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Autore: Neal C_    04/06/2012    3 recensioni
' […] in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia '
Cogliere l’assurdità e la desolazione del vivere e cercare un varco nella muraglia. O consiglio dalla persona sbagliata
“Bellamy”
“Brian, sono sotto casa tua.”
“Cosa?”
“Non ho un soldo per pagare il taxi. Ti prego, mi presti undici sterline?”

************
Non rassegnarsi, pretendere che le cose abbiano un senso, a tutti i costi.
' Sembrò farsi strada in lui la consapevolezza che quell’irruzione in casa di Brian era stata totalmente inutile.
Non aveva trovato niente, né un consiglio per rasserenarsi, né una distrazione per alleviare il dolore.
[…]
E in quel momento, mentre Molko apriva la finestra, Matt si disse che non era giusto;
lui era venuto lì almeno per avere una distrazione e la avrebbe avuta. '

*************
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Muse, Placebo | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Nonsense
Autore: Neal C.
Genere:  Drammatico, Angst, vagamente introspettivo
Avvertimento: Slash, Lime
Rating: Arancione
Pairing: Mollamy (Brian Molko/Matthew Bellamy) , BellDom  (Matthew Bellamy/Dominic Howard) , molto di sfondo

Disclaimer: Non li ho inventati io ma se non esistessero bisognerebbe inventarli. A stento si salutano figuriamoci se fanno questo poco.
Non sanno niente di me e delle mie fantasie campate per aria e non lo sapranno mai perché certo non le pubblicherò né ci ricaverò mai un centesimo.
Un po’ di sano fancazzismo condito con un pizzico di decadentismo/ermetismo/QualunqueCosaSia (tecnicamente nessuno dei due <.<),  che non fa mai male.






Nonsense





E andando nel sole che abbaglia
con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

[Meriggiare pallido e assorto,
Montale, Ossi di seppia, 1925]




