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Autore: crazyfred    30/05/2012    6 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 29
When you crash in the clouds






Capitolo 29 

Lay & Love







soundtrack

Si era riusciti a calmarla alla fine, rassicurandola che quello sfregio non sarebbe rimasto sul suo volto a lungo, che avremmo cercato il miglior chirurgo plastico del mondo se fosse stato necessario. Per ora, però, altro non si poteva fare che coprire con una benda e sperare che non ci cadesse l’occhio sopra; solo così, per il momento, si poteva evitare di rinnovarle il dolore che aveva dentro, anche se con scarsi risultati.
La cosa che però mi rendeva felice, anche in quel momento in cui non avrei dovuto esserlo, era sapere che lei mi voleva al suo fianco e quasi non mi permetteva di lasciarla sola. E non sarei stato certo io a fare il guastafeste della situazione. Ero lì con lei anche quando la polizia andò ad interrogarla, il giorno seguente, quando i medici avevano scongiurato ogni complicazione cerebrale e autorizzato l’incontro con le forze dell’ordine. Presto sarebbe anche tornata a casa … ma una cosa per volta.
“Allora signorina” iniziò il sergente Craig, affacciato alla finestra della stanza che finalmente si era resa disponibile per Allie “io lo so che per lei non è difficile, ma la prego di fare uno sforzo e cercare di aiutarci il più possibile. Le prometto che faremo il massimo per dargli quello che si meritano”

Non sembrava il genere di poliziotto insensibile e tutto d’un pezzo, anzi sembrava essere davvero preoccupato per Allison e il suo modo di fare aveva infuso grande sicurezza in tutti noi. Sapevamo che non sarebbe stato facile ritrovare quei bastardi, neanche se Allison avesse fatto nomi e cognomi, soprattutto quando c’è di mezzo un giro di affari loschi e malavita organizzata come quella. Non avevo mai ben capito cosa ci fosse sotto, mafia russa o cinese, boss sudamericani, o altro: non ne avevamo mai parlato apertamente con Allison né io ero stato lì a fare domande; lei diceva sempre “il boss qui, il boss là”, ma non sapevo con esattezza se fosse il capo dei capi o un piccolo frammento del quadro più esteso. Era una parte delicata della sua vita che non me l’ero mai sentita di riportare a galla.
“Forza Allison” la incitò ancora l’uomo “raccontami come sono andate le cose”
Vidi Allison prendere un respiro profondo, mentre io me ne stavo ad un angolo della stanza, in piedi e a braccia conserte, quasi trattenendo il respiro, come se avessi paura di rompere quell’ecosistema delicato e precario che si era venuto a creare. “Ero … ero andata nel Queens” cominciò lei, apparentemente tranquilla; io sapevo benissimo che non lo era per niente, lo vedevo da come stava martoriando quelle povere lenzuola. Dunque era stata davvero nel Queens, non aveva fatto nulla di avventato come in un primo momento avevo temuto.

“Dovevo vedere alcune case in affitto, e ho passato lì tutto il pomeriggio”
“C’è qualcuno che può confermarlo?” domandò lui, mentre un suo giovane collega, non il gorilla, che era invece rimasto di guardia fuori, prendeva appunti su un piccolo block notes, ansioso di non perdere nulla. Aveva tutta l’aria di essere un damerino alle prime armi e di essere al primo caso davvero importante della sua vita, ed aveva addosso tutta l’eccitazione e l’agitazione di non sfigurare davanti al capo che gli aveva fatto la grazia di averlo portato con se.

