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Autore: HildaGreen    04/06/2012    2 recensioni
Dopo la morte del padre, Selena, è costretta a cambiare città ma non avrebbe mai pensato di rimpiangere tanto il passato.
Riuscirà a capire il senso della vita, l'importanza degli altri e ad accettare i cambiamenti, inevitabili nella vita di ognuno, in un misto tra sogno e realtà.
Dal 4° capitolo:
Le faceva male lo stomaco, non aveva mai smesso di correre e si trovava davanti al boschetto quando udì due rintocchi e si voltò di scatto. Le sfrecciò davanti una macchina, mentre frugava con lo sguardo alla ricerca di qualcosa. Un altro rintocco, era troppo reale per essere una sua immaginazione, ma forse quello che sentiva non era quello che pensava. Si stava per gettare in strada, ma una forte ventata d’aria ed il clacson di una macchina la fecero indietreggiare. Continuò a fissare un punto qualsiasi e distolse lo sguardo, mentre esitante restava immobile, con una fiamma di speranza ancora viva. Sospirò e, mentre stava per riprendere a camminare, come se provenisse da sotto il suo piede, risuonò ancora il campanello, ma questa volta vide una luce, non quella delle auto, ma due piccoli puntini che galleggiavano nel buio. Non era un gatto.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I fiori della mimosa


 
Le suole delle scarpe strusciavano sul pavimento, battiti fuori tempo, rumori che arrivavano alle orecchie come coperti da ovatta, sempre più spessa e galleggianti nella testa come pigre nuvole nel cielo blu. Sparivano lentamente, li lasciava serpeggiare via e restò indietro, con passi flaccidi, fin quando non si arrese, cadendo a peso morto.
Un tonfo e tutti i rumori cessarono.
 
Tragedia: era giunto il momento del cambio dei posti e lei si trovava tanto bene vicino alla finestra, così poteva guardare il cielo, ma se fosse stata messa più lontana, avrebbe dovuto attraversare la classe con l’imbarazzo addosso. Sembra che i vestiti siano stati inventati per far divertire di più il pudore a metterci a nudo.
Un compagno valeva l’altro, non rivolgeva parola a nessuno e neanche gli altri volevano farlo. È difficile non dire neanche una parola, ma non per lei ed era incredibile pensare che nella sua vecchia scuola passava la ricreazione come una comune ragazza, ma non considerava nessuno come suo vero amico.
Non conosceva neanche il viso dei suoi compagni, ma provò subito antipatia per il viso che le fu accanto, ne aveva intravisto i tratti familiari, ne era sicura, era quello che le aveva parlato vicino alla finestra. Solo per Giulio sentiva un’antipatia a dir poco sprezzante, ma iniziava a sentirla anche ora.
Lui la guardò con un sorriso amichevole. Lei si voltò subito.
Seconda ora, geografia; a Selena piaceva…. per fare scarabocchi, c’erano tutti visi interessanti a cui mettere occhiali, corna e fare sopraccigli uniti. Perfetta era una donna con un sorriso sulle labbra.
«Un apparecchio… originale» commentò il suo compagno.
Lei si limitò a fulminarlo con lo sguardo, tenendo per sé il fatto che quei puntini erano carie. Capiva perfettamente i sentimenti di jigglypuff quando non veniva ascoltato, in quel momento si sentiva proprio una paffuta palla rosa, le salì l’istinto assassino di voler adornare il suo bel visino con dei baffi.
Mentre era tutta assorta a riempire il quaderno con scritte degne di un artista di strada, un trillo le rimbombò nella testa, assieme al rumore delle sedie che strusciavano sul pavimento.
Sollevò la testa, era arrivato il momento di attraversare quel campo minato. Forse avrebbe fatto meglio a restare lì, alla fine della ricreazione avrebbe dovuto tornare al posto, ma, come un soldato il guerra, si fece coraggio e attraversò il campo di battaglia, senza scordare di guardarsi attorno guardinga. Quando fu alla finestra, ogni preoccupazione si dileguò e fissò la monotonia di sempre. Cercò conforto passando le dita sul termosifone ma era spento, non riusciva proprio ad accettare il sole smorto che c’era, voleva la sua città, voleva il caldo. Voleva che i platani lungo le strade diventassero alberi di ibisco, che ogni cosa si disfacesse, divenendo fine sabbia e che la pioggia si riunisse una distesa senza fine.