Matt Bellamy aveva imprecato a più riprese quando aveva scoperto che la sua riserva di birra era a secco, proprio quella sera, quando il suo unico desiderio era quello di sprofondare in un ubriaco languore, con il sapore amarognolo – o forse dolciastro - che ne derivava.
In strada aveva agitato il pollice alzato, freneticamente, si era sbracciato barcollando come una gru che rischia di schiantarsi al suolo.
Il tassista non aveva realizzato da subito le condizioni precarie del proprio cliente e si era maledetto per essere stato così ingenuo e poco accorto, mentre osservava nello specchietto centrale quello spilungone che si aggiustava in modo nervoso sul sedile di tela con uno strano strofinio.
Matt aveva mormorato il suo indirizzo – perché proprio il suo? Con tante persone che conosceva?! – e aveva dovuto ripetersi cercando di scandire le lettere o almeno di non biascicare come un ritardato.
C’era traffico, Londra era un enorme semaforo multicolore perennemente rosso, dove le strade erano ingombre di mezzi, stritolati l’uno dietro l’altro, che già da tempo avevano inghiottito le linee di corsia e la segnaletica orizzontale.
Matt aveva allungato la mano e aveva frugato nella tasca dei Jeans alla ricerca del cellulare poi, improvvisamente, aveva lasciato che il braccio tornasse inerte, abbandonato sul fianco come un pupazzo senza vita. A che serviva chiamare? Gli avrebbe detto di no.
Un no secco che non ammetteva repliche.  Matt non aveva bisogno di sentirsi dire un altro no.
I piedi gli tremavano come fosse in preda ad un tic, la schiena era incurvata, il capo leggermente chino, come di chi si guarda la punta delle scarpe, con un po’ troppo interesse.
Ogni tanto si mordicchiava il labbro in modo convulso.  L’agitazione lo pervadeva tutto.
Il tassista, nell’attesa, aveva messo su un po’ di musica, teneva la radiotaxi spenta come fanno in tanti fra i meno ligi; d’altra parte, dopo almeno sei ore di servizio, verso le due di notte era anche comprensibile.
Il pover uomo, ogni tanto, lanciava strane occhiate a Matthew ma non osava fare domande.
Tirò un sospiro di sollievo quando imboccò la via, a pochi metri dalla destinazione.
“Sono undici sterline e settanta”
Il tassista vide lo spilungone lanciare un’occhiata rapida al tassametro, fissando i numeri rossi e lampeggianti con uno sguardo vacuo. L’uomo sorvolò sul comportamento del cliente e si sentì in dovere di aggiungere, quasi a mo’ di scusa:
“Il traffico del venerdì è una piaga”
Matt si ricordò in quel momento di non avere neanche un centesimo e chiese stupidamente di pagare con carta di credito. Quando il tassista si rese conto che quello non scherzava, lo mandò al diavolo ma pretese che lui scendesse e andasse a cercare un bancomat e lo invitò a lasciargli un documento.
Il cantante non accettò –non ce l’aveva nemmeno il documento. O forse si? -  e, messo alle strette, compose il numero, ignorando la palese irritazione del tassista ostinato.
“Bellamy”
“Brian, sono sotto casa tua.”
“Cosa?”
“Non ho un soldo per pagare il taxi. Ti prego, mi presti undici sterline?”
Sentì il tassista gridare indignato e reclamare anche i settanta pence.
Matt pensò che quell’uomo era più fiscale di un esattore delle tasse.
Brian Molko impiegò almeno qualche minuto per rispondere.
“Tornatene a casa Bellamy”
Matt cercò disperatamente di trattenerlo, lo pregò in tono quasi piagnucoloso ma si ritrovò a supplicare a vuoto, con un fastidioso ticchettio nelle orecchie. Gli aveva attaccato il telefono.
Disperatamente spalancò la portiera e si lanciò fuori dal taxi mentre il suo proprietario gli gridava contro come un pollo spennato.
Si attaccò al citofono e suonò a lungo mentre il tassista minacciava di scendere e di menarlo.
Brian rispose al citofono furente, sottovoce come se temesse di svegliare qualcuno:
“Suona di nuovo questo citofono Bellamy e questi saranno gli ultimi cinque minuti della tua insulsa esistenza.  Sto scendendo.”
Matt aveva tirato un sospiro di sollievo e aveva gettato sguardi ansiosi al portone del palazzo mentre gesticolava, l’indice destro alzato in aria pregando il tassista di aspettare un altro minuto, che scendeva il suo amico. Brian era sbucato fuori , con passo marziale, fulminando con lo sguardo il suo inatteso visitatore, non lo aveva degnato di un saluto e si era subito diretto verso il tassista che sbraitava e appellava in maniera più che colorita “quel coglione ubriaco” che gli era toccato scarrozzare per mezza Londra.
Gli aveva allungato venti dollari e lo aveva freddato con un “tenga il resto e si levi dai piedi. Buonanotte” risolutivo.
Quello, incerto se risentirsi per la scortesia di quel tizio o se ringraziare per la lauta mancia, aveva borbottato un saluto di malavoglia e aveva messo in moto, dileguandosi nel giro di qualche minuto.
Matt era rimasto a guardare la scena rincuorato, per un attimo più calmo di prima.
Poi si era concesso una lunga occhiata alla schiena del cantante mentre questo sbrigava la sua questione, come se potesse spogliarlo del pantalone da completo nero e la giacca abbinata, sotto cui però cascava cadente una lunghissima magliettona di cotone vecchio, dalla trama rovinata e scolorita, che purtroppo copriva anche la vista del culo, quasi fino ai ginocchi.
Adesso Molko lo fronteggiava, gli occhi che saettavano mentre, nonostante la giacca poggiata sulle spalle piccole, era scosso da brividi di freddo.
“Dammi una sola ragione per cui dovrei farti salire, Bellamy.”
La sua voce lo feriva, era così dura e sferzante, c’era troppa ostilità, ingiustificata poi.
Matt si raddrizzò, sentì le sue scapole ravvicinarsi e la pelle d’oca, che mal reagiva anche lei al clima invernale della capitale. Sentiva di contro il volto rubizzo e l’alito alcolico.
“Devo parlarti.”   Osservò il suo sopracciglio inarcarsi, incapace di nascondere, sotto la maschera rabbiosa, la sorpresa.  Matt si corresse; così sembrava troppo irreale.