“Naturalmente” rispose lei “l’agente immobiliare che mi ha accompagnata”
“Hai fatto o ricevuto qualche telefonata?” “Mi ha chiamata la signora Diane Hirsch, la madre di Tyler … e poi beh, io e lui” disse Allie indicandomi “ci siamo scambiati parecchi messaggi durante il pomeriggio, l’ultimo prima di andare a prendere la metropolitana”
“Perfetto” commentò il poliziotto. Ricordavo bene quel semplice messaggio, l’avevo letto e riletto per non so quanto tempo, aspettandone un altro che non arrivava mai, che non sarebbe mai arrivato. “Hai notato qualcosa di strano nel pomeriggio?” continuò l’uomo. “Strano?” domandò lei. “Sì … che so … una macchina che ti seguiva, qualcuno che ti fissava insistentemente o che ti ha avvicinato facendoti strane domande, qualsiasi cosa … anche una spallata innocente potrebbe essere sospetta”
Ma lei scosse il capo vigorosamente. “È stato un pomeriggio assolutamente normale, niente di strano che io possa ricordare … mi dispiace”

Era assurdo che lei si sentisse in fallo, colpevole di non riuscire a ricordare nulla di particolarmente interessante per un investigatore. Ma lui capì il suo stato d’animo e le si avvicino, carezzandole lievemente la testa, come forse solo un genitore sa fare. “Non ti preoccupare Allison, va bene così … andiamo avanti. A che ora sei scesa a prendere la metropolitana?”
“Sette e un quarto, sette e venti … non ricordo di preciso” disse, ma si vedeva che si stava agitando, perché la voce aveva preso a tremare e correva mangiandosi le parole “dovrebbe esserci…dovrei avere il …il biglietto nella mia borsa, nel … nel portafogli se vuole l’orario preciso”  
Con un cenno, il sergente indicò al suo attendente l’armadietto, dove aveva ci aveva visti riporre la borsa, e il ragazzo … non poteva avere che un paio d’anni più di me, corse impacciato ad eseguire l’ordine. Ma era talmente goffo che in una sola mossa aveva scombinato tutto l’ordine certosino che la mamma di Allison aveva fatto. “Aspetta … lascia stare” intervenni, cercando di tamponare quel disastro che aveva fatto. “Ecco!” dissi, passandogli la borsa.
Immaginavo che non potesse servire più a cercare impronte, visto che era passata in mano a non so più quante persone, e immaginavo che il sergente lo sapesse anche meglio di me. Intanto prese il biglietto della metro. Probabilmente sperava di risalire a qualche telecamera a circuito chiuso tramite l’orario.

“Poi sono salita sul vagone per tornare a casa” ricominciò Ally senza che nessuno l’avesse interpellata. Sembrava lei un vagone in corsa. “era pieno zeppo, c’erano solo posti in piedi e così mi aggrappai ad un corrimano e stetti ad aspettare che si liberasse qualche posto. Facemmo un paio di fermate … forse tre e poi iniziò un tratto lungo, senza fermate. Fu lì che mi venne puntata una pistola alla schiena…”
A sentire quelle parole non ressi più. Mi ero avvicinato al letto e avevo preso dal comodino una bottiglietta, per porgere ad Allison un bicchiere d’acqua. Aveva la gola completamente secca e la lingua incordata dalla salivazione azzerata, si percepiva dallo sforzo enorme che faceva per scandire ogni parola. Ma il bicchiere d’acqua finì a terra, rompendosi, e la bottiglia, rovesciatasi, riversò tutta l’acqua sul pavimento. “Scusatemi … scusatemi” fui solo capace di dire mentre, ormai agitato ed in profondo imbarazzo, mi davo da fare per asciugare il pavimento, consumando tutto il rotolo di carta per le mani che era in bagno. Il sergente mi fece aiutare anche dal giovane agente Cody Rogers, nome che scorsi dal distintivo. Nel frattempo, il suo capo non si fermò e cominciò anche a prendere gli appunti per l’interrogatorio.
“Gli hai visti in faccia?” chiese. “No…mi hanno minacciata dicendomi che se solo avessi provato a girarmi avrebbero sparato a me e a qualche passeggero a caso sul treno. Non potevo rischiare…”
“Mmm …” mugugnò lui “nessuno si è accorto di nulla quindi” “No..non credo, non penso. C’era molta gente, non ci si poteva muovere, figuriamoci guardarsi intorno…no, era impossibile”
“Poi cosa successe?” “Alla fermata successiva mi dissero di scendere e di non voltarmi o provare a scappare perché mi avrebbero gambizzata se solo ci avessi provato…e quella è gente con cui non si scherza. Se promettono una cosa la fanno. Comunque non avevo idea di dove fossimo, non me lo ricordo…non ho avuto il tempo di guardarmi intorno. Ma non era una fermata molto frequentata, con noi non scese nessuno. Risalendo in superficie all’uscita della metro mi condussero fino ad un vicolo cieco, senza illuminazione. Lì mi bendarono e legarono e mi fecero salire di peso sul retro di un furgone e partimmo”
“Eri da sola lì nel retro?” “Immagino di sì…non vedevo nulla, l’unica cosa che ricordo è il rumore di una pistola o di un fucile … non lo so … che veniva caricato”

