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Autore: My Pride    06/06/2012    5 recensioni
Gli sarebbe mancata l’allegria contagiosa di Rufy, quel suo stupido sugegasa di paglia e i suoi schiamazzi, nonché quella sua bizzarra euforia quando si trattava di cibo; gli sarebbero mancate le bugie di Usopp, il ninja del signore del castello, e quel suo atteggiarsi a grande guerriero, sebbene lo sapesse l’intero villaggio che fosse in realtà un fifone nato; e anche Nami, Robin, il Dottore dal naso blu e tutta la gente che aveva conosciuto durante quella sua lunga permanenza e... gli sarebbe mancato da morire anche quell’idiota di un cuoco, maledizione.
«Sai quanto odi gli sprechi di cibo. Terrò da parte degli onigiri per te... quindi vedi di tornare a riprenderli, se non vuoi che ti prenda a calci in culo»
«Lo farò. Promesso»
[ Seconda classificata al contest «Scegliete il vostro Japan Menù» indetto da Airo Pearl ]
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Drakul Mihawk | Coppie: Sanji/Zoro
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'My Shitty (Pervert) Cook'
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There isn't a last chance
[ Seconda classificata al contest «Scegliete il vostro Japan Menù» indetto da Airo Pearl ]

Titolo:
 
There isn’t a last chance when the sunset falls
Autore: My Pride
Fandom: One Piece
Tipologia: One-shot [ 3694 parole [info]fiumidiparole ]
Menù: - Onigiri › Bianco: rating a scelta
- Yakisoba › Genere: avventura
- Chawan mushi › Avvertimento: movieverse
- Gyuunyuukan › Lunghezza: one-shot
Personaggi: Roronoa Zoro, Black-Leg Sanji, Mugiwara
Rating: Arancione
Genere: Generale, Storico, Avventura, Drammatico, Malinconico, Vagamente Introspettivo
Avvertimenti: Shounen ai, Linguaggio a tratti un po’ colorito, Movieverse, Angst, What if?
Ideal Good 10&Lode: #09. Vita


ONE PIECE © 1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.


[ Fra desolati campi ti accingi a passare, solitaria brezza del cambiamento ]

    Non era mai stato un tipo abitudinario, lui.
    Prima di capitare in quel villaggio, difatti, Zoro aveva sempre vissuto alla giornata, campando con ciò che riusciva a racimolare dalle offerte fattegli dai popolani dei luoghi che visitava o, se proprio gli andava bene, con qualche pasto poco abbondante in piccole bettole da quattro soldi. Da quando le sue papille gustative avevano assaggiato gli onigiri di quel cuoco biondo che aveva incontrato durante la festa della fioritura dei ciliegi, però, si era reso bizzarramente conto di non poter fare a meno della sua cucina.
    Se il problema fosse stato solamente quello, gli sarebbe bastato andarsene per la sua strada e porre fine ad ogni sotterfugio che si inventava per gironzolare fuori da quella locanda, riprendendo il cammino che aveva interrotto da più di un mese, ormai. Il punto, purtroppo, era che non aveva cominciato a provare interesse solo per la cucina di quello scemo. Era caduto nella sua rete e, alla fine, aveva iniziato a rendersi conto che quell’idiota, in un modo bizzarro che ancora non riusciva a comprendere, gli piaceva. E maledettamente, anche.

    Zoro sospirò e strinse il rosario che portava appeso al collo nella mano destra, come se la sua consistenza potesse in qualche modo rassicurarlo sugli assurdi sentimenti che albergavano nel suo animo. Si concentrò sul raschiare sommesso che i granuli provocavano nello strusciare l’uno contro l’altro, sul colore cremisi che scorgeva con l’occhio buono, lo sguardo nascosto al di sotto dello jingasa [1] che indossava. Doveva decidersi a dargli la notizia e andarsene una volta per tutte, poiché era certo che fosse tutto dannatamente sbagliato e che tergiversare ancora avrebbe solo complicato le cose.
    «Ohi, stupido bonzo». La voce di Sanji gli giunse alle orecchie come un suono ovattato, e Zoro ci mise un po’ a rendersi conto che si era accovacciato dinanzi a lui e aveva cominciato a guardarlo con quel suo occhio ceruleo, più unico che raro, in un paese come quello.
