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Autore: Il_Bardo    27/05/2012    0 recensioni
Già Napoleone sapeva di lui.
Un ragazzo, Maximilien, ancora estremamente giovane, vacillante in sè.
I suoi ideali di un mondo perfetto, sono l'unica cosa ferma nella sua anima, che abbraccia due ali d'angelo, forgiate dal firmamento per distendere il velo della sua Utopia su tutto il mondo. la Mano degli Angeli; dissipi ogni Discordia!
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo fluiva lento nella sua clissidra,
ed ogni granello di più, la linea divisoria che separava l'umanità in due parti, si faceva sempre più solcata ed evidente.
Persone buone e persone malvagie, uguali nel corpo, diversi nell'animo.
Non era il caso forse, che gli angeli avessero iniziato a farsi vedere più spesso, volteggiando nel cielo, tenendosi per sé il perchè dei loro voli, le tre pagine che scrisse Napoleone avevano impresse già la storia che il tempo stava percorrendo, retto e preciso.
Non era nemmeno più raro che d'un tratto, ovunque si accusassero casi di aberrazioni che seminavano scompiglio fra le campagne o in cittadelle isolate.
Mi stavo rendendo conto che questa lenta ma rapida divisione, era iniziata da poco prima della mia nascita, sedici anni fa,
Chi diceva di aver visto volare schiere di angeli, o masnade di sgorbi aggirarsi fra i vicoli, veniva considerato folle, dalla razionalità umana radicata in ogni mente, ora, quella razionalità si stava estirpando, radice dopo radice, man mano che questi eventi si andavano a verificarsi sempre più spesso.
Sarei stato io a recidere l'ultima radice,
quando quello stesso giorno uscii da scuola, verso la fermata del bus.

Camminavo a passi lenti, giù per la collina, voltandomi solo una volta, dopo aver udito fruscii fra le frasche. Non notavo nulla, ma capii quando arrivai a pie della collina, che era semplicemente quel cane grigio e goffo che mi aveva diligentemente atteso.
Chi si guardava attorno, intimorito da una probabile presenza degli mostriciattoli scuri dalle lunghe corna ricurve che popolavano il mondo da anni, solo ora emersi dalle viscere della terra, chi portava con sé coltellini, chi amuleti portafortuna, tutti tempestati e ricoperti  d'argento.
Bastava solo che la sorte ti voltasse le spalle per ritrovare il tuo omicidio sui giornali nazionali.
Io non avevo nulla con me, né argento, né oro o qualsiasi altra cosa potesse proteggermi da essi, intanto il meticcio era al mio fianco, completamente tranquillo senza timore di nulla in mia compagnia.

Venne preso e in pochi istanti scaraventato qualche metro più avanti sulla strada.
Un esserino della sua stessa stazza, nero come la pece, solo le corna opache e biancastre indicavano dove fosse il volto, lo prese e rotolò assieme al cane fra le sue grinfie.
Ne arrivarono altri scendendo giù dal dirupo affiancato al marciapiede, tutti della medesima forma e con lo stesso ghigno.
Intravidi macchie di sangue raffermo sui denti marci di quei mostri, a cui si unì il sangue fresco della bestiola.
Avevano, non appena arrivati a lui, iniziato a lacerare le sue membra con gli artigli a loro disposizione, utilizzando a volte anche le corna per provocargli ancora più dolore. il sangue zampillava fuori, quei demoni vi si dissetavano, e il cane a cui non avevo nemmeno dato un nome rimaneva fermo e moribondo sul ciglio.
Nessuno voleva collaborare, molti erano fuggiti fra le urla che facevano da sottofondo ai ghigni di quelle creature, a parte me, nessun'altro voleva intervenire.
Preso dall'ira, presi un ciottolo a disposizione ai bordi del marciapiede, caricai il braccio e lo lanciai verso di loro prima che fosse troppo tardi. Non sapevo neanche cosa avrei fatto dopo, quando avessi avuto la loro attenzione.
Alzarono il viso gocciolante di sangue, la bocca era una voragine rossa contornata da denti lunghi e sottili. Mi sorrisero, io ignorai quel sorriso e mi buttai verso di loro a pugno chiuso, per la prima volta nella mia vita senza timore sulle conseguenze delle mie azioni.
Buttai il pugno, sperai ne bastasse uno perchè morissero, ma mi illudevo.