“Io…devo parlare con qualcuno. Ti prego…”
Un moto delle viscere, riaffiorò con un guizzo il ricordo di poche ore prima, gli si strinse lo stomaco e, sofferente, come un cane con l’affanno latrò:  “Hai da bere?”
Anche stavolta passò almeno un minuto perché Brian rispondesse. Continuò ad osservare il cantante dei Muse che sbatteva gli occhi a più riprese come se questo bastasse a scacciare il velo di lacrime, che sussultava nervosamente e ogni tanto la sua lingua guizzava, quasi evidente, nella bocca semi-aperta.
Era come se si stesse trattenendo dallo scoppiare.
Con un sospiro e uno sguardo tra il sospettoso e il rassegnato Molko aveva sospinto il portone del palazzo e gli aveva fatto cenno con la testa di seguirlo, precisando poi, dopo qualche minuto, mentre salivano le scale, che non voleva casini e soprattutto niente rumori inconsulti in casa sua.
Rianimato dal pensiero di aver aggirato il no, Matt non si era neppure preoccupato di indagare perché il cantante dei Placebo fosse tanto sensibile al rumore; camminava in punta di piedi come se non volesse svegliare qualcuno e si era assicurato di chiudere la porta di casa più dolcemente possibile.
Matthew mancava da casa di Brian da almeno un anno e mezzo ma non era minimamente stupito di ritrovare lo stile semplice e minimalista, le superfici piane spoglie da eventuali vasi, soprammobili e oggetti vari. Era fredda e impersonale, lo era sempre stata a quanto ricordava, nemmeno quelle poche volte che c’era stato lui era mai riuscito a vivacizzarla.
D’altronde Brian non aveva mai concesso a nessuno la chiave di accesso al suo regno o almeno così era convinto Matt. Ogni volta che aveva voluto di più si era sempre scontrato contro un muro solido come il cemento armato.
Aveva notato la fronte aggrottata di Brian, sembrava tutto concentrato su qualcosa mentre richiudeva la porta del salotto alle sue spalle, isolando il resto della casa.  
Poi il padrone di casa lo aveva preceduto in cucina accertandosi che lo seguisse come se temesse, gettando l’occhio, che se ne potesse andare a zonzo per la casa a fare danni.  
Aveva scostato una sedia dal tavolo facendogli cenno di sedersi lì e aveva mosso verso il frigo, dall’altro lato della cucina piccola e quadrata,  ma che bastava ampiamente per tre persone.
Matt si era avventato sull’ennesima birra della serata, forse con la segreta speranza di perdere coscienza ma subito sentì un vago senso di insoddisfatta sete mentre finiva di tracannare i suoi cinquanta centilitri.
Girò la sedia, in direzione del frigo, le spalle al tavolo, mentre osservava Brian che lo scrutava pensoso, appoggiato con un palmo al ripiano della cucina mentre sorseggiava la sua di birra, troppo ghiacciata per i suoi gusti, trattenendola in bocca per mandarla giù tiepida.
 Ignorò la muta preghiera dell’ospite che guardava malinconico la sua bottiglia ancora piena mentre quella di Matt era abbandonata sul tavolo alle sue spalle, pallida e prosciugata.
“Cos’è che dovevi dirmi? Sembrava molto urgente.”
Improvvisamente svuotato di tutte le sue energie Matt aveva avvicinato le ginocchia al petto, mettendo le suole delle scarpe sulla sedia, facendosi piccolo piccolo e Brian non potette non pensare ad un lenzuolo rattrappito. Era accartocciato su sé stesso, pallido e completamente vestito di bianco – Molko si domandava quasi divertito con quale coraggio avevano disegnato un pantalone bianco di tal genere e avevano pensato di venderlo a qualcuno, se non a quell’ idiota patentato, ovviamente –  sotto il quale risaltavano un paio di grosse sneakers nere – quale orrore – .  
“Ho…litigato…con-n…D-dom…”
“E da quando questo è un mio problema?” fece Brian retorico recitando la parte dell’annoiato.
“Non sapevo dove andare!” piagnucolò Matt, stringendo di più le ginocchia al petto mentre vi appoggiava sopra la testa e un ciuffi di capelli elettrizzati si rizzava ancora più su dandogli un’aria da pulcino smarrito, quasi comica.
Brian rispose, con voce dolciastra e paziente, come ci si rivolge ad un bambino, o ad un idiota –come nel caso specifico, pensava–  :
“Potevi magari andare da qualcuno che ti fosse vagamente…amico?” smise il tono ironico e gli ringhiò contro, profondamente irritato “Giù i piedi da quella sedia, Bellamy. È una Kartell”
“No. I miei amici…non capirebbero. Meglio un estraneo”  fu il giudizio lapidario.
Questa volta Brian dette segno di spazientirsi, lasciando andare la birra sul banco accanto a sé, ancora semi piena.
“E fra tutti gli estranei dovevi scegliere proprio me? E…” si trattenne dall’urlargli contro e bisbigliò in tono concitato “Cristo Bellamy, giù i piedi dal mio arredamento!”
Come scottato Matthew lasciò scivolare pesantemente le gambe a terra. Per quanto fosse curvo e piegato su sé stesso era sempre dannatamente lungo.
Poi fece qualcosa che Brian non avrebbe immaginato neppure nei suoi sogni più bizzarri;
scoppiò in singhiozzi, stringendo in modo convulso il volto fra le mani e strofinando il naso che si gonfiava come un palloncino.
Brian era sconvolto, non sapeva che pesci pigliare, improvvisamente tutta quella pantomima che  avevano messo su dal momento in cui si erano conosciuti gli appariva ridicola e fuori luogo.
Non si può dire che conoscesse Matt Bellamy;  ne sapeva abbastanza  –se la memoria non lo ingannava – per farlo guaire come una cagna in calore, ma non si era mai sforzato di scambiarci neanche mezza parola.
Era sempre stato bravo a eludere i discorsi, sfuggevole quando serviva, quando fiutava aria di tempesta, di interminabili discussioni che traboccavano di recriminazioni, di sentimenti delusi, di piagnucolii feriti non appena la sfortunata o lo sfortunato – più raramente, gli uomini erano meno sentimentali e soprattutto non lanciavano piatti né urlavano con voce stridula – si accorgevano di quanto il loro amore fosse unilaterale e fatalmente malriposto.