    Scosse il capo e ricambiò lo sguardo del cuoco, lasciando ricadere sul proprio petto il rosario con cui aveva giocherellato fino a quel momento. «Che diavolo ci fai qui, ricciolo?» borbottò, e Sanji, dopo aver sbuffato e gonfiato le guance come un bambino, gli sollevò la testa dello jingasa con una mano, in modo da poterlo osservare meglio in viso.
    «Che diamine ci fai tu qui, piuttosto», sbottò di rimando, sollevando finemente il sopracciglio ben visibile. «Questo è il mio locale, ti ricordo. Qui ci lavoro», ci tenne a precisare, come se fosse più che certo che quell’idiota se lo fosse dimenticato. «Hai intenzione di entrare oppure vuoi startene ancora qui fuori con quell’aria truce? Spaventi i clienti». E nel dir questo accennò rapidamente con il capo all’interno della locanda, dove tre o quattro persone sedute ai tavoli li osservavano di tanto in tanto di sottecchi, come a voler controllare lo strano individuo che si era accampato accanto al muro. «Ordinano qualche piatto al volo, mangiano poco e pagano ancora meno. E Nami-san non ha intenzione di lasciarsi scappare qualche potenziale pollo a causa tua».

    Zoro, a quel dire, si lasciò sfuggire uno sbuffo ilare. «Potrei essere un potenziale pollo anch’io, non ti pare?» rimbeccò sarcastico, e Sanji non poté fare a meno di assumere un’espressione più che scettica prima di scoppiare a ridere.
    «Non dire cazzate, marimo
[2], non hai nemmeno un soldo», sghignazzò, prendendo posto accanto a lui qualche istante dopo. Infilò elegantemente una mano nella manica del kimono e tirò fuori il suo kiseru [3], ignorando volutamente l’occhiataccia che gli venne lanciata da Zoro prima di cominciare a fumare. Il sospiro soddisfatto che uscì dalle sue labbra fu capace di far correre un brivido dietro alla schiena dello spadaccino, che si affrettò a distogliere lo sguardo con un borbottio sconnesso, per quanto avesse perso una manciata di secondi nell’osservare quelle labbra sottili che carezzavano il beccuccio di metallo. E continuò a fissare il cuoco di sottecchi mentre fumava tranquillo, creando di tanto in tanto qualche anello di fumo che si disperdeva nel cielo azzurro sopra di loro, così sgombro di nuvole da sembrare quasi finto.
    Affermare una cosa del genere non sarebbe stato per niente da lui, eppure Zoro, nel continuare a guardare Sanji, non poté fare a meno di perdersi sul movimento di quelle labbra, sul modo in cui aspirava fino in fondo, gonfiando il petto, e sbuffava poi fuori il fumo fra le piegature della bocca, aprendola leggermente e con fare quasi ipnotico. Ancor più assurdo fu il senso di dispiacere che gli attanagliò le viscere non appena il cuoco concluse, alzandosi in piedi per spolverarsi la leggera stoffa nera che gli fasciava dolcemente le gambe snelle e agili. Fu in quel mentre che Sanji abbassò lo sguardo verso di lui e abbozzò un sorriso, regalandogli appena un rapido cenno del capo prima di rientrare e ricominciare il proprio lavoro, lasciandolo ancor più vuoto di quanto non lo fosse stato al principio.
    Zoro imprecò a denti stretti, nascondendosi meglio il viso sotto lo jingasa. Era un dannato idiota. Si era lasciato prendere troppo da quello stupido cuoco e, quando era finalmente giunto il momento, non aveva minimamente aperto bocca. Avrebbe potuto benissimo dirglielo lì fuori, seduto l’uno di fianco all’altro, e si sarebbe evitato silenzi imbarazzanti una volta alzatosi per andarsene per la sua strada. Invece, adesso, gli toccava entrare dentro a quella maledetta locanda e fronteggiarlo. Sospirò e si fece coraggio, picchiettandosi le cosce con entrambe le mani prima di issarsi in piedi e gettare uno sguardo veloce all’insegna. Inutile continuare a piangersi addosso. Doveva farlo e basta. Si decise finalmente ad entrare, facendo vagare distrattamente la propria attenzione all’interno della locanda. I tavoli vicino alla parete destra erano quasi tutti occupati, e gli schiamazzi allegri delle famigliole lì presenti rendevano l’atmosfera ciarliera e tranquilla. Aveva scelto proprio il momento adatto per rovinare la giornata a quello scemo.

