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Autore: lady vampira    01/06/2012    0 recensioni
Non sono mai stato solo, eppure non mi sono mai sentito tanto solo. E’ un paradosso, ma d’altronde ci si può sentire soli anche in mezzo alla folla. Guardi gli altri e li vedi lontani anni luce da te… irraggiungibili… loro pensano che sia tu la stella, ma in realtà non è così. Sono loro. Milioni, miliardi di stelle che ardono e splendono, ognuna a modo proprio, e tu te ne stai a fissarle col naso in su, sapendo che non potrai mai toccarle.
Però non posso lamentarmi, me la sono cercata io. Ho fatto di tutto per arrivare fin qui… okay, tutto nei limiti del lecito, certo, ma comunque di tutto. Ho trascinato mio fratello e i miei amici nella mia follia e loro non hanno mai battuto ciglio, mi hanno seguito e basta, credendo in me.
Ma adesso vorrei solo tornare indietro.
Genere: Commedia, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1


<< …”E’ previsto per le 13 e 52 il passaggio della cometa di Arwion, uno degli eventi astronomici più attesi degli ultimi cinquant’anni anni; leggenda vuole che durante il transito del corpo celeste si verifichino strani fenomeni di non ben specificata natura. Ma passiamo alla Borsa: il Dax di Francoforte perde lo zero virgola due per cento, il Nasdaq …” >>.
Sbadiglio, guardando il cielo grigio azzurro fuori dalle enormi vetrate del bar in cui lavoro tre giorni la settimana. Gli altri tre li fa Kessi, la mia pazza, pazza coinquilina e la ragione per cui mi ritrovo qui, a mille chilometri e passa da casa, a caccia di un sogno irrealizzabile. Ci siamo conosciute in rete quattro mesi fa, più o meno. Oddio, “conoscere” è una parola grossa, quando si tratta di Kess: lei è inconoscibile, non c’è giorno che si alzi uguale ad un altro. Soltanto una cosa non cambia mai: il suo amore per I Tokio Hotel e quello strano, ambivalente sentimento che prova nei confronti di quel poveretto del loro frontman. Dico “poveretto” perché con tutte le cattiverie che sputa fuori Kessi ogni santo giorno non mi stupirei se la cometa di cui parlano alla radio non gli cadesse addosso. Perlomeno io ho qualche rotella più a posto…ma soltanto un po’, mica molto. Però, la morsa che mi strizza lo stomaco ogni volta che incrocio quello sguardo bruno, ardente e incredibilmente magnetico di Tom Kaulitz, so cos’è. E non mi diverto a fingere il contrario di quello che sento, come fa Kess. Lei forse nega per custodirlo meglio, il suo amore; io non ci riuscirei. Mi sentirei tremendamente in colpa, se gli parlassi male alle spalle. Anche se per un’innocente battuta. Metto via un paio di tazzine sporche, le sciacquo e le poso nello scolapiatti. Martine, la mia collega, mi guarda sospettosa, i grandi occhi azzurri di freddo metallo dietro le lenti. << Allora? Si può sapere che hai? E’ tutto il giorno che sembri dormire in piedi, persa nel magico mondo che non c’è. Ho dovuto sbrigare anche metà del tuo lavoro, cara >>. Grrr… stronza. Quanto la odio. Se potessi le farei ingoiare quegli occhialetti del cavolo che tiene in equilibrio sul nasino all’insù, e poi glieli farei risputare con una gomitata nello stomaco. Ma se facessi davvero una cosa del genere, Raphael mi licenzierebbe; senza contare che probabilmente mi beccherei una denuncia per lesioni volontarie. Ahhh, santa pazienza. A volte vorrei davvero essere capace di ammazzare qualcuno. Ma so di non potermela prendere con Kess, perché altrimenti quando venti