Ciò accadeva sistematicamente quando Brian Molko, per una volta – più di una volta – derogava alla solita regola dell’ “usa e getta”.
Non perché lui fosse così affascinante da conquistare l’umanità intera – cosa che però , in un modo o nell’altro, accadeva – , semplicemente perché l’umanità che si portava a letto più di una volta finiva  – inspiegabilmente – per illudersi al terzo appuntamento e credeva di aver trovato in lui il suo compagno di vita.
Quanto a lui i trent’anni  gli avevano decisamente giovato;  aveva imparato a tenere una relazione a distanza, fra persone adulte che era durata più a lungo di quanto si sarebbe mai aspettato, si stava specializzando nel ruolo di padre single ma la sua più grande conquista era la flemma con cui si concedeva qualche innocua avventura ogni qual volta che Rebecca Keynes, sua compagna da quasi tre anni, era in viaggio per qualche avventuroso reportage in giro per il mondo.
Per ora non aveva fastidiosi sensi di colpa, certo che, dall’altro lato, avveniva una cosa analoga quando lui era via.
La parentesi con Bellamy invece era un argomento scottante, uno di quei cedimenti di cui non andava  fiero perché – oggettivamente –  era terribilmente difficile essere freddi e ragionevoli con Bellamy.
E adesso quello era lì, a piangere a dirotto sulla sua spalla, cercando conforto perché aveva bisticciato con il suo batterista.
Era profondamente irritante. Non rispettava i ruoli e non seguiva le regole del gioco, del suo gioco, sempre scrupolosamente attese con cura.  – Altrimenti non sarebbe qui –  concluse, seccato.
“Bellam-” cominciò, paziente.
“LA VUOI PIANTARE DI CHIAMARMI COSI’ ?!” ruggì Matt, sollevando il capo con un gesto secco e improvviso, tanto che l’altro trasalì e per poco non fece un salto.
 Brian artigliò il ripiano della cucina come per cercare appoggio e si tirò su, ergendosi in tutta la sua statura, austero e comunque lillipuziano rispetto al collega. Gli sibilò contro, stringendo i pugni  come per infondere veemenza nelle parole:
“Ascoltami bene, coglione. Non so che diamine ci fai qui, alle tre di notte, ti ho pure pagato un  taxi, ti ho invitato a salire a casa mia e ti ho offerto una birra. Il minimo che puoi fare è tapparti quella fottuta bocca o almeno abbassare la voce. Ci sono altri che dormono qui…”
“Non mi chiamare per cognome.”
Adesso Matt lo fissava implorante, con gli occhi lucidi e arrossati di pianto e per lo strofinio, completamente abbandonato  contro lo schienale della sedia come se gli mancassero le forze.
“hai ragione, sono un coglione. Lo sono sempre stato.” Osservò, mesto.
Brian si rilassò nuovamente, tornando ad appoggiarsi con il bacino alla sua cucina, quasi rassicurato dal ripiano freddo di metallo argenteo e avveniristico che gli intorpidiva le vertebre.
Si stava anche troppo caldi con il moderno impianto di riscaldamento che aveva rinnovato proprio quell’estate aspettando un inverno freddo per poterlo inaugurare.
A questo si aggiunse un’altra sorsata fresca di birra che si lasciò scivolare in bocca, schioccando la lingua contro il palato.
“Meglio tardi che mai, Bell…Matthew. Ricordami di accendere un cero a qualunque cosa lassù ti abbia ispirato. Piuttosto…” indicò con il collo della sua bottiglia la birra di Matt che giaceva dimenticata, a seccare dietro di loro.
“Non pensare di venire qui ad ubriacarti. Ti voglio lucido. Prima ti sfoghi, prima te ne vai. Ti voglio fuori di qui in un’oretta, massimo per le cinque e non ho nessuna intenzione di riaccompagnarti a casa. Dopotutto…” sottolineò con uno sguardo penetrante “noi non siamo amici.”
Matt annuì , poco convinto, giusto per farlo contento e Molko sospirò, recuperò una sedia e si accomodò, discreto, in silenzio, con atteggiamento da psicanalista consumato – eppure non si può dire che gli capitasse così spesso, semmai con gli altri accadeva il contrario –  e attese.
“Stamattina, anzi, ieri mattina, sono tornato a casa all’alba e Gaia mi aspettava. Voleva spiegazioni.
Voleva sapere perché due giorni fa avevo annullato la prenotazione del mio volo per Milano, perché non le avevo detto nulla anzi le avevo mentito dicendo che lo avevo perso.
Non me lo aspettavo. Lei ha cominciato a lamentarsi che la tradivo, che non l’amavo, che non l’avevo mai amato ed ero solo uno stronzo senza cuore. E io…”  prendeva coraggio a poco a poco, fissando la credenza con uno strano ipnotico interesse come se si attaccasse disperatamente alla visione del laminato della cucina.
“Ho mentito di nuovo. Le ho detto che Dom aveva bisogno di me, che stava avendo dei seri problemi con la coca e io ero preoccupato per il mio migliore amico e blablabla. Lei sembrava essersi addolcita. Mi ha chiesto scusa, mi ha chiamato ‘pasticcino mio’  ”  Brian aveva ridacchiato sotto i baffi, stiracchiando la schiena  “e ha promesso che mi  avrebbe mandato qualche fotografia da Como e mi avrebbe chiamato tutti i giorni.”
“Tutto a meraviglia insomma. L’apoteosi della mogliettina.”
Matt ignorò il tono ironico dell’altro e cominciò a tormentare un filo che sporgeva dalla maglietta bianca tirandolo e seguitando a sfilare il tessuto.
“Ma la stronza ha chiamato Chris  per verificare la mia versione dei fatti e lui le ha confermato che stavo dicendo la verità. Le non gli ha creduto, ha sospettato che nascondevo chissà quale tresca con un’altra.  Ha approfittato delle nostre prove, verso le undici del mattino, per frugare in casa mia.
Ha trovato…”  la  voce che aveva resistito più o meno salda fino a quel momento cominciava a rompersi e Matt ingoiava i singhiozzi, deglutendo rumorosamente.
“Ha trovato una serie d-di canzoni.  d’amore.  Che avevo scritto p-per D-dom… quella puttana, ha spifferato tutto… ”
Brian finì per lui, accompagnandosi con un gesto sbrigativo della mano:
“E lui si è sentito ferito nel suo orgoglio maschio, ti ha guardato con disgusto e ti ha mollato un pugno.
