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Autore: heles_allgood    01/06/2012    1 recensioni
(Volevo ringraziare la mia immagine, che è l'unica cosa che conta)
Genere: Comico, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Green Day
 
 
 
 
 
God bless us everyone
We are broken people living under a loaded gun
Linkin Park
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Track # 1
 
Ci siamo.
È la mia serata.
Sono pronta.
Sono al top.
Mi sento bene.
Mi sento davvero bene.
Un piccolo aiutino dalla magica polvere degli angeli ha fatto sparire ogni dubbio. Ora non ho più paura. Posso uscire e affrontare il pubblico senza problemi.
Posso affrontare anche lei. Nulla può più fermarmi. Non adesso.
Adel, la mia truccatrice personale, arriva con gli ultimi colpi di pennello. Chiudo gli occhi di mala voglia. Sono stanca. Mi ha truccato per quasi due ore. Ora ho la pelle che ha lo stesso colore delicato di una pesca ed è liscia come il culo di un bambino.
Non ricordo se i miei figli avessero il culo così quando erano piccoli, se proprio devo essere sincera. Non gli ho mai cambiato un solo pannolino in vita mia. Non ci ho mai nemmeno pensato, a essere onesti.
Forza, non scherziamo.
Avete idea di quanto puzzi la merda di bambino? Io si. alla perfezione.
Ci ho provato solo una volta, giovane e incosciente. E anche un po’ fatta. Ok, mi avete scoperto. E allora? Nessuno è perfetto.
Comunque.
La puzza era così tanta che ho quasi vomitato il mio Cosmo.
Connague è rimasto senza pannolino fino alla mattina successiva, quando la prima cosa che ho fatto è stata compilare un assegno a nome Mrs Amelie Polignac. Ha origini francesi da parte di nonni materni. Il suo cognome è lo stesso di un’antica contessa, amante del Re Sole. Così almeno dice lei. Secondo me se lo è inventato, perché credo sia più americana del quattro luglio e del pollo fritto messi insieme. Ma non importa. Deve badare a Connague e Leon. E poi sa un po’ di francese. Spero veramente che lo insegni ai bambini. Così quando saranno più grandi mi porteranno in giro per negozi a Parigi, e non potranno più fregarmi con la loro lingua di merda.
Vedo arrivare anche Andrè, il mio parrucchiere personale.
Andrè. Un amore, il nostro, che ormai va avanti da tre anni.
Mi ha seguito praticamente ovunque. Abbiamo girato il mondo insieme. Abbiamo visto tinte in piena notte e capelli che sono durati fino a dodici ore in piega perfetta grazie all’improponibile quantità di lacca spruzzata.
Ci soffiamo addosso a vicenda, di solito, ma la nostra è solo una finta, che serve per camuffare le apparenze.
Dopo aver passato tre ore sotto alle sue mani, lo guardo, ovviamente, con occhi infuocati. Ricambia senza problemi il mio sguardo, aprendo le braccia in un gesto più che plateale mentre strabuzza gli occhi, ad indicare che non è colpa sua se mi si è scomposto un capello, nonostante il nostro più che degno contributo all’apertura nel buco dell’ozono a colpi di spray. Sbuffo di nuovo ma lo lascio fare. Anche perché so perfettamente che se anche mi metto a questionare sul fatto che il capello fuori posto lo vede solo lui, alla fine trova comunque il sistema per mettermi le mani in testa, e io mi sento una cretina perché mi rendo conto di aver solo perso del tempo. Quindi glielo lascio fare, anche se sbuffo.
Consapevole che, dopo di lui, sarà il turno di Didì e Steven, che mi sistemeranno il vestito.
Di nuovo.
Ho un cambio di abito per ogni entrata, il che significa ben nove cambi di abito nella serata. Nove vestiti uno più assurdo dell’altro. Ma se dobbiamo far concorrenza alla concorrenza va bene anche questo.
Sono io la star.
Non lei.
Questo è bene che il pubblico lo capisca in modo chiaro. Ed è bene che lo capisca anche lei. Se non fossi esistita io non sarebbe mai esistita nemmeno lei. Così come non sarebbero esistite tutte le altre. Sono io la regina. Non quella stupida oca che cerca di imitarmi.