giorni fa mi ha scritto, col suo solito tono spontaneo e assolutamente privo di ogni ritegno, “’Fanculo, mi sono stancata: molliamo tutto e andiamo a Berlino?”, avrei semplicemente risposto: “Tu non stai bene, tesoro mio”. Invece no. Sono saltata su che neanche una molla e ho scritto: “Sì. Andiamo”. Ho preso su armi e bagagli e senza voltarmi indietro nemmeno una volta, mi sono infilata nel casino della stazione, tra gruppetti di sogni infranti e altri che invece stentavano ancora a prendere il volo, tra decine di facce sconosciute io, che a malapena in tutta la mia vita prima avevo preso l’autobus per andare a scuola; io, che non avevo mai messo piede fuori dalla mia provincia. Sono passata a prendere Kess che abitava a cinquecento chilometri di distanza e lei, appena mi ha vista, mi è corsa incontro e mi si è attaccata al collo che nemmeno una sanguisuga, come fossi una sua sorella o una sua carissima amica che non vedeva da anni. Ma lei è così. In questi pochi giorni, ho imparato a rassegnarmi a tutti i suoi discorsi senza capo né coda, i doppi sensi che infila ovunque e le sue uscite fulminanti. Anzi a dire la verità adesso sto cominciando a prenderci gusto anch’io, e ogni tanto in casa si scatenano vere e proprie battaglie a chi ne dice di più, più velocemente. Sembrerebbe perfetto. Peccato che le docce fredde sono iniziate da subito, qui a Berlino. Appena arrivate, abbiamo scoperto che l’appartamento affittato via Internet si trova in una delle zone periferiche più lontane, e ci vogliono ore di mezzi pubblici per raggiungere il centro o anche solo il posto di lavoro. Inoltre, abbiamo anche avuto a che fare con gl’inquilini precedenti, che non volevano saperne di sgomberare nonostante fosse dato loro un bel preavviso: gli scarafaggi. Tra la caparra e le spese di disinfestazione io e Kess ci siamo salassate, e siamo state anche fortunate a farci assumere insieme, nello stesso posto anche se con turni differenti. Sarei stata molto più felice con lei qui dietro il banco, a scherzare sui calli che ci vengono sulle mani, ma per il motivo sbagliato; e a tremare per poi scoppiare a ridere, ogni volta che dalla grande porta a vetri entra un tizio con piercing o treccine o compagnia bella. Io con questo pupazzo di neve –anzi di ghiaccio, ‘che i pupazzi di neve sono adorabili, questa è una arpia- di Martine a malapena posso scambiare il saluto. E sorbirmi tutte le sue ramanzine, come se avessi tre anni e non ventitré, tre più di lei fra l’altro. Ma Martine lavora qui da due anni ed è una specie di “guru”, di supervisore per i nuovi impiegati. Così mi tocca abbozzare. << Scusa, Martine, ma vedi, non mi sento molto bene… penso sia colpa del ciclo… >>, mi giustifico, passandomi una mano sulla fronte nel tentativo di addolcirla. Lei incrocia le braccia. << Ce l’hai adesso? >>. << No >>. << Allora non è colpa sua, ma tua. Svegliati, Elettra >>. Io la ammazzo. Me ne frego se dopo dovrò farmi vent’anni di galera. Ma io la ammazzo. Se solo potessi avere un’altra vita, per una volta… una in cui potessi stare solo con persone che amo e che non mi tratterebbero mai così. Per una volta, vorrei essere io, a dire cosa fare o non fare. Non soffro di manie tiranniche o egocentriche, solo mi piacerebbe sapere come si sta sul gradino più alto, a farsi “coccolare” e vezzeggiare… Ma non sarà mai così, me ne rendo conto. Sarò sempre una povera, stupida barista part-time che continuerà a guardare la tivù e sospirare. Che tristezza.