“E le voci? Te le ricordi le voci?” “Beh sì …” “Cosa mi sai dire? Qualunque cosa può aiutarmi ed aiutarti Allison”
“Ma non le basta signore?” intervenni, stufo di vedere Allison che si stava letteralmente ammazzando per ricordare ogni singolo dettaglio, che stava provando il terrore di quella sera di nuovo sulla sua pelle. Lui non la conosceva, ma ogni movimento del suo corpo, ogni tensione di muscolo ed ogni incrinatura della sua pelle mi faceva stare sul chi va là.
“Sto bene Ty” mi tranquillizzò Allison. Lei si preoccupava per me, ma non si curava di sé stessa, non lo faceva mai. Il sergente dal canto suo rimase in silenzio, comprendendo la mia posizione ed aspettando che fosse Allison a decidere cosa fare. “No, non stai bene” insistetti “il medico dice che devi riposarti”

“E lo farò” promise, prendendomi per mano, quando mi riavvicinai a lei una volta terminato il mio lavoro di pulizie “ma è meglio che io finisca questa cosa al più presto possibile e che io dica al sergente Craig tutto quello che so e che ricordo ora … domani potrei aver perso già molti dettagli”.
Da quel punto di vista poteva anche avere ragione, ma non volevo che impazzisse andando dietro a dei ricordi tanto dolorosi. Ma sembrava non importarle o non avere timore. Da dove le veniva tutta quella forza e quella sicurezza?
“Se non ce la fai a sentirmi, puoi anche uscire … lo capisco” “No, io sto qui con te, non ti lascio” dissi, fermamente, baciandole la mano. Così la lasciai continuare.

“Le voci erano tre, tutte maschili. Le due che mi avevano braccata sulla metro e l’altra probabilmente era dell’autista del furgone. Lui era americano, o comunque parlava inglese senza particolari accenti, gli altri due avevano l’accento spagnolo”
“Messicani?” “Forse … o di qualsiasi paese del centro o sud America dove si parla spagnolo”
“Le avevi mai sentite prima?” “Quella dei due uomini no … l’autista sì. Era uno dei buttafuori del locale, John, non so il suo cognome” “Sapresti farne un identikit?” “Naturalmente…”  John lo ricordavo anche io: come dimenticare l’uomo che mi aveva spaccato la faccia. L’altro invece … tutt’a un tratto ebbi come un’illuminazione. Bastò che Allison pronunciasse la parola buttafuori per ricordarmi dove avevo già visto quell’uomo che da due giorni gironzolava intorno al reparto, fissandomi insistentemente ogni volta che gli rivolgevo lo sguardo. Uno spilungone con la testa piccola, Dean, il buttafuori che per poco non ridusse me ed Aidan in poltiglia la prima volta che entrammo nel Don Hill e lo stesso che mi lanciò fuori dal locale quando provai a picchiare un vecchio porco.