    «Cuoco», lo chiamò pacatamente, senza avvicinarsi oltre al bancone dietro al quale si trovava il ragazzo. Lo vedeva trafficare con gesti veloci e sicuri con gli ingredienti e gli utensili, facendo saltare il riso e girando al tempo stesso la zuppa che bolliva sul fuoco; gamberetti e salsa di soia erano stipati accanto al tagliere, e spezie di ogni tipo troneggiavano al di là del piano cottura, pronti per essere utilizzati sul momento.
    Senza che si voltasse, sentì Sanji borbottare distrattamente, «Che diavolo vuoi, marimo? Adesso sono occupato», e a quel dire lo spadaccino sospirò, scuotendo brevemente il capo prima di fare un passo indietro e poggiare una mano sull’elsa della propria katana.
    «Ho scoperto dove si trova Mihawk».
    Bastarono quelle semplici parole a freddare d’un tratto Sanji, che si sentì mancare la terra sotto i piedi. Sapeva che prima o poi sarebbe successo. Sapeva che quell’idiota non sarebbe rimasto per sempre al villaggio, ma... dannazione, aveva costantemente sperato che quel giorno non arrivasse mai. Le sue erano state soltanto illusioni. «Quindi te ne vai, eh». La sua non suonò come una domanda, bensì come un’affermazione, per quanto il suo tono suonasse incrinato e tradisse un certo nervosismo.
    Zoro, però, annuì brevemente, sebbene Sanji gli desse ancora la schiena. Non era esattamente l’addio che si era aspettato, ma di certo non aveva mai nemmeno pensato che quello stupido cuoco lo implorasse in lacrime di restare. E forse era stato molto meglio così. Non avrebbe saputo come affrontare la cosa, se fosse successo, e quella separazione si sarebbe rivelata ancor più straziante di quanto non fosse già in quel momento. «Stammi bene, cuoco».
    «Altrettanto, stupido marimo».
    Zoro non attese oltre, dandogli a sua volta le spalle per dirigersi verso l’uscita, scostando la stoffa leggera appesa allo stipite della porta. I suoi passi risuonarono come un martellio assordante sulla strada sterrata, per quanto intorno a lui udisse le risate e il chiacchiericcio della popolazione. Strano a dirsi, ma persino quei visi sorridenti che scorgeva gli sarebbero mancati. Gli sarebbe mancata l’allegria contagiosa di Rufy, quel suo stupido sugegasa
[4] di paglia e i suoi schiamazzi, nonché quella sua bizzarra euforia quando si trattava di cibo; gli sarebbero mancate le bugie di Usopp, il ninja del signore del castello, e quel suo atteggiarsi a grande guerriero, sebbene lo sapesse l’intero villaggio che fosse in realtà un fifone nato; e anche Nami, Robin, il Dottore dal naso blu e tutta la gente che aveva conosciuto durante quella sua lunga permanenza e... gli sarebbe mancato da morire anche quell’idiota di un cuoco, maledizione.
    «Zoro!» Sussultò nel sentirsi chiamare proprio dalla voce dell’oggetto dei suoi pensieri, sgranando gli occhi nel vederlo correre a perdifiato verso di lui. E adesso cosa diavolo voleva, quell’idiota? Perché aveva lasciato il proprio lavoro per raggiungerlo fin lì? La risposta gli fu ben chiara non appena Sanji gli si fermò dinanzi, squadrandolo attentamente in viso con il suo occhio ceruleo. «Sai quanto odi gli sprechi di cibo», cominciò, drizzando la schiena come se volesse dare maggior vigore a quelle sue parole. «Terrò da parte degli onigiri per te... quindi vedi di tornare a riprenderli, se non vuoi che ti prenda a calci in culo».