Ti ha piantato lì, come un cretino, e ti ha detto di non farti vedere mai più, che con lui avevi chiuso per sempre. E magari… ” si lasciò scappare un sorriso davanti ad un  Matt Bellamy, ferito e sotto shock.
“magari ha anche minacciato, più o meno velatamente di uscire dal gruppo.”
Il frontman dei Muse si riscosse quasi subito e con occhi minatori replicò brusco:
“Chi te lo ha detto?”
“Psicologia da manuale. Bene o male tutti gli uomini reagiscono così.
Etero, intendo” precisò beffardo.
“In fondo lo hai offeso, in un certo senso” continuò con una punta di amarezza  “hai pensato, anche solo per un istante che lui potesse essere frocio come lo sei tu.
Quando si sarà riavuto…” si guardò le unghie ignorando, serafico, le occhiate assassine del compagno  “andrà a raccontare in giro che Matt Bellamy è una checca, che ogni volta che ti rinchiudi in un bagno per pisciare e finisci per farti una sega il tuo amato Dom è il tuo primo pensiero.
“Sei disgustoso”
Matt non poté fare a meno di distogliere lo sguardo davanti all’espressione eloquente dell’altro che sembrava gridare  ‘figurati se non lo hai mai fatto’.
Seguì un momento di silenzio, affannosa tensione da parte di Matt, pigra attesa da parte di Brian.
L’aria era ovattata, gli infissi in PVC  tenevano fuori gli insistenti rumori di strada, due piani più sotto, si sentì solo l’eco stridulo di un’ambulanza.
Brian pensò che doveva ricordarsi di mettere un orologio in cucina e osservava di sfuggita lo sfondo scuro della finestra tirando ad indovinare quanto tempo fosse passato  
– Una mezz’oretta… o di più? No, poco più di un quarto d’ora. –
“Sono un coglione, sono un coglione, sono un coglione” cantilenò Matt con voce stridula e piagnucolosa.
“Già. Ad ogni modo, credevo che tu scrivessi solo di complotti interstellari e catastrofi inesorabili. Come ha fatto la tua italiana a pensare che quelle canzoni non fossero dedicate a lei?”
Matt arrossì e a Brian sembrò uno studentello alla sua prima cotta. Si ritrovò a constatare, distrattamente, che Bellamy era piuttosto carino, anche così, gonfio, rosso come un gambero, il naso due volte più grosso e le narici arrotondate, solchi neri sotto gli occhi simili a profonde occhiaie e le labbra umide e piacevolmente rosee. Grondava lacrime salate come uno scoglio perennemente zuppo sulla costa salmastra  – La prossima volta che voleva compagnia ci avrebbe fatto un pensiero –
“Ho accennato a qualche piccolo episodio divertente di quando stavamo a Teignmouth, come quando ci arrampicammo su un albero, io caddi e mi ruppi una gamba e Dom mi stette vicino tutta l’estate, mollando persino la sua ragazza dell’epoca perché era gelosa di me, il suo migliore amico.
O quando rubammo mezzo chilo di gelato, io fui scoperto e lui, non ho mai capito perché, uscì allo scoperto e si addossò tutta la colpa, e…”  tacque intimidito davanti ad un sopracciglio inarcato del suo interlocutore, decisamente perplesso.
“Non vedo il punto. Come diavolo faceva Gaia a sapere che tu e Howard cadevate dagli alberi e vi facevate beccare a rubare gelati?”  commentò Brian ponendo l’accento sulle ultime parole come se trovasse assurdo il desiderio di appollaiarsi su di un albero, a metri e metri dal suolo  – già volare in aereo, cosa a cui il suo lavoro lo costringeva, gli era intollerabile, figuriamoci osservare il vuoto dall’alto. Le sue case erano sempre ai primi piani e non c’erano mai balconi – ;
 oppure peggio, rimpinzarsi di gelato  – lui che aveva sempre mangiato lo stretto indispensabile e senza  nemmeno grande gusto –
“Beh, erano i nostri racconti preferiti. E poi non avrei mai pensato che quella puttana frugasse fra le mie cose. Nessuno lo aveva mai fatto prima di lei, nessuno aveva mai osato entrare in camera mia anche solo per rifare il letto, spolverare e rimettere a posto le mensole o spazzare il pavimento senza il mio permesso, neanche mia madre!” tacque indignato.
Brian arricciò il naso, infastidito al pensiero:  “E poi dici a me che sono disgustoso.
In casa mia era normale amministrazione Bell- Matthew. In ogni caso, persino quando sono andato a vivere con Helena che è sempre stata la discrezione in persona, non ho mai lasciato in giro le mie cose… non quelle importanti ” insinuò ma l’altro non colse la frecciatina.
“Helena, tua moglie?”
“Non è mai stata mia moglie” gli ricordò quieto e ancora una volta Matt non colse la punta di fastidio nel tono.  
Un’altra caratteristica di Bellamy:  non coglieva le sfumature.
La cosa in realtà era quanto mai frequente negli uomini anche se Bellamy era piuttosto ottuso per essere un uomo, anzi un essere umano in generale. Si perdeva in pensieri misteriosi e poi non ragionava sulle cose più semplici e ovvie, era capace di perversi psicologismi a vuoto e poi non comprendeva banali meccanismi che governavano la mente delle persone.  Era proprio ottuso. O forse era un genio incompreso, con una scarsissima intelligenza emotiva, avrebbe detto Goleman*.
“E come sta tuo figlio?”
“Bene. È di là che dorme.”  Registrò pazientemente il tono indifferente dell’altro;  chiaramente aveva chiesto a vuoto, non gliene fregava niente della risposta.
Subito dopo Matt domandò, improvvisamente agitato e speranzoso:
“Hai una sigaretta?”
“Sto smettendo.”
Lo vide riaccasciarsi sulla sedia,  inumidirsi le labbra come aveva fatto lui tante volte, con la gola secca e il desiderio bruciante, al limite della sopportazione, di un po’ di fumo che gli impregnasse la lingua e mettesse a tacere la sua “sete”.
“Gaia mi ha lasciato.”
Brian annuì meccanicamente. Cominciava a chiedersi cosa ci facessero loro due seduti nella sua cucina  – a fare cosa poi? Lui faceva il confessore e Bellamy gli svelava i retroscena della sua banale vita sentimentale –
C’era qualcosa di terribilmente strano, sbagliato, assurdo in tutto quello.
“Cosa devo fare, Brian?”
Matt gli puntò addosso i suoi occhi impietosi, chiari e opachi come una pozzanghera grigia.