Nel frattempo, mentre Allison e i poliziotti continuavano a parlare di come, quando e perché l’avessero condotta nel vecchio motel dove abitava, dove ad aspettarla c’era Mr Don Hill in persona, che tutti chiamavano così, ma era chiaro che non fosse il suo vero nome; lei pensava fosse russo o qualcosa del genere, perché il suo accento lo tradiva. Lei era la prima volta che lo incontrava, avevano sempre “trattato” per intermediari, tuttavia non ebbe modo di vederlo in faccia perché l’avevano lasciata bendata. Non sentii più nulla del suo racconto, né di lei di cosa si sono detti, né e soprattutto di quando hanno alzato le mani su di lei. Avevo resettato completamente il mio cervello, concentrandomi su quell’uomo che, evidentemente ci avevano messo a farci da guardia, senza nemmeno curarsi troppo di rimanere nell’ombra: o erano scemi, o erano incredibilmente sicuri di loro stessi. Non sapevo come dirlo al sergente, soprattutto nei riguardi di Allison che non doveva preoccuparsi troppo.
Speravo che il gorilla lì fuori se ne fosse già accorto e che presto ci avrebbe dato lui stesso la notizia e lo avrebbe fermato. Certo, sarebbe stato interessante uno scontro tra titani, visti i soggetti, ma preferivo che ad avere la meglio fosse il gigante buono, ovviamente.
“Chiedo … chiedo scusa” interruppi la conversazione tra Allie e il sgt. Craig “Allie io scendo al bar, ho bisogno di un caffè … vuoi qualcosa?”
“No, grazie Ty, va pure” rispose lei, dolcemente, come se avesse capito che il mio era solo un pretesto; non che ci volesse un genio per capire che stavo accampando una scusa qualsiasi per uscire da quella stanza, dove l’aria era diventata decisamente irrespirabile. Tra Allie che indugiava nei particolari del massacro e gli sbirri che la spalleggiavano, mi sentivo imprigionato in qualcosa che non mi apparteneva. Avevo fatto l’eroe troppo a lungo, ed Allison non mi aveva mai chiesto tanto: me lo diceva sempre, ma non le davo mai ascolto. Era arrivata l’ora del time-out, di staccare la spina e prendersi almeno cinque minuti per tornare ad essere un ventiduenne irresponsabile ed ingenuo, che nulla sa della malavita se non quelle poche notizie che sente al notiziario la sera.
“Lei sergente?” domandai, garbato, prima di lasciare la stanza “prende qualcosa?”
“No grazie ragazzo … noi siamo apposto” rispose, anche a nome del collega a lui sottoposto.
Presi ad aspirare fumo dalla sigaretta, seduto ad una panchina all’ingresso dell’ospedale, il bicchiere di caffè al mio fianco. Ma né la nicotina, né la caffeina mi davano più soddisfazione, non placavano più i miei malumori come una volta. Anzi, mi ritrovai senza pensarci troppo a gettare a terra una sigaretta consumata per metà, disgustato da quella esalazione fatta ormai più per vizio che per piacere oggettivo. Non ricordavo più né quando né perché avessi iniziato, ma ora sentivo che era arrivato il momento di provare a darci un taglio, e non solo perché individui in divisa bianca mi avevano guardato in cagnesco per aver osato fumare una sigaretta alle porte di un nosocomio.

Provai a fare il punto della situazione, sorseggiando il mio caffè e osservando l’andirivieni di gente che mi passava davanti: donne gravide o neomamme, ragazzini ingessati o anziani in sieda a rotelle, ragazze bellissime ma con foulard che tentano invano di coprire un male che va ben oltre qualche ciocca di capelli in meno. Cosa ero io confronto? Ed eccolo di nuovo, quel senso opprimente di impotenza, riaffacciarsi sfrontato e bastardo, a comprimermi il cuore, a levarmi il fiato. Mi accasciai quasi sulla panca, letteralmente ripiegato su me stesso, le mani giunte, balbettando una preghiera qualsiasi, retaggio di una infanzia passata con una nonna pia che mi aveva insegnato a recitare le sue devozioni a memoria. Ma la mente era stata svuotata di tutto, come un computer in sovraccarico che viene formattato. Si poteva finire così? No, non di certo. Tutto l’amore che avevo dato e ricevuto non era stato vano, era ancora lì, racchiuso in un cuore che non ha smesso di battere neanche per un secondo, forse un po’ stordito dopo le continue percosse. Illividito forse, ma non ferito a morte.