Si morse le labbra, respirando profondamente, voleva essere fuori, per unire le sue lacrime salate, a quelle insipide della pioggia. La struggeva un grido che sentiva dentro, voleva liberarlo, gridare con tutta la voce che aveva, fino a non averne più, infondo non ne aveva nemmeno bisogno se non c’era nessuno che l’ascoltava.
«Per favore… per favore nebbia, portami con te quando ti dissolverai!» Questo le sembrò di urlare, ma era ancora lì, inerme. «Maledizione.»
Da dove arrivava tutta quella nostalgia. Si pentì subito, rimproverandosi severamente, per aver quasi ceduto alla voglia di piangere, non le era permesso.
«De Luca…»
Rimase impassibile, non voleva voltarsi in quello stato e si strofinò velocemente gli occhi. Costrinse la professoressa ad andare da lei.
«Selena… so che nell’altra scuola avevi buoni voti, anche alti… ora non arrivi neanche alla sufficienza. Qual è il problema? Ti senti esclusa… posso capirti…»
«No che non può» la interruppe gelida, non voleva sentire tutto quell’inutile discorso.
La donna appariva parecchio confusa e le sue labbra tremavano leggermente, con versi indecifrabili, ma in fine, abbassò lo sguardo e tornò a sedersi alla cattedra.
Le stava rompendo le scatole e lei si era difesa, ma aveva anche sentito una stretta al cuore, per quante volte lo facesse, non era abituata a “ferire”, non ci provava gusto. Pensò che quella era tutta rabbia e, quale fosse il modo giusto per estirparla, non le importava.
Al suono della campanella tornò al proprio posto, come una pecora torna nell’ovile. Era proprio come se intorno a lei si vedesse un alone nero e guardandola sembrava che la temperatura scendesse sotto zero, fino al gelo della Siberia.
Ora di religione, era sinonimo di “non far nulla” e giocava a vantaggio di Selena la professoressa che diceva: se volete seguite altrimenti non rompete l’anima a chi vuole seguire.
Il libro sparava solo tante cavolate, specialmente sulla famiglia, tutte balle.
Ma si, dai! Andiamo fino in fondo!è quello che disse un’ingenua quattordicenne, ma non lo pensava realmente, si stava solo autoconvincendo, non poteva tornare indietro quando i suoi genitori lo seppero, erano tradizionali, contro l’aborto.
Era stata la follia di una cotta passeggera, a quell’età si pensa sempre eccolo, finalmente, il vero amore! e quella romanticona non era certo un’eccezione.
Era un pianeta, che girava intorno ad un caldo sole, che la bruciava, la bruciava sempre di più. Girando, è inciampata nella sua orbita e quel raggio era davanti a lei, proteso come una mano e lo afferrò senza alcuna esitazione.
Troppo tardi capì e il frutto del suo errore le avrebbe rovinato la vita, è mia sorella, diceva.
Nel libro ci scrivono sciocchezze, sopratutto quella domanda: per quale motivo sono nata? Già… perché? Perché mia madre ha deciso di andare a letto con un mezzo sconosciuto. Tutto qui.
 
Cambiare a volte non significa farlo in meglio; di errori Selena ne aveva fatti, lo sapeva, ma chi se ne frega la sua vita era inutile, come un’insignificante camelia, tsubaki, il fiore senza profumo.
Era questo che era sempre stata, una camelia e, per un attimo, aveva creduto davvero di essere un bel fiore, i suoi petali avevano quasi raggiunto il cielo. Il freddo dell’asfalto, sembrava salire, come se stesse per imprigionarla, le mancava l’aria, cancellava ogni sensazione, ogni consapevolezza che aveva raggiunto, insieme a quella più intensa di essere viva. Un freddo che congelava ricordi, tempo ed ogni più vivida sensazione.
Alla fine, le scese una lacrima.