    Nel sentirlo, a Zoro parve naturale allungare le braccia verso di lui per cingergli fianchi e spalle, come se volesse attirarlo contro di sé e rassicurarlo al tempo stesso con il calore del proprio corpo, sentendo il cuore battere impazzito contro le pareti della sua gabbia toracica, simile ad una farfalla che sbatteva freneticamente le ali. Che maledetto idiota. Non avrebbe dovuto corrergli dietro come aveva fatto, dannazione. Così gli avrebbe reso tutto più difficile. «Lo farò. Promesso». Le parole fuggirono dalle sue labbra come un fiume in piena, senza che lui potesse fare qualcosa per fermarle, e, dopo il primo momento di smarrimento iniziale, sentì una mano di Sanji aggrapparsi alla corda che teneva legata in vita, la sua fronte poggiata contro la spalla.
    «Vedi di darti una mossa, adesso», rimbeccò poi il cuoco, allontanandolo da sé come se volesse ristabilire le distanze. Se si fosse lasciato andare, per di più dinanzi a quell’idiota, avrebbe di sicuro maledetto se stesso per il resto dei proprio giorni. Gli diede dunque le spalle, ma Zoro fu certo di aver intravisto un velo di rossore tingergli le guance. «E... cerca di non perderti come tuo solito, marimo», soggiunse, ritornando sui propri passi senza voltarsi indietro, celando dentro di sé quel sentimento che sembrava straziargli il petto come una lama a doppio taglio.

 

    La luna si levava già pallida e tonda in quel cielo rosato, stendendo un velo d’ombre e silenzio fra le piccole case di legno. Le fronde dei ciliegi in fiore venivano sferzate dal vento che si levava di tanto in tanto, e che faceva tremare lievemente anche le imposte delle abitazioni. Da quei sobborghi s’udivano solo fruscii, il fremere concitato dell’ora che precedeva la notte si confondeva con i bassi latrati dei cani, forse in giro alla disperata ricerca di cibo; qualche roseo petalo mulinò con le foglie verdi verso i quartieri alti, dove le bianche case dalle tegole di terracotta erano già vivacemente illuminate. Dal loro interno provenivano le allegre risate dei proprietari, il vociare degli ospiti e il suono del Koto [5] che si confondeva in quel clima festivo; attraverso i paraventi di carta si riuscivano a scorgere le loro ombre che danzavano, sinuosi movimenti di corpi fasciati da pregiati kimono dai mille colori.
    Nessuna di quelle anime presenti pareva accorgersi dell’ombra dello spadaccino che sfrecciava aggraziata fra le altre, una figura silenziosa che si confondeva negli spazi bui lasciandosi alle spalle quegli allegri schiamazzi. Correva fra i viottoli nascosti senza il minimo rumore, sorpassando altre case in festa senza nemmeno fermarsi. I suoi passi si mescolavano con il fruscio del vento che spazzava le strade, mentre l’aria cominciava a profumarsi di quel piacevole odore d’umidità che preannunciava imminente pioggia. Si fermò solo quando fu nei pressi d’una lussuosa abitazione che, da dove si trovava, governava la piccola cittadina non molto lontana, dove la popolazione si stava apprestando a rientrare alle proprie abitazioni.
    Fuori le mura erano appostate due guardie, una delle quali stringeva con una mano l’impugnatura d’una lancia. Entrambe si guardavano in giro distratte, quasi svogliate, con un’unica lanterna già pronta per illuminar loro la notte. Parlottavano fra loro, sbadigliando e stiracchiandosi, aspettando il cambio di guardia che sarebbe sicuramente giunto di lì a poco.
    Lo spadaccino, appostato a ridosso del muro di un magazzino poco distante, li osservava con minuziosa attenzione, attendendo il momento propizio per entrare in azione. Il momento della resa dei conti era finalmente giunto, e non poteva mandare tutto all’aria solo per la fretta di farla finita seduta stante. Doveva pazientare come aveva fatto fino a quel momento, raccogliendo tutto il suo stoico auto-controllo per continuare ad essere freddo e concentrato anche durante la battaglia che si prospettava all’orizzonte. Il minimo errore avrebbe solo fatto sì che la morte lo ghermisse fra le sue fredde braccia, e, se fosse stato scoperto prima ancora di raggiungere il suo obiettivo, non avrebbe potuto far nulla per evitare tale sorte. Mihawk era a pochi passi da lui e non poteva permettersi di sbagliare.