Mi rialzai dopo aver schiarito le idee, pronto a riaffrontare di nuovo la trama della vita che il destino aveva tramato per me; avrei voluto la vita noiosa e stupida di molti miei coetanei, ma se quello era il prezzo da pagare per poter amare – ed essere amati – dalla donna che avevo al mio fianco … beh allora avrei alzato le mani e avrei dichiarato la mia resa.
Fermo davanti alle porte degli ascensori, erano già cinque minuti che attendevo il mio turno … sarei arrivato già a destinazione se avessi preso le scale, ma ero troppo pigro perché sei piani di scale potessero attirare la mia attenzione. Decisi di prendere comunque l’ascensore alla fine, nonostante andasse ai piani sottostanti … l’importante era riuscire a salirci. Infatti, quando tornammo a pian terreno, eravamo di nuovo strapieni, che solo un paio di persone riuscirono a salire. Fu lì che lo vidi, l’uomo/vedetta, che da quando eravamo in quell’ospedale non aveva fatto altro che osservarci, come il peggiore degli avvoltoi; lui però, a dispetto di un’altezza ragguardevole, non mi vide tra la folla, compresso com’ero nel vano dell’ascensore. Tentai di sfruttare la sua distrazione a mio favore e, una volta arrivato al livello del reparto dove era ricoverata Allison mi decisi ad aspettarlo e ad affrontarlo. Non avrei dovuto fare l’eroe, non era gente dalle buone maniere quella … non c’avevano messo niente a rovinare la faccia di Allison, non sarei stato certo io ad impressionare un bestione come quello.
Ma volevo togliermi la soddisfazione di guardarlo dritto negli occhi e sputargli in faccia tutto il mio schifo, e poi avrebbe potuto fare di me quello che voleva.
Avevo recitato per tanto tempo la parte dell’eroe buono, quando in realtà non ero da paragonare nemmeno al Robin di Batman, ero sempre il primo nella lista dei conigli. Ma quella era una cosa da cui non potevo esimermi.
Mi sedetti nella sala d’attesa di fronte all’ingresso del reparto, dove i parenti senza permessi speciali aspettavano l’inizio dell’orario visite; lui avrebbe dovuto fermarsi lì, non l’avevo mai visto aggirarsi nel reparto oltre quel paio d’ore giornaliere regolamentari. Pochi minuti dopo, infatti, eccolo spuntare con il suo passo pacato ma impavido, come di chi sa il fatto suo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto passare inosservato dall’alto dei suoi due metri di altezza. Indossava un paio di jeans e una tshirt slavata, un gilet che immaginai essere un giubbetto antiproiettile e un auricolare all’orecchio destro. No, decisamente era sua intenzione far notare la sua presenza: come monito, come a dire “noi siamo qui … ci siamo sempre … guai a voi”
Si sedette di fronte a me, un paio di posti più a destra, fingendosi intento alla lettura di un giornale: ma quegli occhi erano troppo vispi e troppo attenti ad altro per seguire il filo di un articolo.