Basta. Non ne posso più. Non ne posso più di camminare per strada imbacuccato come un terrorista, di non poter sentire il vento sulla faccia, di non poter salutare le persone. Non ne posso più di non poter entrare in un bar o in una tabaccheria e scambiare quattro chiacchiere con gli altri avventori. Non ne posso più. Non sono mai stato solo, eppure non mi sono mai sentito tanto solo. E’ un paradosso, ma d’altronde ci si può sentire soli anche in mezzo alla folla. Guardi gli altri e li vedi lontani anni luce da te… irraggiungibili… loro pensano che sia tu la stella, ma in realtà non è così. Sono loro. Milioni, miliardi di stelle che ardono e splendono, ognuna a modo proprio, e tu te ne stai a fissarle col naso in su, sapendo che non potrai mai toccarle. Però non posso lamentarmi, me la sono cercata io. Ho fatto di tutto per arrivare fin qui… okay, tutto nei limiti del lecito, certo, ma comunque di tutto. Ho trascinato mio fratello e i miei amici nella mia follia e loro non hanno mai battuto ciglio, mi hanno seguito e basta, credendo in me. Ma adesso vorrei solo tornare indietro. Cammino, nella fiumana di persone che irrompono per le strade… vanno chi a casa, chi a scuola a prendere i bambini, chi esce e va a cominciare il suo turno. Tutte loro hanno una vita… normale. Pensano alle bollette da pagare, alla cena da preparare, al marito o alla moglie che aspettano a casa impazienti il loro ritorno. Per me non sarà mai così. Mi fermo all’incrocio, in attesa che il semaforo pedonale torni verde; e intanto mi guardo attorno. Una donna di mezza età che parla al cellulare con aria maliziosa e complice; sorride, disinvolta, e non è difficile immaginare che dall’altra parte ci sia il suo compagno di vita. Un’anziana con sottobraccio un cagnolino; che buffo… gli hanno messo un collare con un campanellino al collo. Se fossi un altro, mi avvicinerei ad accarezzarlo e chiederei come si chiama; ma non posso certo farlo travestito così, altrimenti quella poveretta mi scambierebbe per uno scippatore e mi inseguirebbe a colpi di quell’ombrellaccio che tiene stretto nell’altra mano rugosa. Un gruppetto di ragazzine ride rumorosamente, sfogliando una rivista per teenager. Scommetto dieci euro che ci sarà anche la mia faccia, su qualcuna di quelle pagine… e loro la vedranno, e gireranno in fretta oppure indugeranno sospirando… ma il loro amore e il loro odio resteranno sempre qualcosa di estraneo a me. Non sarà lo stesso di chi mi sta accanto e mi conosce, non ne subirò gli effetti e non ne assaporerò il calore. Non mi cambierà l’esistenza. Il verde scatta, attraverso assieme agli altri, godendo del venir sbatacchiato ad urtare un po’ quest’uomo e un po’ questa stupenda ragazza bionda in minigonna… fosse mio fratello approfitterebbe della calca per assicurarsi che sia tutta roba naturale. Ma io non sono lui, per fortuna; mi accontento di sfiorarle il braccio, non perché è bella, non perché è desiderabile, ma perché è viva. Tra un urto e l’altro sono presto dall’altra parte… mi dirigo all’auto abbandonata in un parcheggio. Per una volta mi piacerebbe tornare a casa in metro o in tram, ma dall’11 settembre la gente “mascherata” non viene fatta salire, a meno che non si scopra il volto. Ma nel mio caso sarebbe più facile che l’attentato lo facciano a me, piuttosto che il contrario. Oggi è peggio del solito. Questa malinconia non se ne vuole andare. Mi sento incredibilmente giù… e adesso, dopo quell’autoscontro umano, sto ancora peggio. Quanto vorrei essere un’altra persona…