Ecco Didì.
Fantastico. Non vedevo l’ora.
Steven non so dove sia, mi dice. Meglio così. Steven di solito mi fa girare la testa a forza di controllare che ogni singolo lustrino sia al suo posto. Molto probabilmente è a controllare gli altri vestiti. Didì prende una bomboletta di lacca spray, mi solleva il retro del costume e mi spruzza la lacca sulla pelle, incollandomi il costume alle natiche. Come se prima non ne avesse già spruzzata abbastanza. È per essere sicuri, mi dice.
“Non voglio che il tuo vestito di apertura venga ricordato come quello che ti ha lasciato col culo per aria” sospira.
Neanche fosse la prima volta che il pubblico mi vede il culo. Girano i miei filmini porno in rete. Dovevano essere privati, ma a quanto pare. Perciò figuriamoci se mi spaventa la possibilità che la gente possa vedere il mio culo. Mi mordo la lingua in ogni caso. Gli amici vanno accontentati in ogni modo. Quindi sopportiamo di buon grado il freddo appiccicoso che dalle chiappe mi scende lungo le gambe.
Didì mi tampona la pelle con un kleenex. Sembra che me la sia fatta sotto.
Scuoto la testa, cercando di non pensarci.
“Voglio una sigaretta”.
Sembra che parli nel deserto del Gobi.
Se avessi chiesto l’ora probabilmente avrei suscitato reazioni più partecipi.
“Voglio una sigaretta” provo di nuovo. Forse il mio tono di voce non era sufficientemente alto. “Voglio una sigaretta” urlo. “Voglio una sigaretta. Voglio una sigaretta. Vogliounasigarettavogliounasigarettavogliounasigarettavogliouna”.
Finalmente qualcuno si accorge di nuovo che esisto.
Un cameraman mi allunga uno sgangherato pacchetto di Pall Mall.
Le odio, ma siccome non vedo nessuno scapicollarsi per darmi una sigaretta, vedrò di accontentarmi.
Adel mi guarda, terrorizzata per il rossetto. Le faccio il sorriso più cattivo che mi riesca.
A fanculo lei e il suo rossetto.
Scuote la testa, rassegnata, e comincia a cercare tra le sue mille cianfrusaglie il pennello per la bocca e il rossetto giusto, quello color ciliegia numero 609, e non il ciliegia 614, che risulta ideale per fare le labbra rosso sangue.
Stasera voglio sì un’immagine più aggressiva, ma non vicina a quella di un vampiro. Devo riabilitarmi. Devo ristabilire la mia immagine. Non far sembrare questa cosa come una carnevalata.
O peggio ancora, come  il canto del cigno.
È la mia serata, e me la voglio godere tanto.
Anche se in questo momento sto facendo altro. Non mi sto esattamente divertendo.
Attorno a me è un viavai continuo di gente.
Mi hanno già urtato, nell’ordine, due cameraman, un ballerino, il cantante dei Fighter Club che non mi ha nemmeno salutato, figuriamoci chiedere scusa, il regista della serata che inseguiva il cantante dei Fighter Club, due donne della sartoria il cui nome non è particolarmente importante, e un carpentiere con tanto di casco giallo.
Il prossimo che si avvicina a meno di tre metri da me sarà rinchiuso nel mio camerino in compagnia di…di…non lo so di cosa. Ma qualsiasi cosa che gli faccia male sarà perfetta.
Manca poco alla diretta. E manca poco anche alla mia apertura. Sarò la star dello show. Sarà tutto perfetto. Ritornerò a calcare le scene e dimostrerò a lei che il mio nome conta ancora qualcosa.
Anzi.
Più di qualcosa.
Il mio nome è ancora una garanzia.
Di quelle con la g maiuscola.
Il cazzo. Io mica sono arrivata ieri come le sgallettate che saranno sicuramente sedute in prima fila. Io ho studiato, mi sono impegnata e ho fatto tanti sacrifici.
Brian, il mio coreografo, ha preparato tre uscite studiate appositamente per me. Sono spettacolari, estremamente scenografiche, con tanto di elementi acrobatici e fiamme. Meravigliose. Ci saranno persino i fuochi d’artificio in chiusura.
Andrà bene.
Lo so.
Lo sento.