    Trasse un lungo sospiro e socchiuse la palpebra, dandosi il coraggio di cui necessitava prima di farsi largo sulla strada sterrata, tenendosi basso e contro il terreno per evitare di essere scorto da occhi indiscreti. In altri momenti non ci avrebbe pensato due volte a sbaragliare i propri avversari e a porre fine alla faccenda, ma sapeva di essere su un terreno che, per lui, era troppo ostile. La caduta della linea di guardie principale avrebbe messo in allerta quelle che si trovavano all’interno del castello, e non era così stupido o altezzoso da credere che avrebbe potuto abbattere ognuno di loro tutto da solo. Ciò che doveva fare adesso era atterrare quelle due guardie poste lì fuori senza attirare troppo l’attenzione, entrando svelto solo quando la via sarebbe stata libera.
    Estrasse una delle katane che portava appese alla cintola e si portò la lama a nascondere un lato del viso, sporgendosi quanto bastava oltre il muro per controllare i movimenti delle guardie e i dintorni. La casa di Mihawk si ergeva oltre il piccolo ponticello in tutta la sua magnificenza, creando una sinistra ombra su ogni punto della zona circostante; il giardino interno profumava d’una moltitudine di fiori, sprizzando opachi colori che in pieno giorno avrebbero di certo rallegrato quel luogo e le lanterne di pietra creavano piccole pozze di luce tremolante che l’avrebbero fatto scoprire seduta stante, se solo si fosse mosso con troppa foga.
    Zoro gettò un altro rapido sguardo all’interno, osservando il fiacco via vai delle guardie e il modo in cui parlottavano distrattamente fra loro, quasi non si aspettassero nessun tipo di attacco durante quelle ore che precedevano il tramonto. Beh, avrebbero dovuto rivedere le loro sicurezze, con lui. Impugnò saldamente l’elsa della propria katana e, senza nemmeno pensarci due volte, si gettò all’attacco, arrivando di soppiatto alle spalle di una delle due guardie. Prima ancora che l’uomo potesse rendersene conto gli tagliò la gola con un colpo netto, recidendo la giugulare mentre un ansito sfuggiva dalle labbra di lui. Il sangue sprizzò macchiando il metallo, e il corpo scivolò senza vita ai suoi piedi nel momento stesso in cui lui catturò con la coda dell’occhio la fugace visione dei volti increduli di altre due guardie poco distanti, prima che la sua lama affondasse senza remore nelle loro carni, squarciando la gola di entrambi in uno sprizzo di sangue e brandelli di stoffa. Annaspanti, li vide riversarsi in terra in una pozza scura che impregnò immediatamente l’erba umida, ma degnò loro solo una breve occhiata prima di ricominciare ad avanzare, superando rapido il ponticello che divideva le due parti del guardino, scattando rapido verso quel quadrato di luce creato da una delle stanze di quella dimora.
    Anche qui poté avvertire i suoni e i profumi della festa che stava avendo luogo, festa in cui quei nobili s’erano gettati a discapito della povera gente, costretta a vivere di stenti nei sobborghi poco lontani. Oltrepassò quegli ennesimi schiamazzi, cercando una strada sicura per poter penetrare in quell’edificio, ma non poté fare a meno di imprecare a denti stretti nel rendersi conto che nemmeno le feritoie sul tetto avrebbero potuto fare al caso suo. La via più rapida era quella di passare per la porta principale, per quanto ciò volesse significare letteralmente il suicidio. Socchiuse l’occhio per un secondo, riflettendo seriamente su quella situazione. Quanti anni erano che stava disperatamente cercando Mihawk, in modo da portare a compimento il proprio sogno? Troppi, davvero troppi, per la sua ragione. E forse fu proprio questo a spingerlo ad entrare in casa, passando di soppiatto dall’entrata delle cucine.
    Il silenzio regnava in ogni dove, e lo spadaccino si stupì non poco nel rendersi conto che non c’era anima viva nel raggio di metri e metri, lì; nessuna donna che si affrettava a rifornire le scorte di Sake per i signorotti presenti, nessuna guardia che pattugliava la zona com’era accaduto nel giardino, né tanto meno i suoni delle risate che aveva udito pocanzi, come se tutto si fosse placato di colpo e fosse svanito nel nulla. Avrebbe dovuto cominciare a credere che qualcosa non quadrasse, forse? Beh, molto probabile. Un’abitazione come quella necessitava di costante protezione, in particolar modo se i suoi abitanti erano anche persone comuni. O credevano così tanto nelle capacità del loro signore da pensare di poter tralasciare il proprio lavoro? Troppe domande che esigevano una risposta, e, se proprio doveva essere sincero con se stesso, non aveva tempo per aspettare che qualcuno dissipasse i suoi dubbi. Avrebbe trovato Mihawk e l’avrebbe affrontato com’era destino. Non era il momento dei ripensamenti, quello.