Quei mostri vennero sventrati da parte a parte. Lacerati da una lama talmente perfetta da tagliare l'aria stessa.
Era ricurva, aveva mozzato i loro bracci schiazzati di rosso e reciso il loro collo.
Le costole erano bene in vista, in entrambe le parti di quegli obrobri oramai fatti a pezzi.
Questa volta, era il loro sangue nero e sporco a macchiare la terra, che sembrava rigettare disgustata.
Era una lama ricurva di una falce, del bianco colore d'alabastro,  incastonata su un bastone color ebano e raffinato fino a sembrare un bastone interamente composto d'ossa che si ammassavano fra loro in una figura affusolata. Sulla cima un teschio, un teschio posizionato fra la base della lama e la cima del bastone d'ebano, forgiato solamente nell'argento.
Solo le orbite di quel teschio erano nere, il resto di quell'arma non lasciava trasparire alcun alone di morte. alcun timore, alcuna paura, solamente per i veri orrori di cui recideva il collo.
Non era minimamente macchiata di quel liquido scuro, sporco, che lasciava pensare a sangue, nonostante li avesse trapassati.

Il sangue rosso del cane formava una macchia che si espandeva in quello sfondo nero.
Anche in quel momento, ero arrivato tardi, proprio quando avevo le capacità di fare qualcosa. Solo la rabbia fluiva dentro di me, ero certo che era morto, troppo presto perchè io potessi salvarlo.
Cercai di reprimere il dolore, troppo lacerante per essere contenuto facilmente, distolsi lo sguardo su quella carneficina.
Ero io stesso, ad aver impugnato quell'arma e ad averli eliminati..
Ma non apparte a me la volontà di far volteggiare leggiadra l'arma, a mezz'aria, integra della sua eleganza, toccò con la punta della lama il corpo del cane, prelevandone una sola goccia di quel sangue dal colore limpido che ribolliva.
Quella stessa goccia cadde sulla roccia, imprimendovi come un martello di un fabbro una runa, un simbolo che stava ad indicare che la vita di quella creatura, non era ancora finita.
Presi la falce, sorreggendola sulla spalla destra e analizzai il risultato di quel rituale:
La pietra era rossa, un solo simbolo raffigurante un cerchio con una linea arricciata all'interno, proveniente da un lato della circonferenza.
Traspariva il pulsare del cuore di quell'animale morto, la sua stessa vita incantata nella pietra stessa.

Mi voltai vedendo un imponente alone alle mie spalle, i fasci di luce come  enormi spilli trasparivano dalla mia figura, illuminando tutto.
Appariva come se il sole stesso fosse proprio dietro le mie spalle, illuminando la mia umana figura.
La luce ricopriva tutto, non vedevo più nulla attorno, solo l'ombra del mio corpo proiettata davanti a me.
Si espanse ai lati, due vaste ali si aprirono simili ad un sipario dalle mie spalle, la loro ombra si unì alla mia, dal nulla.
Si estesero lentamente, baluardo della mia causa.

Mi alzai in aria, battendo imponentemente le ali, la luce stava svanendo, il premio era stato assegnato.
Vidi il centro storico della città, dirigendomi lì con la falce impugnata e pronta al "raccolto".
La pietra emanava riflessi argentei, impaziente di liberare la vita in essa racchiusa.

I colpi fendevano l'aria, rapidamente mi portavano alla destinazione; il sangue mi ribolliva nelle vene, altre volte raggelava per l'impazienza e il freddo dell'alta quota.
La vegetazione scorreva sotto i miei piedi, sostituendosi man mano da case e palazzi.