Devo solo rilassarmi. E respirare ancora un po’ di polvere degli angeli. Mi fa vedere le cose più chiare di solito.
Afferro la croce che ho al collo. Nessuno lo direbbe mai che è un contenitore di polvere magica. La parte più corta del braccio verticale, infatti, si sfila dal resto. Ad esso è collegato un microscopico cucchiaino. Me lo porto vicino al naso e via.
Tutti pensano che io abbia ritrovato la fede.
Un po’ è così, in effetti. Ho ritrovato la fede.
E credetemi. È purissima.
Vedo Steven in lontananza che si avvicina con un sorriso da avvoltoio.
Pessimo segno.
Steven che sorride di solito è presagio di sciagura, perché gli è venuta in mente una variazione vitale dell’ultimo minuto, che sicuramente prevede qualcosa che io non vorrei fare nemmeno nel corpo di un altro.
Ma posso sopportare anche questo. Devo solo convincermene. Posso farcela.
Quando è a portata di profumo, mi fa girare come se fossi la ballerina di un vecchio carillon. In effetti un po’ lo sembro. Anche se non esattamente così elegante e politically correct.
Ho un body nero aderente senza maniche, fatto di pizzo, praticamente trasparente. Sotto indosso reggiseno e slip in pelle, attorno ai fianchi una complessa struttura di filo di ferro a gabbia, che le donne del settecento usavano come impalcatura per i loro mastodontici vestiti, Solo che questa, invece che essere un semplice supporto per un pezzo di stoffa, è la mia gonna. I fili di ferro sono ricoperti di raso nero, con rose nere di seta nei punti di congiuntura. Sulle mie gambe calze a rete larga strappate in diversi punti, con tronchetti alla caviglia con tacco quindici, ricoperti di piccole borchie. I capelli sono così biondi che sembrano quasi bianchi, e sono acconciati in mille ricciolini sottili sparati in aria, raccolti in due codini ai lati della testa.
Niente male, lo so.
Non sono molto felice della scelta del trucco. È azzurro, molto vistoso e molto luccicante, e col nero fa decisamente a pugni, ma in realtà fa a pugni anche col resto. Solo che non ho ovviamente tempo per truccarmi tra un cambio e l’altro, dal momento che per mettere su questo mi ci sono volute due ore.
Io lo volevo nero, cos’ da mettere in risalto i miei occhi verdi, ma Tanja mi ha fatto desistere, ricordandomi che è la serata della mia riabilitazione. Addirittura lei lo voleva rosa.
Figuriamoci.
Mi ci sono opposta con tutte le mie forze. Del trucco rosa non se ne parla proprio. Quindi ombretto azzurro cielo, matita dello stesso colore, mascara blu, tanti glitter, attorno agli occhi e anche sul viso, e la bocca a forma di cuore, disegnata alla perfezione col rossetto.
L’azzurro è un colore neutro e passepartout. È chiaro, mette in luce il mio viso e in risalto i miei occhi e lo posso mettere con tutti i vestiti.
Resto del parere che sia una pessima scelta.
Ma non ho più tempo per sacramentare al momento. Ormai è andata, e mi tengo questo.
Amen.
So come far fronte agli imprevisti.
Sono una star e non ho nulla da invidiare a lei.
Sono una star e non ho nulla da invidiare a nessuno.
Steven continua a dare piccoli colpi all’impalcatura della gonna per sistemare le rose o non so che altro. Mi lascio scappare il piede e gli pesto una mano.
Ops.
“Oh. Scusa Steven. Sai, questi tacchi così alti, non sono esattamente una passeggiata da portare” gli dico col mio miglior sorriso.
Mi guarda storto, ma io mantengo la mia espressione di sfida. Non ci pensare nemmeno, cocchino. Stasera la prima donna puoi andarla a fare sull’autostrada, per quel che mi riguarda. Faresti sicuramente un successo maggiore. Soffia dal naso, imbestialito, eppure, alla fine, è il primo ad abbassare lo sguardo.
Un’altra piccola vittoria per la sottoscritta.
Cinque minuti, dice la voce del regista diffusa dall’altoparlante.
Ho persino il tempo per una telefonata a casa.
   
 
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