Ah, fottuto orario di stacco. C’è sempre un casino, in giro, a quell’ora. Tram, auto, biciclette, e… persone. Tutte che vanno di fretta e tutte che ti urtano senza neppure chiederti scusa. Cafoni. Dove cazzo andranno poi non si capisce. Lo so, sto diventando un po’ troppo acida. Ma sono stanca, e poi c’ho gli ormoni a terra e mi sento una schifezza. Appena arrivo a casa m’infilo a letto e non mi muovo più… Trovo la chiave, apro velocemente la porta ed entro. Finalmente. Il buon profumo di sugo che viene dalla cucina mi risolleva un po’ il morale. Kessi deve aver preparato qualcuna delle sue pietanze speciali, particolari, esotiche come le orchidee… nel senso che all’odore e all’aspetto sono bellissime, ma quando le assaggi rischi di finire in ospedale per avvelenamento vittima di chissà quali effetti. Per fortuna fino ad oggi non si sono ancora manifestate le allucinazioni, sennò povera me. Inizio a liberarmi velocemente di sciarpa, cappotto e berretto senza neanche guardare; butto tutto per terra, e levo anche il berretto: più un passamontagna, ma io non sono abituata a questo freddo. Non so che pellaccia abbia Kessi per girare in casa in shorts senza nessun problema. E’ tutta strana. Ma forse è per questo che mi piace tanto. Già. E vorrei tanto sapere che… ahhhhhhhhhhhhhhhhhh! Cazzo! Ossignore, forse ho sbagliato a dire che non si sono ancora manifestate allucinazioni. Perché io ne sto appunto avendo una, in questo momento. Lo specchio appeso accanto alla porta mi rimanda un’immagine che conosco più che bene, ma che non mi appartiene. Misericordia, non è possibile. Cioè, cazzo, non è proprio possibile! Ma proprio no, no,no! Lo scatto che sento provenire da una delle camere al piano di sopra mi fa realizzare velocemente. Torno in me –ma solo mentalmente- raccolgo tutto e salto fuori, rivestendomi a tempo di record. Solo adesso mi rendo conto che non sono i miei indumenti. E come potrebbero? Io non giro vestita come un pipistrello sadomaso. E nemmeno con dei jeans così stretti… porca miseria, ci mancava soltanto che cominciasse a prudermi ovunque. Ma col ca…ehm, col cavolo che mi gratto. Preferisco farmi tagliare una mano, che fare una roba del genere. Mi dirigo al parco dietro casa, mi siedo su un’altalena e dondolo piano, non osando quasi respirare. Non riesco a capire. Un secondo prima ero Elettra e dopo puff! Sono… no, non riesco neppure a dirlo. Tiro su la manica sinistra del cappotto. Non ce ne sarebbe bisogno, ma sto cercando di convincermene a poco a poco. La scritta che campeggia sul braccio nudo –santo cielo, se lo vedesse Kessi! Lei impazzisce per le sue braccia- è inequivocabile. “Freiheit ‘89”. Quanti altri imbecilli potrebbero andare a farsi un tatuaggio così? Come se uno come lui avesse bisogno di scriversela addosso, la libertà… quasi come un appunto. Se non è libero lui, che può fare tutto quello che gli pare e piace! Niente colleghi stronzi, affitti e bollette da pagare, problemi a mettere insieme il pranzo con la cena, lavori stressanti e frustranti, desideri irrealizzabili, cellulari che squillano… Cellulari che squillano! Ma certo! Frugo rapidamente nelle tasche del cappotto, e ne tiro fuori un cellulare. Dato che non è mio, posso dedurre che possa appartenere solo al proprietario del cappotto, la sciarpa, questi jeans del cavolo e… quello che c’è dentro. Santo cielo. Compongo il mio numero –che effetto strano che fa- e attendo in linea. Uno… due… tre… dai cazzo, rispondi!... quattro… << Pronto? >>. Accidenti, è peggio di una pugnalata. Sentire la mia voce all’altro apparecchio. Il tono allarmato, spaventato, incredulo. Mi fa venire l’ansia, come se già non ne avessi abbastanza. << Sei… sei Bill? >>, domando senza troppi convenevoli. << Sì, o almeno… penso. A giudicare dal corpo in cui sono ora, non direi >>. << Bene. Dove sei? >>. << Non posso dirtelo, ma vicino casa mia. E non ho il coraggio di entrare >>. Be’, siamo pari, tesoro. Io ho dovuto catapultarmi fuori, per evitare che mi vedesse Kessi e mi saltasse addosso. Con risultati molto variabili. << Sai dov’è l’Askenischenheide? >>. << Sì, ovviamente >>. << Raggiungimi qui. Ci sono alcune cosette da sistemare >>. Richiudo e rimetto il cellulare in tasca. Alzo lo sguardo al cielo, e solo in questo istante mi rendo conto che non è attraverso i miei occhi che sto osservando quelle nuvole grigie e pensati. Eppure sembrano sempre le stesse. Almeno loro. Un’auto bianca, anonima, si ferma a bordo parco; il finestrino si apre