Presi un respiro profondo. “Puoi farcela Tyler … devi farlo per lei” mi incoraggiai quando, da codardo qual ero, mi balenò in testa che forse sarebbe stato più corretto far intervenire la polizia anziché immischiarmi in faccende così pericolose.
Mi portai a sedere proprio di fronte a lui ed attirai la sua attenzione chiedendo gli l’ora esatta. Notai che il mio approccio lo mise a disagio e la cosa mi stupì: se era stato tanto spavaldo da farsi notare, perché aveva timore di me?
“Ha qualche parente ricoverato in chirurgia?” gli domandai a testa alta e accomodandomi meglio sul seggiolino di plastica, mostrando una finta sicurezza. In realtà me la stavo facendo addosso come mai prima di allora. “L’ho notata nei giorni scorsi …” continuai, ma lui accennò un mezzo sorriso e annuì, scocciato dalla mia ingerenza. Chiunque avrebbe potuto pensare che la causa del suo malumore fosse il mio fare scortese ed inopportuno, soprattutto perché generalmente la malattia ed il dolore non sono un buon argomento di conversazione. Ma sapevamo entrambi che non era così.
“Scusi…devo fare una telefonata” bofonchiò, alzandosi e andando verso un’uscita secondaria del pianerottolo, che conduceva agli ascensori di servizio.
“Ehi! Ehi!” lo chiamai, venendo rimproverato da un paio di vecchiette. Provai a corrergli dietro ma barella con un malato di ritorno dalla sala operatoria mi ostruì la strada e raggiunsi l’ascensore solo quando le porte si furono richiuse davanti a me. Sbattei i pugni contro le porte un paio di volte dalla rabbia ma per fortuna nessuno se ne accorse. Presi così a scendere le scale all’impazzata, quasi rischiando di rotolare giù a valanga per aver saltato un paio di gradini, sperando di vederlo almeno uscire dall’ascensore. La sorte mi fu vicina almeno in quell’occasione, perché del personale di servizio aveva bisogno dell’ascensore per trasportare un carico di medicinali dalla farmacia fino all’ultimo piano, quindi fu costretto a scendere. Fu lì che lo persi, saltandogli letteralmente addosso. Non ero pesante, ma l’effetto sorpresa mi permise di atterrargli comodamente alle spalle e buttarlo a terra. Avevo qualche secondo prima che la sua reazione mi mettesse k.o., ma forse penso che l’ospedale non fosse il posto migliore per massacrarmi di botte, soprattutto quando ci sono delle guardie pronte a metterti dietro le sbarre qualche piano più in alto, e così si limitò a rimetterci entrambi in piedi e a condurmi verso un cortile interno della struttura, dove il personale si lasciava andare nei momenti di pausa.
“Guarda che non ti faccio niente … ma tu non devi fare certe cazzate!” mi disse l’uomo “ringrazia che non c’era nessuno in giro … come ti è saltato in mente di aggredirmi in quel modo!!!” Effettivamente la mia era stata la genialata del secolo, mi capitava spesso di farne: avevo rischiato io di finirci dietro le sbarre anziché mandarci lui.

“Non ci siamo presentati” esordì lui “io sono Dean Johnson”
“Piacere” risposi alla sua stretta di mano “ io so-” E lì mi fermai. Se era nel medesimo giro in cui Allison era fino a qualche mese prima, e se era il primo nella lista degli scagnozzi del suo aguzzino, non c’era da fidarsi manco per niente.
Poteva avermi mentito sul suo nome, oppure poteva essere stato sincero sulle credenziali ma rimanere uno stronzo voltagabbana pronto a fare amicizia con me e a sputtanarmi con chi di dovere un secondo dopo, al solo scopo di finire il lavoro che avevano iniziato con Allie. Per cui serrai per bene la bocca.
“Io so chi sei” sputai, incazzato ma sicuro che non mi avrebbe potuto fare niente davanti ad altra gente. Anche se sembrava proprio quella la sua intenzione.  “Tu lavori al don Hill … come posso fidarmi di te?”
“Perché non dovresti?” domandò lui, tranquillo, come se avesse la coscienza pulita.
“Come posso fidarmi di uno che viene da quello schifo di posto … chi me lo dice che questa non è un giochetto per farmi parlare?”
Ai suoi occhi dovevo sembrare un ragazzetto che giocava a fare il poliziotto e che aveva visto troppi episodi di Criminal Minds. Dovevo farlo ridere, ero lo scemo del villaggio al suo confronto, ma rimaneva impassibile ed imperturbabile.
“Solo tu puoi decidere se fidarti o meno di me” rispose lui, calmo “ma a mio parere di conviene. Io non sono qui per farti del male, te l’ho già detto. E ho bisogno che mi aiuti …”
Io?! Ma per chi mi avevano preso … per una crocerossina? Per madre Teresa, forse? Io non riuscivo a cavarmela da me per allacciarmi un paio di scarpe e a saltava sempre fuori che ero indispensabile a tutti.
“Cosa vuoi da me?” domandai.
“Ti ho visto vicino a quella ragazza che è ricoverata in chirurgia, quella che è stata picchiata … e ti ho visto parlare con la polizia. Ho bisogno che mi aiuti a raggiungere un accordo con la polizia?” “Che genere di accordo?” “Io parlo … ma devo uscirne pulito”
“Ma tu sei pazzo!!! Ma per chi mi hai preso? Posso darti il numero di un buon avvocato, anche del principe del foro newyorkese se vuoi, ma se vuoi andare dalla polizia a costituirti devi farlo per assumerti ogni responsabilità e pagare il tuo debito con la giustizia, non per ricevere una condanna a saldo. Non è così che funziona”
“Ma io ho le mie buone ragioni…”
“Anche quella povera ragazza aveva le sue buone ragioni per vivere in santa pace” gli urlai contro, sprezzante “ma tu lo sai che cosa hanno fatto i tuoi amici alla mia ragazza?” Venni colto da una risata isterica e non mi accorsi di aver parlato troppo. “Certo che lo sai …” ripresi “altrimenti non staresti qui a farci da guardia”