Un suono si faceva più distante, fino a scomparire in un cupo silenzio, ma in fine rimbalzò indietro, divenendo un colpo violento, sempre più forte, mentre il buio si dissipava.
«Che ci fai qui?» Chiese, senza lasciare spazio ad un saluto.
«Le ho portato la colazione» rispose la donna.
«A letto… E smettila di darmi del lei, mi irrita!»
«In questi ultimi tempi è molto dimagrita… forse è per colpa dei suoi… tuoi fratelli… non so ti senti oppressa.»
«Quegli idioti non sono miei fratelli…»
«In ogni caso, penso che mangerai meglio qui, da sola.»
La filippina uscì dalla stanza e la ragazza si alzò, contemplando il vassoio sulla scrivania, ma non ci pensò più di tanto, prima di infilare più di metà di quella roba in un tovagliolo. Le doleva lo stomaco per quel che faceva, ma era appagata dall’orgoglio, era davvero felice del suo sacrificio.
Uscire non fu altrettanto facile, in quel castello c’era una vera e propria dittatura, non c’era diritto di parola o altro, e a capo, ovviamente c’era Giulio. Selena era diventata l’ultima della gerarchia, superata dalla filippina e, per stare con bestie come Giulio, l’avrebbero dovuta pagare molto, molto di più, tanto alla madre i soldi non mancavano di sicuro, ma li riservava per inutili abiti firmati, zaini firmati, astucci firmati… Selena vestiva con gli abiti presi da Vale al mercato e le andavano benissimo, non ci trovava nulla di bello in abiti firmati, costavano tanto e non erano nemmeno chissà ché.
Attraversò la strada a grandi passi e fu subito al campetto vicino casa, trovando ad aspettarla, fra gli arbusti di mimosa, Philia.
La salutò con voce allegra, sorridendo, poi si piegò su di lei prendendo il tovagliolo.
«Immagino che metà del mio cibo non basti… Scusami!» Le disse.
Quando si trovava lì era più felice di quanto non lo era stata mai in quello schifo di paese e neanche da quando i genitori si erano separati. Dimenticava tutti quei problemi, quegli occhi scuri erano la porta per tutt’altro mondo.
«Non saprei come fare… se non ci fossi tu» ripeteva e resistendo a quella vita solo per andare da lei.
Stava smettendo di ripetere la sera, prima di indursi al sonno, “Vorrei addormentarmi e non svegliarmi più”. Sarebbe stato completamente indolore, una morte insignificante di una vita insignificante.
Da quando era morto suo padre, aveva deciso di essere più forte e spesso questo significava non lasciar passare alcuna emozione, si era chiusa come uno scrigno e, come una chiave, Philia era riuscito ad aprirlo.
 
Era diventato eccessivo il suo sacrificio ed aveva retto anche troppo glielo ripeteva spesso la domestica, l’ultima volta in giardino.
Era domenica e come sempre, le due pesti mancavano ed entrambe avevano fatto l’abitudine alla presenza dell’altra, poiché, per quanto potesse riuscire a restare impassibile, anche Selena aveva bisogno di qualcuno con cui parlare e tuttavia, non era male quella donna.
La ragazza le aveva chiesto di andare in giardino con lei e si prese la libertà di piantare dei semi, premura che usava solamente con Philia.
«Va bene metterle qui?» Chiese, passando da uno sguardo vivo a quello scorbutico di sempre. «Perché mi guardi così?»
«Ho notato che sei dimagrita ancora… va tutto bene?» Domandò l’altra di rimando.
«Allora? Non è successo nulla!»
«Dovresti avere più cura di te stessa.»
Senza farsi notare, sbruffò alzandosi, diretta al campetto.
Il tempo passava con naturalezza ed era questa la cosa più innaturale, dato che in qualche modo Selena era riuscita a concepire una vita diversa da quella precedente, una vita in cui non c’era al centro solo Vale. Era più di un mese che non chiamava e alla ragazza non poteva importare di meno di quel che faceva, esisteva solo lei, Philia… e anche la filippina.
Accettava tutto così come veniva, avrebbe atteso finché il destino non avrebbe deciso di cambiare il suo corso.