Era venuto per questo? Per chiedere consiglio? A lui?
Era più ridicolo di quanto pensasse. Lui, Brian, non aveva mai risolto niente in vita sua.
Aveva lasciato che i suoi problemi crescessero, mettessero radici e ramificassero in un’intricata foresta di spine, che le incomprensioni si ingigantissero, che la commedia degli equivoci andasse avanti in quel clima di sostanziale ambiguità in cui le maglie degli inganni si allargano;   e si allargavano tanto fino ad inghiottirlo.   Aveva sempre trascinato qualcuno con sé  mentre soccombeva sotto il peso delle angosce, delle cose non dette, dei discorsi non affrontati, nutrendo la segreta sicurezza che quel qualcuno  fosse abbastanza forte e tremendamente masochista da recuperarlo dal baratro in cui si era cacciato e riscagliarlo in superficie.
Steve e l’alcool. Stefan e la cocaina. Helena e gli antidepressivi.
Ecco i tre binomi della sua vita.
Steve aveva trovato a chi affidare quella patata bollente, e alla fine, se ne era andato per sempre. Non avrebbe mai dimenticato il suo sospiro di liberazione mentre quello lasciava la sala prove per l’ultima volta, con la valigia al fianco, sorvegliando la sua batteria che veniva caricata sul furgone dei trasporti.
Helena era fuggita fra le braccia di un altro, in cui aveva cercato conforto e protezione.
Forse l’unica volta in cui l’aveva vista veramente “donna”, non l’elemento forte della coppia, non il pilastro della casa e della sua vita, adesso finalmente lei poteva permettersi di vestire i panni del “sesso debole”.
A Stefan non era rimasto che sperare che il suo uomo, lo spagnolo, avesse pazienza quanto lui, che si abituasse a cogliere lo sconforto negli occhi del suo amato svedese,  a chiedere “si tratta di Brian” con voce neutra e rassegnata, conoscendo troppo bene la risposta.
E Matt Bellamy veniva da lui a chiedere consiglio?
“Tu cosa vuoi fare Matthew?” sostenne apatico lo sguardo del compagno che lo scrutava allibito e preoccupato, come se avesse a che fare con un pazzo.
“Ma è ovvio! Vorrei che Dom mi amasse! Che il gruppo continuasse a funzionare! Che razza di domande fai?!”
“E allora diglielo. Tutto si risolverà. In fondo Howard ti vuole bene.” Assorbì passivamente la delusione di Matt che certo non si aspettava una risposta del genere  – cosa diavolo si aspettava? Un miracolo? –
“Tu lo faresti?”
“No.”  La risposta secca, al limite dell’assurdo, non fece che esasperare Matt ancora di più che si trattenne a stento – per amore di Cody o semplicemente per quieto vivere –  dallo strillare.
“Se fosse stato Stefan cosa avresti fatto?”
– Era un caso perso – pensò Brian mentre gli concedeva un sorriso sardonico:
“Stefan non potrebbe mai abbandonarmi, neanche se volesse provarci.”
Era questo quello che intendeva quando diceva che Bellamy era ottuso.
C’erano alcune cose chiare come il sole: da lui non si poteva sperare di ricevere consigli.
E poi c’erano le sfumature; nella sua totale negazione Bellamy non aveva nemmeno lontanamente percepito il doppio filo che lo legava ad Olsdal  – D’altra parte perché avrebbe dovuto? –
Anzi, era più che comprensibile considerando che si erano frequentati il meno possibile quando non si trattava di innocui divertimenti dal sapore peccaminoso  – in barba ai media e alla loro leggendaria rivalità –  o comunque di natura meccanica  – si, qualche volta gli capitava di pensare al sesso anche in questa maniera  –
Grazie al cielo Matthew non era così idiota:  non si può cavar sangue da una rapa avrebbe detto nonna Bellamy, un’innocente estrosa vecchietta che aveva sempre ragione.
Quindi smise di chiedere e pretendere risposte.
Sembrò farsi strada in lui la consapevolezza che quell’irruzione in casa di Brian era stata totalmente inutile. Non aveva trovato niente, né un consiglio per  rasserenarsi, né una distrazione per alleviare il dolore.
La tensione fra i due si era sciolta. Non avevano più niente da dirsi.
Matt ironicamente si chiese se per caso era in tempo per rispettare i patti, se non erano già le cinque, orario in cui Brian aveva promesso di cacciarlo di casa. Dando un’occhiata alla finestra ancora buia si disse che era in largo anticipo.
Era stato un parto breve. Ma non aveva dato risultati. Un feto abortito
Osservò Brian alzarsi dalla sedia, avvicinarsi alla finestra della cucina per spalancarla, per cambiare un po’ l’aria che sapeva troppo di viziato, di una lunga discussione sterile e di afa artificiale  – quel benedetto impianto di riscaldamento –
Era una finestra al secondo piano, un po’ anomala, lunga e stretta, che tagliava le gambe al moro facendolo apparire ancora più basso e si estendeva in verticale come quelle delle cattedrali gotiche.
E in quel momento, mentre Molko apriva la finestra, Matt si disse che non era giusto; lui era venuto lì almeno per avere una distrazione e la avrebbe avuta.
In fondo non erano ancora le cinque, aveva tempo.
Si mosse silenziosamente dietro alla figuretta di Brian sovrastandolo, senza che quello se ne accorgesse, e appoggiò le mani sui suoi fianchi, con movimenti delicati, ma decisi.
Lo sentì trasalire, le sue mani erano fredde, stranamente gelide per uno che fino a qualche minuto fa si sentiva avvampare il volto.
E la pelle sotto le sue carezze, liscia e tonica nonostante l’età, sotto quella magliettona sformata, era incredibilmente calda per uno che sembrava sempre così gelido.
Sollevò il cotone che scendeva parecchio, almeno di venti centimetri, sfiorando tremante il fondoschiena e seguendo la linea delle vertebre che si nascondeva sotto la pelle, solleticandole con carezze languide, desiderando baciarle una per una.
Sotto il suo tocco Brian era rigido, preso di sorpresa e gli si erano drizzati i peletti sulla nuca, cosa che fece eccitare ancora di più Matthew.
“ Bellamy, cosa fa… !”
Matt gli si strinse addosso, pressandolo contro la finestra aperta e questi trattenne il respiro  bruscamente.