impercettibilmente, il guidatore mi fa un cenno, poi porta una mano alla testa, spegne il motore, apre la portiera e scende. Mi verrebbe quasi da ridere, se non fosse che so esattamente cosa sta provando. << Elettra Colli? >>, mi domanda quando mi è di fronte. Inarco un sopracciglio. << La mamma non ti ha mai detto che non si fruga nella borsa delle signore? Comunque sì, sono io >>. << Io sono… >>. << Lo so chi sei, lo so. Per mia disgrazia dovrei forse dire >>. Sospiro. Mi sono sempre chiesta cos’avrei fatto se mi fossi trovata davanti uno di loro. Probabilmente sarei rimasta vittima di una sincope. Non credevo potesse esistere nulla di peggio… almeno fino a questo momento. << Hai la minima idea di come sia potuto accadere? >>, mi domanda, incert… oh, cavolo. E adesso? Che genere usare? Ho davanti una ragazza, chiaro, ma so benissimo che non lo è. Come d’altronde io non sono quello che sembro… se ci fosse Kessi, commenterebbe con una frase di Labyrinth –non senza aver prima detto almeno dieci volte che lei detesta a morte quel film, ma lo guarda e lo riguarda con uno stoicismo che ha del patologico- tutto sembra possibile e niente è ciò che sembra. Ho come la tremenda impressione che da un momento all’altro debba spuntare David Bowie vestito da elfo a cantare quella scellerata “Magic dance”, un’altra delle cose che Kessi odia a morte –sempre secondo lei, ovviamente-. << Mi pare chiaro che no >>. << E allora? Che si fa adesso? Non posso certo tornare a casa così. Appena aprirei la porta mio fratello prima mi chiederebbe: “Ma chi ti ha mandato qui, bellissima fata?” e poi m’inviterebbe a cena, come minimo >>. Mi verrebbe da ridere, se non stesse parlando di “quel” Tom. << E saresti fortunato. Se aprissi la porta io ora come ora, non ho idea di che fine farei >>. << Perché? >>, chiede incuriosito. E improvvisamente taccio, seguendo il filo di un pensiero così semplice, così evidente che era quasi impossibile da formulare. La mia coinquilina dice un sacco di boiate, ma a volte qualcuna ne azzecca. E quel “le cose che abbiamo davanti agli occhi sono quelle più difficili da vedere” –non credo sia sua, mi pare troppo profonda- è vero e proprio oro colato. << Niente. Senti un po’, tu hai qualche idea per risolvere questo casino o perlomeno restare vivi finché non lo capiamo? A parte scappare in Armenia, naturalmente >>. << Perché proprio in Armenia? >>. << Cazzo ne so, mi è venuto così, era tanto per dire. Perché io una cosetta l’avrei pensata. Ma vorrei sentire cosa ne dici tu >>. Mi guarda, coi miei occhi appena intuibili tra berretto e sciarpa. E sospira. Conosco quell’espressione. E’ rassegnato. << Ho forse altra scelta? >>. Direi di no.

Un quarto d’ora a fare il punto della situazione. Poi una porta sconosciuta. In un edificio sconosciuto. Situato in un quartiere che conoscevo solo di sfuggita. E io in un corpo estraneo, che ci sto davanti. Uhm… Non sono granché convinto che l’idea di Elettra fosse buona, purtroppo però a me non ne sono venute di migliori, per cui… In compenso però mi è venuto il mal di testa a furia di pensare. Ne fosse almeno valsa la pena… E ora che ci penso mi fa male anche la schiena. Fottuti tacchi. Non vedo l’ora di levarli. << Ehi, Ele! >>. La ragazza che mi apre la porta in shorts di jeans e maglia grigia a maniche corte è perfino più bassa di me… cioè di Elettra. A malapena sarà sul metro e sessanta. Ha una massa arruffata di capelli ramati tenuti sulla testa da due matite, e non un filo di trucco. Una tipa come tante insomma, non una di quelle bellezze mozzafiato da copertina… però ha dei begli occhi. Verde, come le foglie di felce. Spiccano sul suo volto anche senza eyeliner e ombretto. << Entra. Sono appena tornata >>, spiega avvicinandosi ai fornelli. << Tutto okay? >>. << Sì, più o meno. A parte un dolore atroce alla schiena >>. << Quel lavoro ci seppellirà, prima o poi >>. << Già >>, replico. << Senti, ti spiace se non mangio con te? Non riuscirei a tenere nulla nello stomaco, adesso >>. Lei