Tuttavia, ancora adesso, ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva la pineta arsa e la sabbia fine della spiaggia, sentiva il vento marino soffiarle in viso, odorava sempre un po’ di pesce, ma sapeva solo di casa, di nostalgia e le pizzicavano sempre gli occhi. Le onde erano una sequenza ripetitiva, la schiuma sulle creste, che schizzava sulla riva, quando era piccola, non riusciva a tornare a riva, il mare la trascinava indietro e quella salitella era alta per lei. Preferiva affogare in quel modo che affogarsi ora, con le sue stesse mani.
Focalizzava il faro, dall’altra parte della punta ed il porto dall’altra parte ancora, ripercorreva il Lungomare. Era cambiato ancora? Ma lei ora faceva parte di un altro cambiamento, ma voleva essere ancora partecipe di quel mondo a cui, solo ad ottocento chilometri di distanza scoprì di essere tanto legata.
Per una come lei la mancanza più grande era sicuramente il mare e quando mai, nella sua città, era riuscita a vedere della nebbia. Non aveva mai percorso tante salite e discese, nel luogo a cui apparteneva, era tutto piatto… piatto come il mare quando era calmo.
Rievocava le notti di quando rivolgeva lo sguardo al cielo per guardare le stelle cadenti, magari con una granita, anche quelle le mancavano, persino le pale del vento, guardarle trasmettevano quiete, giravano all’unisono come girandole, alte sulla montagna.
Non dimenticava neanche la Sila, quando c’era stata con Vale e suo padre… eh si, anche di lui sentiva la mancanza.
Tutto questo le aveva stravolto la vita, come se all’improvviso le fosse stato tolto il terreno da sotto i piedi e la risalita fosse ancora parecchio lontana.
 
Philia scodinzolò con la sua coda a frusta, ormai sapeva l’ora il cui aspettarla, come la volpe del Piccolo Principe e divideva con lei il suo cibo e, quell’esile vita si era rinvigorita e l’animale era anche più vispo. Aveva preso quel che era stato tolto alla ragazza, che non aveva neanche più fame, si era abituata alla sensazione di vuoto di quando non si mangia, perché il corpo si adatta facilmente, ma aveva ancora freddo, aveva iniziato a mettere abiti pesanti fin dal primo giorno che si trovava lì.
Chissà com’era il tempo nel meridione…
Le nuvole si addensavano, lottavano per un posto nel cielo… loro ci provavano, lei non lottava per ottenere un posto nel mondo e non si aspettava che qualcuno glielo desse, la sua esistenza era misera ed insignificante.
La mimosa non era fiorita, non lo era certo in inverno, ma giù, nel sud, i fiori iniziavano a comparire già a Natale. Non c’era neanche il fucsia della bouganville, il rosa dell’oleandro e il lilla dell’ibisco.
Philia non aveva nulla a che fare con quel luogo, però, in quegli occhi profondi si perdeva e divagava per le vie strette, fra i muri grigi ed il frastuono del traffico era distante. C’era il porto, il molo, le navi, le stridio dei gabbiano e l’odore di pesce, che non le era sembrato mai così buono, perché soffocato dalla nostalgia.
Le si appannarono gli occhi e nacque una lacrima, con una scia che collegava una semplice emozione al corpo.
L’animale la guardava e piegò la testa di lato, come se non capisse e fece un verso squillante, quasi le chiedesse come stava. Le dita di Selena si erano irrigidite e si decise ad asciugare le lacrime col dorso della mano.
Chiese scusa all’amica con un sorriso forzato, mentre l’altra mise il muso sotto la sua mano e, con la minuscola lingua ispida la leccò.
Poteva percepire un calore non equivalente alla taglia di Philia, ma a quella del suo cuore, lasciava fluire dentro di lei emozioni, scaturiva in lei delle reazioni, come se aprisse una scatola piena. Era bello, anche quella nostalgia era bella, perché la faceva sentire ancora legata alla sua città.
Non era da lei non fare i compiti e prendere brutti voti, qualcuno la chiamava secchiona, ma non aveva mai studiato, era una di quelle a cui bastava sentire –anche se durante la lezione disegnava- l’insegnante per memorizzare.