Fitte di paura attraversavano lo stomaco contratto, gli girava la testa mentre fissava il vuoto, quei otto o nove metri che lo separavano dall’asfalto e che gli sembravano un buco infernale contro cui Matt lo stava spingendo. Questi da parte sua si beava della tensione del compagno, avendola scambiata per desiderio.
Suo malgrado, preso dal panico, Brian si era stretto a lui con tutte le sue forze cercando di arretrare ma l’altro sembrava più forte e ancora più eccitato, lo aveva preso per un gioco.
Si strusciava sulle sue natiche, gli cingeva il petto con le braccia tendendo il tessuto della maglia, attorcigliandolo lentamente, godendo nel palpare i muscoli tesi per il terrore e l’angoscia del vuoto, accarezzava i capezzoli che si intorpidivano sotto le sue lunghe  dita da pianista.
Tuffò il naso nel suo collo, aspirando un profumo indefinito, acqua di colonia e sudore freddo, mischiato all’odore delle carni, dolciastro fino al disgusto.
Il suo corpo oblungo aderì alla schiena dell’altro, inarcata, nel disperato tentativo di allontanarsi dalla finestra.
“Matt…è… a-alto…io...cado-o…” fu il sussurro strozzato di Brian che teneva gli occhi serrati e cominciava a mordersi il labbro convulsamente, adesso aggrappandosi disperatamente a Bellamy e pregando che il vuoto non li inghiottisse entrambi.
Grosse gocce di sudore gli scivolavano sul collo e Matt prese a leccarle con ingordigia, incapace di intendere e di volere altro che non fosse quella brama che gli consumava il cervello.
Alitò affannosamente nel suo orecchio, inumidendo il padiglione auricolare e penetrandolo con la lingua:
“Ti voglio” sussurrò roco.
Percepì il respiro di Brian che si era fatto lento e faticoso e ancora una volta interpretò male.
Con uno strattone cercò di togliergli la maglietta ma senza successo: le braccia rigide del cantante dei Placebo non gli consentivano di sfilarla agevolmente.
Questo sbilanciò Brian in avanti che soffocò un urlo in un gemito, incapace di gridare il suo terrore.
Poi si sentì risucchiato indietro e sbattuto senza troppo riguardo su una superficie dura.
La schiena gli doleva per la botta ma il contatto con la “terra” gli restituì il respiro mentre sentiva le gambe penzolare mollemente, quasi flosce. Abbandonò anche le braccia che gli venivano portate sopra la testa mentre un Bellamy impaziente sfilava la maglia e la gettava con rabbia per terra.  
Questi non fece caso al pallore mortale dell’altro ma si attaccò alle sue labbra come una ventosa, rendendogli ancora più arduo il respiro.  
Gli mordicchiò il labbro per un po’ e poi lo lasciò libero di riprendere fiato – più o meno – attaccandosi al suo collo e succhiando voluttuosamente. Con le due mani scendeva inesorabilmente verso il basso e fu questo a risvegliare Brian, la coscienza che Bellamy gli stava sbottonando i pantaloni neri, indugiando sul suo inguine.  Con grande sforzo e con uno scatto, con tutta la forza che riuscì a racimolare lo spinse all’indietro, sbilanciandolo, e quello barcollò per un attimo, poi cadde dal tavolo con un tonfo che echeggiò come un tuono minaccioso in tutta la casa.
“CHE CAZZO FAI?!” gli urlò contro un Matt Bellamy inferocito, le labbra incurvate in una smorfia di dolore per l’ urto .
Ma, nell’agitazione generale, Brian captò un pigolio spaventato proveniente dall’altra stanza.
Respirando profondamente sputò fuori contro Bellamy, risentito:
“Coglione, c’è mio figlio che dorme. E adesso alzati e chiuditi lì” indicando una sorta di ripostiglio per le scope, in fondo alla cucina, semi nascosto dietro al  frigorifero “e poi, appena hai via libera, sparisci”
Brian fece appena in tempo a chiudere lì dentro Matt che comparve sulla soglia della porta un piccolino di appena otto anni, pallido e assonnato.
“Papà! Papà, ho fatto un brutto sogno! E ho sentito un rumore bruttissimo!”  piagnucolò terrorizzato Cody,  con gli occhi azzurri e spalancati, ancora più grandi,  mentre scuoteva violentemente la testa ricciuta, incurvandosi nelle spalle.  Si precipitò verso Brian e abbracciò stretto stretto il suo bacino.
Il padre lo prese subito in braccio e si sentì più sollevato: non voleva spiegare a suo figlio di appena otto anni il gonfiore sospetto sotto la cintola.  Cercò di rassicurarlo, bisbigliando e cullandolo fra le braccia mentre il piccolo affondava il viso nell’incavo del suo collo, cercando protezione.
“Amore, non ti preoccupare, adesso c’è papà con te.” Quasi lo stritolò, profondamente emozionato, mentre il nodo di angoscia si scioglieva con la lentezza esasperante di una candela di cera.
“Papà, ma…perché sei bagnato e senza maglietta? E perché c’era quel rumore prima?”
“Cody, anche papà ha fatto un brutto sogno e ha sudato tantissimo. E quando è uscito a prendere un bicchiere d’acqua in cucina ha sbattuto contro una sedia. Non volevo svegliarti, mi dispiace.”
Il bambino non sembrava molto convinto e cominciava a soffrire la presa del padre che si era fatta soffocante.
“Ma c’era qualcuno…qualcuno che urlava…”
“Io, amore. Mi sono spaventato. Non avevo visto la sedia. Pensavo ancora al mio incubo.”
“Uhm” commentò il piccolo, volgendo lo sguardo alla cucina spoglia come se davvero potesse spuntare fuori qualcun altro.
“Adesso facciamo una cosa. Torniamo a letto, tu mi racconti del tuo sogno e papà ti racconta il suo.
Poi ci addormentiamo vicini vicini così niente e nessuno ci può far male, eh?”
Il sospetto di Cody cedette davanti al sorriso del padre,  luminoso anche se stanco –cominciava a trovarlo pesante – e il bambino annuì mentre Brian lo conduceva in braccio, con qualche difficoltà, in camera.
Matt Bellamy sentì la porta della camera da letto chiudersi con un rumore secco, un segnale.
Imprecando fra sé e sé, si precipitò in salotto e infilò la porta di casa, tirandosela dietro le spalle con violenza,  senza  far troppo caso al rumore sordo dell’acciaio che sbatteva.
Fuori cominciava a schiarire l’alba delle cinque.