In pochi minuti raggiunsi i palazzi storici, sorvolai la piazza fermandomi sulla punta di uno dei tanti edifici che vi si affacciava.
Nessuno mi aveva ancora visto, una marea di genti girovagava nella piazza, attratte dai baldacchini di frutta e verdure.
Formiche, inutili formiche avide e corrotte. nemmeno degne di essere chiamate formiche.

Gettai la pietra dall'alto, toccò terra avvolgendosi da una fitta caligine dai riflessi d'indaco.
il fumo si plasmò nella forma dello stesso cane morto poco prima, dalla stessa stazza di un orso, possedeva uno sguardo ottenebrato da poter reggere il confronto con quello umano.
I denti erano lunghi, affilati e reclamavano altro sangue.
Si gettò a capofitto sulla folla, distruggendo i tavoli con la merce esposta, le merci caddero a terra mescolandosi con i piedi della folla in preda al panico, urlando come forsennati.
Chi correva via dalla piazza, chi si nascondeva, chi semplicemente rimaneva inerme ad urlare disperato, la baraonda suonava melodica alle mie orecchie.
Volevo far sì che toccassero con mano la disperazione che potevano provocare alle altre creature, in tutta la loro vita.
Mi gettai da quel tetto, l'aria mi afferrò e mi spostai con le ali, rapido mi calai e con la falce, distruggendo qualsiasi cosa incontrasse il filo della lama.
se una persona capitava nel raggio dell'arma, si accasciava sputando sangue o con qualche osso spezzato, addormentandosi. Chiunque fosse colpito, veniva assalito dal sonno, piombando nell'incubo in cui si trovavano faccia a faccia con la loro coscienza macchiata.
i piccioni si alzavano il volo, intimoriti dalla bolgia, lì raggiunsi sfiorandoli con il teschio.
Il bianco delle loro piume si sostituì al nero delle piume di enormi corvi, con occhi rossi e imponenti artigli che lasciavano presagire qualcosa di sbagliato, si gettarono sulla folla, portando ancora più chaos per le vie della città.
L'oramai angelo dalla bianca falce, iniziò la sua opera di di "purificazione" dello stesso mondo che voleva proteggere dall'avida mano dell'uomo, priva di ritegni.
Recitò delle frasi che sembravano una poesia, fece scorrere più volte a destra e a manca la mano sinistra, scrivendo nell'etere l'incantamento che voleva lanciare. Un lungo filare di parole e simboli arcani comparì come una cupola sull'intera città, espandendosi sempre più.
Gli occhi impotenti di chi nascosto stava osservando le sue gesta, o di chi era appena arrivato, incredulo dalle voci e dalla notizia velocemente giunta ovunque in decine di minuti.
Le nuvole si squarciarono, intimorite dalla troppa luce, per far sopraggiungere la luce ovunque nei paraggi. Quei raggi di luce che si tramutarono in meteore bianche ed incandescenti toccarono il suolo, non ferirono nessuno ma addormentarono tutti e tutto ciò che toccarono senza vita crollò, come un castello di carte.
Musei, negozi, palazzi residenziali.
Tutto si distrusse, in una foschia di polvere, parevano tagliati da una falce, ad ogni meteora schiantata al suolo.
Guardai soddisfatto l'opera che avevo compiuto, ripresi la runa del mio cane e me la infilai in tasca.
Volai via dal quadro che avevo dipinto, mentre qualche incendio divampava qua e la.
Nessun morto, nemmeno la più piccola formica, tutti sprofondati in un sonno arcano,
tutti di fronte a sé stessi e alla loro coscienza che di poco brillava, sporca.
Arrivato lontano dal centro città le mie ali si disfarono per mio stesso volere in un cumulo di piume.
Della falce rimase solo il teschio.

..Forse La XXI Mano degli Angeli arrivò presto, desiderosa di luce, scomparsa da troppo tempo da ogni anima..
..Nonostante lo sbaglio, gli errori possono essere risanati..
-Capitolo 1, seconda parte,
La Mano degli Angeli, di Napoleone Bonaparte-
  
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