mi guarda di sottecchi, si avvicina e mi posa una mano sulla fronte. Mi studia con quegli occhioni… accidenti però, sono davvero belli. << Sicura di star bene? >>. Non esattamente… << Sì >>. << Perché sei pallidissima… non è che ti sei beccata l’influenza no? >>. Macchè, ho soltanto subito uno scambio di corpi… e dubito fortemente che possa passare con un’aspirina. << Ma no >>. << Mah >>. << Ho solo mal di schiena. E mal di testa >>. << Okay. Dai, vai a farti una doccia e sdraiati un po’, il tempo che mando giù qualcosa e vengo a farti un massaggio >>. Che?! Doccia? Massaggio?! Ossantocielo… ora mi sento davvero male. Se non mi aggrappo a qualcosa mi spiaccico sul pavimento; sarà anche pulitissimo, lucidato a specchio, ma non ci tengo proprio. << No, no! >>. Lei trasale. << No? >>. << Cioè, intendevo dire… no, preferisco farla quando mi alzo, volevo dire >. Cassandra batte le palpebre rosee, perplessa. << Ma tesoro, sei proprio sicura sicura sicura di star bene? Perché sei strana, più del solito >>. << Chi, io? No… sono solo molto stanca >>. Devo defilarmi all’istante, altrimenti finirò col sputare fuori tutta la verità, davanti a questi occhi. << Vado un attimo in bagno, okay? >>. << Okay… >>. Mi alzo, ringraziando il cielo che il bagno sia al piano di sopra, così posso perdermi senza destare ulteriori sospetti nella mia nuova coinquilina. Per fortuna non corro neppure il rischio di perdermi, perché ci sono soltanto tre stanze: due piccole camere da letto e un bagno, ch’è a dir poco minuscolo. Per un attimo mi sembra di essere tornato a Loitsche. Mi chiudo la porta alle spalle, sospirando di sollievo. Ma la pace dura poco. Lancio un’occhiata al box doccia… non avrei pensato che quattro innocenti ante di plexiglass potessero avere un’aria tanto minacciosa. Ho toccato decine di ragazze, ma era tutta un’altra cosa e adesso il pensiero di dovermi spogliare mi mette addosso un’angoscia… anche perché sarà in quel momento che mi renderò conto di quanto sia reale questa… “cosa”. Intanto mi sto rendendo conto di avere una necessità fisiologica che se non mi sbrigo ad espletare diverrà imperativa. Già. Avanti, Bill, un po’ di sano stoicismo. In fondo non è che sia poi così strano… sei nel corpo di una ragazza. C’è chi dice che lo sei già da secoli… Coraggio. Non è niente di che. Sai com’è fatta una donna… quindi niente panico. Coraggio. Uno, due, tre, giù i jeans. Coraggio. Oh, visto? Non era poi tanto difficileeeeee…. << Porca puttana! >>. Tutto il mio training autogeno va a farsi fottere in un microsecondo. Non posso credere di essere tanto sfigato. Semplicemente, non si può. << Ele, tesoro, stai bene? >>. La voce inquieta di Kessi - oddio, sto già cominciando a chiamarla così. Sarà che in casa mia detestiamo i nomi lunghi- risuona al di là della porta chiusa. << Sì, sì, tutto bene >>. Sì, col… anzi è proprio questo il problema, che non c’è, porca miseria. Mi viene quasi da piangere. O da ridere. Non lo so nemmeno io. << Sicura? Perché hai lanciato un urlo…. >>. Sospiro, rassegnato. << Mi è venuto il ciclo… >>. Lei scoppia a ridere. << Guarda, non per fare la rompiballe, ma di solito è se non viene, che si comincia a bestemmiare…. >>. E’ chiaro che lei, poveretta, non può capire. << Comunque i tamponi sono nell’anta a destra. Li ho messi lì perché il cassetto sta per esplodere… >>. Eh, non è il solo. Tamponi? Misericordia, no, non ci posso credere, è un incubo orribile e tra poco mi sveglierò. Uno, due, tre… macché. E’ peggio di un incubo. E’ vero, dannazione. Ma non posso far niente. Apro l’anta, prendo la scatola azzurra e la scruto come se dovesse mordermi da un attimo all’altro. Ma il terrore vero mi sale quando ne estraggo un bastoncino incartato non più grande di un dito… un brivido di disgusto mi scuote dalla testa ai piedi e ritorno. Scartandolo, mi viene pure la tachicardia. Il pensiero di dover infilare questo “coso” dentro… oh, mamma. Sto per vomitare. E pensare che il meccanismo è lo stesso… Okay. Ora vomito sul serio.