“Quella” d’italiano poi, sembrava persino aver paura di lei, era quasi come Don Abbondio dei promessi sposi, una volontà debole, era alle prime armi. C’era chi cercava di farla studiare, le metteva note, le faceva noiose prediche, ma non serviva a niente si era sempre dimostrata più testarda di loro, dimostrando quel che era, “capatosta”, tipica della sua regione.
Piazzata nel centro Italia era una calamita messa nel senso sbagliato e respingeva tutti gli altri.
Un ricordo, un colpo, una stilettata dritta al cuore e gravava su ogni passo, sempre più lento, sempre più lento, strusciando sul legno del pavimento. Era una corsa quella, che non aveva mai vinto. Vedeva gli altri distanti, sola, come in deserto, tanta sabbia senza mare… il mare. Il blu, il lilla il fucsia, il giallo della mimosa… la mimosa, non era ancora fiorita.
Di colpo, l’immagine di fiori gialli svanì e il tempo sembrò sospendersi, ogni suono si dissolse nella palestra, gli sguardi erano uniti da un solo punto, mentre il sangue sembrava gelarsi nelle vene.
Il corpo della ragazza si trovava disteso a terra, immobile e non dava segno di vita.
Per la scuola circolarono presto le voci della ragazza morta in palestra, per questo il giorno del suo ritorno tutti gli occhi erano puntati su di lei ma faceva finta di non notarlo, ma quando insistevano troppo li fulminava con lo sguardo, ma c’era anche qualcosa di morto in quell’espressione.
Si può… soffrire di nostalgia?
 
«Mi sento sollevata… mi sono preoccupata veramente» disse Vale.
«Si…» rispose l’altra senza ascoltare.
Si capiva che era stata in ansia… chiamando dopo quattro giorni, ma la figlia non volle dirle nulla, litigare ancora era un colpo in più da subire in quei giorni. Le stavano tutti addosso, chiedendole svariate domande, anche le più idiote.
«Mangia di più, mi hanno detto che è successo perché sei debole…»
“Continua così, crepa, almeno non dovrò vergognarmi di te!” era quello che arrivava a Selena, storpiando ogni parola.
«Si, certo…» rispose premendo il pulsante rosso appena sentì Vale salutarla.
Contaci… pensò gettandosi sul letto a peso morto. Le finestre erano chiuse e le tende aperte, ma la luce arrivava tra le persiane, si disegnava sul muro e la polvere si vedeva a tratti, galleggiare incantata.
C’era qualcosa che le dava da pensare che, per un po’ emarginò le immagini della sua città, un evento proprio di quelle mattine passate fra domande idiote.
«Volete smetterla?!» intervenne giusto in tempo il suo compagno di classe, senza far capire di aver visto gli occhi lucidi della compagna.
Era uno di quelli che tutti rispettano, una specie di capo clan, anche senza il bisogno di essere volgare e strafottente, aveva una specie di “dono”.
Quando si rimise a sedere, tutti si erano allontanati, giusto al suono che segnava la fine della ricreazione.
Gli era davvero grata, per la prima volta nella sua vita, per quel che ricordasse, era la prima volta che si sentiva in debito con qualcuno, ma l’orgoglio è una specie di dittatore e tutto il resto non conta.



Finalmente sono tornata su Efp, questa è la seconda storia che pubblico in quesot fandom
mi scuso con tutti quelli che seguono le mie storie, è tanto che non pubblico nuovi capitoli, non ho ispirazione e sono un pò impegnata.
Ho scritto questa storia l'anno scorso, l'avevo inviata a una casa editrice ma è troppo corta per essere pubblicata ed ora ho deciso di pubblicarla qui
spero che qualcuno la legga... che vi piacerà. Inoltre, è ambientata nella città in cui abito io, perciò è stato facile esprimere il disprezzo di Selena, odio questo posto
Il luogo nella foto è il campetto vicino casa dove la protagonista va di solito, l'ho presa da internet ma le prossime voglio scattarle direttamente io
Al prissimo capitolo
Tsutsu

  
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