“E così sei il ragazzo di Allison?!” domandò “e brava la piccolina!!!”
“Tu … tu conosci il suo nome vero?” chiesi, interdetto, distogliendo la mia attenzione dalla sfuriata. “Sì … conosco i nomi di tutti lì dentro. Ero il responsabile della sicurezza, non un semplice buttafuori. Mi occupavo di documenti, identità, sviare i controlli della polizia … era tutto sotto il mio controllo”
“Era?” domandai. Lui annuì. “Me ne sono andato l’altro giorno, dopo quel capolavoro che hanno fatto ad Allison …” affermò, distogliendo lo sguardo da me e puntando altrove, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole “… ne avevo fatte tante di cose scorrette e illegali, non ero certo fiero di me stesso … ma quando l’unica cura per tuo figlio costa centomila dollari e l’assicurazione non copre certe spese faresti di tutto … di tutto”
La fame, la disperazione, eccole di nuovo. Le avevo viste negli occhi di Allison quando l’avevo conosciuta, le percepivo di nuovo nella voce di quell’uomo tanto grande e grosso quanto fragile.
“Ma quello che mi avevano chiesto di fare ad Allison non potevo tollerarlo … è solo una bambina. Così me ne sono andato … ora vorrei solo rifarmi un’altra vita. L’ideale sarebbe cambiare città … ma mio figlio non può interrompere le sue terapie quotidiane. Così ogni giorno sarà una battaglia per sopravvivere … letteralmente”
Non lo interruppi perché sentivo che il suo era solo uno sfogo di cui aveva bisogno per se stesso, piuttosto che la voglia di parlare davvero con me della sua tragica storia. Avrei voluto recriminare sulla ragione che gli aveva impedito di far del male ad Allison; diverse ragazze prima di lei avevano subito quel trattamento, ma prima di allora non aveva aperto bocca o protestato. Perché? Mi risolsi a tenermi quel dubbio per me, la mente umana è troppo contorta.
“Mi dica perché è qui a fare il cane da guardia allora … se non lavora più per quegli uomini?” la mia suonò più come una preghiera disperata che come una domanda.
“Mio figlio viene tutti i giorni in ospedale … un giorno è l’oncologia, l’altro è la dialisi, un altro ancora la pediatria … la mia presenza in ospedale passa davvero inosservata ai più. Ma tu mi conosci ragazzo, sai dove lavoravo …”
“… come potrei dimenticarlo … il tuo collega mi ha spaccato la faccia e tu mi hai fatto fare un volo di due metri in lungo prima di Natale”
“Davvero?!” domandò, cercando di trattenere una risata nervosa “scusa … ma non me lo ricordo” Eh, chissà a quanti l’avrete riservato quell’accoglienza … io non ci trovo nulla da ridere!!!
“E quindi …” incalzai, ritornando all’argomento di conversazione principale.
“Sono stato io a chiamare la polizia e l’ambulanza …” disse, tutto d’un fiato “ mi ero lavato le mani di quel lavoro, non mi ero mai sporcato con il sangue di quelle ragazze … lo avevano sempre fatto altri al posto mio … ma non potevo parlare o protestare,  quei bastardi mi tenevano per le palle con la storia delle cure per mio figlio”
Eccone un altro, un’altra vittima della macchina del terrore. Ora che lo conoscevo meglio non faceva più paura, anche lui era un gigante buono. Non sembrava più nemmeno tanto grande ora.