Non so quanto sia stata geniale la mia idea. Tuttavia penso non esistesse altra via d’uscita, come mi ha detto anche lui d’altronde. Ma tra il dire e il fare… mi piacerebbe ci fosse di mezzo il mare, alto scuro e profondo, imbiancato di spuma fresca e frizzante. Apro la porta di quella che sarà la mia nuova casa a tempo indeterminato e… Oh porca miseria zozza bastarda e infame! Aiuto, aiuto, aiuto! << Era ora che tornassi!Pensavo ti avessero rapito gli alieni… >>, sbotta il mio peggiore incubo… in accappatoio, scalzo, con un velo di schiuma da barba attorno al volto e una sigaretta tra le labbra. Ossignore… Altro che mare… cazzo, questo è uno tsunami in piena regola. Sento che sto per svenire. Ora che mi passa davanti con estrema nonchalance, abbassa il cappuccio di spugna azzurra e sfila fuori i lungi capelli bagnati. Oh, madonnina. << No, solo… c’è stato un po’ di casino, in centro >>. Ma non immagini neppure quanto… un casino grande come una cattedrale, un continente, un intero pianeta… Okay, meglio che mi fermi. Perché è matematicamente certo che sto per sparare qualche cazzata che mi costringerà a prender fuoco e nascondermi sotto il tavolo. Oh, no… nemmeno il tavolo. Tom si siede, incrocia i pieni sul piano di legno.. un lembo dell’accappatoio scivola di lato, mostra una gamba semplicemente… ahhhh, ho mezzo litro di bava che mi cola dalla bocca, un sanbernardo arrapato farebbe meno schifo di me. E meno male che lo risistema subito, perché altrimenti… penso che invece dello straccio per i pavimenti o il mocho vileda, mi servirebbe un gommone, da riciclare per espatriare verso i Paesi baltici. Tutti tranne la Lettonia, però. Grazie. << Ah ah. Senti, prima ha chiamato Dave, vuole sapere che hai intenzione di fare con “Dreaming of you…” >>. Che?! << Ehm… digli che ci sto ancora pensando >>. << Okay >>. << Anche se non riesco proprio a capire cosa c’è che non va, con “Dreaming of you” >>. Prima regola: sicurezza, sicurezza, sicurezza. Fingi sempre di sapere di cosa stanno parlando. << Veramente nulla. Voleva solo sapere quando possiamo cominciare a girare il video >>. << Quando avrò… ehm, trovato un’idea che ci piaccia, come sempre. O sbaglio? >>. Tom inarca un sopracciglio, evidentemente perplesso. Forse ci ho messo troppa sicurezza… << Credevo fossi soddisfatto di quella che abbiamo proposto… soprattutto perché era tua, tra l’altro >>. Ahhhhhh… oh, cavolo, cavolo, cavolo! Che sia dannato il tuo egocentrismo, Bill Kaulitz! << Ehm, sì, ma sai com’è, i vergine sono volubili… >>, spiego portando una mano alla nuca. Buon cielo, che shock non trovarci la mia solita coda. << Mah. Stai lavorando troppo, fratellone >>, fa lui, alzandosi di scatto, con un movimento così repentino che… ossignore… non ho fatto in tempo a vedere assolutamente niente… Aiuto, un estintore. Anzi, due. << Dici? >>. << Ah ah. Ti servirebbe un po’ di distrazione… come quella che ho conosciuto io ieri sera, ad esempio >>. Sì, avevo visto giusto, datemi due estintori. Uno per me, e l’altro per tirarglielo in testa. << Ma dai? >>. << Oh, ieri sera è andata male perché c’erano tutte quelle cofane delle sue amiche, ma se la ribecco… >>. Toglie la sigaretta di bocca e mi scocca uno sguardo che… << la lego al letto e la faccio gridare fino all’indomani >>. Preferisco far finta di non aver sentito. << Sì, ma almeno se in caso avvisami prima, che mi metto i tappi… detesto sentire le tue amichette starnazzare come galline strozzate >>. << E da quando, scusa? Ma se fino a ieri eri tu che appena mi vedevi scendere in cucina la mattina mi davi Il voto a seconda del casino che aveva fatto la ragazza di turno! >>. Oh misericordia. << E io faccio… o meglio facevo lo stesso con te, visto ch’è da un pezzo che non acchiappi niente. O te lo sei scordato? >>.
Oddio. Non ditelo a Kessi.
  
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