 


Things are what they seem,
makes no sense at all
[Burger Queen, Placebo
Without you I’m Nothing, 1998]



Note

* L’intelligenza emotiva è un aspetto dell'intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni.
è stata teorizzata da Daniel Goleman, psicologo statunitense ma anche scrittore e giornalista del New York Time. Goleman cerca di rivalutare l’aspetto psicologico che viene sottovalutato nella definizione di quoziente intellettivo, sostenendo che elementi come la conoscenza e il dominio di sé, l’empatia e la capacità di interazione sociale sono anche essi parte di un’intelligenza, detta appunto emotiva, che può non essere appannaggio di tutti così come l’intelligenza logico-deduttiva o quella creativa.


Angolo dell’autrice

Ok, è andata anche questa.   My first Mollamy.
Sapevo che sarebbe stata una cosa strana, tremendamente tortuosa e soprattutto assolutamente priva di senso, partorita ad un orario improponibile (è il destino di noi scrittori di fanfiction o di qualunque altra cosa, avere le borse sotto gli occhi al mattino <.<) su due soggetti psicolabili e totalmente incapaci di avere un dialogo civile e coerente.
Per quanto possa sembrare una cosa tremendamente deprimente vi assicuro che ero di ottimo umore quando ho finito di scriverla.
Di una cosa mi rammarico: ormai ho abbastanza familiarità con il personaggio di Brian ma Matt mi è alieno, e infatti credo di averlo ridotto solo ad uno stereotipo senza né arte né parte. Diciamo che ho cercato di ispirarmi a tutto quello che ho letto nel fandom targato Mollamy e, per una volta, ho voluto una BellDom unilaterale perché, vi dirò la verità, le BellDom non mi hanno mai ispirato così come il Molsdal (Brian Molko/ Stafan Olsdal, per chi non conoscesse la terminologia tecnica) anche se a quest’ultimo sono più tollerante.
Ci tengo ad aggiungere giusto qualche parola su “Meriggiare pallido e assorto ” di Montale, una lirica assolutamente affascinante che ho voluto pedestremente interpretare nella descrizione. Tipico di questo signore è stata una concezione del vivere un pochino pessimista, una cupa angoscia del vivere, uno stoico rifiuto di ogni forma di consolazione al il male di vivere, una consapevolezza della fragilità dell’uomo in balia di una realtà priva di senso. Perciò vivere è tentare di superare la “muraglia” che lo separa da una qualche soluzione, da una qualche salvezza (di cui però Montale non svela mai la natura), qualcosa che abbia senso, e continuare a seguirla da lontano, non potendo superare i cocci aguzzi che gli squarcerebbero le mani.
C’è una violenza e un senso di impotenza assolutamente affascinanti in quest’immagine.
Chissà se Matt si è sentito così, lasciandosi dietro casa di Brian, all’alba delle cinque del mattino?    

Neal C.
  
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