“Dissi loro che mi sarei occupato io di lei, avrei dovuto lasciarla a morire di stenti secondo loro sotto qualche ponte o in qualche vicolo dove nessuno passa mai … ma come ho sempre fatto con le altre ragazze ho chiamato i soccorsi”
“Dean … grazie” dissi, sinceramente, posando una mano sulla sua spalla, approfittando del fatto che si era seduto su un gradino dell’edificio. “Se c’è qualcosa che posso fare per te … qualsiasi” Lui l’aveva salvata, questo mi rendeva debitore a vita. Lui scosse la testa, sorridendo sommessamente: “Tu l’hai salvata, nessuna di quelle ragazze per cui ho chiamato l’ambulanza aveva un ragazzo che passasse la notte con loro in ospedale o che smuovesse cielo e terra per farle avere la miglior assistenza possibile. L’ho visto sai …”
In parte quell’uomo aveva ragione, se io non ci fossi stato, lei avrebbe continuato a fare la vita di prima, o sarebbe caduta ancor più in profondità nel baratro.
“Comunque io mi chiamo Tyler Hawkins” dissi alla fine, tendendogli io la mano questa volta, decidendo di fidarmi. “Sarai tu però Dean a farmi un favore” dissi “devi andare alla polizia, devi fare nomi, cognomi, tutto quello che sai glielo devi dire … non possono passarla liscia”
Lui strinse la mia mano, e sorrise: eravamo d’accordo. Dal canto mio gli avrei convinto Les ad occuparsene, le sue parcelle onerose gli concedevano di tanto in tanto di fare gratuito patrocinio.
Rientrando in reparto, accompagnato da Dean il redento, vidi gli agenti lasciare finalmente la stanza di Allison. Li salutai, garbatamente, lasciandomeli alle spalle in fretta tornare da Allie. Alle mie spalle sentii Dean parlare con gli agenti e, girandomi per un istante, vidi che se ne stavano andando insieme, serenamente.
Entrando in stanza notai Allie finalmente in piedi, appoggiata alla finestra, che guardava fuori. Bussai, per avvisarla del mio ritorno.
Quando si girò per vedere chi fosse, la sua bocca si spalancò in un sorriso non appena mi riconobbe, assolto da ogni pena e da ogni colpa, libero da ogni paura. Le andai vicino e l’avvolsi tra le mie braccia … non che ci volesse molto piccola com’era e le posai un bacio sulla fronte. Me ne accorsi dopo un po’ che anche io stavo sorridendo, scioccamente. Mormorai: “Ora possiamo tornare a casa”. Lei non rispose, ma la sua mano era arpionata alla mia maglia; tanto mi bastava a capire che andava tutto bene.














NOTE FINALI


Non ho molto da dire, se non che mi dispiace per l'immenso ritardo. Non mi rocordo nemmeno quando è stata l'ultima volta che ho pubblicato... mi duole dirlo, ma ho avuto il cosiddetto blocco dell scrittore e non riuscivo a venirne a capo. Non so infatti quanto sia gradevole questo capitolo. Certo scioglie molti nodi...
Vi lascio un'anticipazione, che più che altro risponde ad una domanda che alcune di voi mi hanno fatto. A questo capitolo ne farà seguito un altro, massimo due, e poi l'epilogo (che poi sarà in realtà un prologo). Ma non sarà una chiusura definitiva; come molte di voi sanno, e come vi ho fatto capire usando la parola prologo qui sopra, sono intenzionata a dare un seguito alla storia, cambiando completamente toni e registro. Se posso darvi un'altra anticipazione...quasi non li riconoscere più questi due.

Prometto che risponderò appena posso alle recensioni

à bientot

Federica


   
 
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