito. Non lo feci con
cattiveria,
ogni gesto che compivo era per il suo bene. Ad ogni calda lacrima le
regalavo
un sorriso altrettanto caldo e sincero. La sentivo piangere
silenziosamente nel
cuore della notte. La abbracciavo stringendo forte il suo petto
singhiozzante
tra le mie braccia. “No shhh, non piangere, non ce
n’è bisogno, dobbiamo
combattere, essere forti”. La accompagnavo fuori in lunghe
passeggiate. Era
primavera e la natura cominciava a rinascere, proprio come lei. I
peschi e i
ciliegi erano i nostri alberi preferiti. Sfiorava i petali dei loro
neonati
fiori e sussurrava, incantata “Senti che profumo,
è dolcissimo… Ti somiglia”.
Le piaceva anche stare in mezzo ai prati, sdraiarsi sull’erba
soffice, chiudere
gli occhi e lasciarsi coccolare dal vento leggero, oppure guardare
l’azzurro
intenso del cielo e studiare il continuo movimento delle nuvole che lo
sporcavano. “Guarda quel prato laggiù,
è verdissimo! Andiamo a rotolarci?”, mi
prendeva per mano e mi trascinava di peso. Ci divertivamo come bambine
all’asilo, ridevano fino alle lacrime. Si
rinnamorò anche della pioggia. Passò
un’intera giornata alla finestra, a tracciare sul vetro il
percorso delle
gocce, completamente rapita dallo scrosciare dell’acqua. Il
suo sorriso, la sua
ingenuità, la sua infantile riscoperta di ciò che
la circondava mi rendevano
felice e mi emozionavano tanto da dover nascondere le piccole lacrime
che mi
spuntavano negli angoli degli occhi mentre la osservavo. “Mi
basta vedere
un’ape ronzare e sono felice. Mi mancava tutto questo, questa
gioia pura e
spontanea che le piccole cose, i piccoli gesti mi danno. Non riesco a
capire
come ho potuto cercarla nella droga, non mi ha mai dato neanche un
briciolo di
quello che sto provando ora, vivendo davvero. La fama, il successo, i
soldi mi
hanno trasformato in una persona senza la giusta cognizione delle cose
e avevo
visto nella droga l’unica salvezza. Non voglio più
ricadere il quel maledetto
tunnel nero, è bello poter rivedere la luce.” mi
confidò una sera, davanti a
una tazza di tè bollente. Nell’udirle mi
scoppiò il cuore di gioia. “Non ci
tornerai, promesso” le sorrisi, accarezzandole il dorso della
mano. “No, mai
più, perché finalmente ho capito il valore del
mondo, della vita, dell’amore,
splendidi doni della natura che con la droga non possono essere
assaggiati fino
in fondo”. Sì, era finalmente di nuovo la ragazza
che conoscevo, che mi aveva
accompagnata fin dall’infanzia e che avevo sempre amato come
una sorella. Quell’esperienza
ci unì ancora di più, ci rese una persona unica,
un cuore solo in due corpi
diversi.
Un mese dopo quella fatidica sera tornò nello studio di
registrazione e in sole
due notti compose un album che portava il mio nome interamente dedicato
a
quella folle esperienza. La prima volta che lo ascoltai piansi: era un
capolavoro. Ed era la prova che avevamo sconfitto il male, avevamo
vinto.
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Con
questo testo ho partecipato a un concorso di cui la traccia era:
"La
sfida. coraggio,
limite,
avventura, passione, ostacolo, sogno, ribellione: a volte la vera sfida
è solo
contro se stessi"
Spero
possa interessa a qualcuno ^_^