    Con la katana ben impugnata nel palmo della mano sinistra, Zoro cominciò a perlustrare i dintorni e a tendere le orecchie per poter essere sicuro di scorgere un qualsiasi rumore, attraversando il vasto corridoio in cui si era ritrovato fino a giungere in un’ampia stanza dal soffitto basso, dove sembrava possibile riuscire a toccare le travi del soffitto alzando unicamente un braccio. La luce arancione delle candele creava sinistre ombre sui pannelli di carta, rendendo l’atmosfera ovattata e simile ad un sogno; tele raffiguranti persone o paesaggi erano appese alle pareti laterali, dove ad accostarle si trovavano grandi pergamene spiegate, ricoperte dalle antiche scritture. Svariati tatami e cuscini erano disseminati sul pavimento di legno ricoperto di stuoie, mentre una porta scorrevole poco distante, che portava probabilmente ad una stanza adiacente, era stata lasciata spalancata. A passi moderati e con la katana distesa lungo un fianco raggiunse la soglia, aumentando la presa della mano che stringeva l’elsa. Vide il rapido movimento d’un’ombra provenire dalla stanza in cui si ritrovò subito dopo, facendo guizzare lo sguardo fra il perimetro fiocamente illuminato. Si fece largo nella camera, anch’essa dal pavimento ricoperto di stuoie, sicuro stavolta d’aver udito il distinto suono d’un respiro. Poi il fruscio delle vesti, la metallica e stridente risonanza della lama d’una katana che veniva sfilata dal fodero; ne vide lampeggiare sinistramente la punta prima di ritrovarsi a schivarla, ponendosi di lato con la sua arma ben in pugno per assumere con un unico gesto la posizione d’attacco. E fu solo a quel punto che sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi di falco del suo eterno rivale. Qualche ciuffo di capelli neri era ricaduto a nascondergli parzialmente la fronte, rendendo il suo aspetto ancor più rapace e feroce.
    «Ti attendevo, Roronoa», esordì con voce profonda e pacata, muovendo giusto qualche passo di lato per tenerlo d’occhio. Non mostrava alcun segno di paura, nessuna inclinazione nel tono che stava utilizzando. Poneva solo le sue domande con calma e si muoveva, attento ai movimenti dello spadaccino, che lo fissava a sua volta senza distogliere lo sguardo, esattamente come un serpente che osservava la sua preda. Le lame si sfiorarono quando si mossero in simultanea, provocando un lieve tintinnio metallico prima che entrambi ritornassero in posizione d’attacco con le armi inclinate da un lato e impugnate a due mani.
    «Saprai anche il motivo per cui mi trovo qui, allora», replicò con fermezza Zoro, sfilando dal fodero la sua seconda katana prima di gettarsi all’attacco; le lame di entrambi danzarono in aria, scontrandosi violente fra sibili d’acciaio e sguardi. Un attacco fulmineo, un fendente; le gambe si muovevano ritmicamente seguendo i passi dell’altro, i corpi compivano movenze eguali creando archi invisibili al suono delle armi.
    Zoro si tirò svelto indietro, cercando di parare un fendente ed evitarne un altro, muovendo passi veloci e precisi per schivarli ancora. Imprecò a denti stretti e, roteando il bacino per colpire il proprio avversario con il filo di entrambe le lame, incurvò la schiena e cercò di dare più potenza al suo colpo, contando soprattutto sulla propria forza fisica; Mihawk fu sfortunatamente più veloce di lui, bloccando il suo attacco con il dorso della propria katana prima di indietreggiare di pochi passi, tenendo la distanza dal giovane spadaccino che gli era dinanzi.
    La lama nera di Occhi di Falco calò bruscamente sulla sua spalla, strappandogli i vestiti e lacerandogli la pelle, provocandogli un dolore lancinante. Zoro alzò di colpo lo sguardo su Mihawk e, sollevando una gamba, fu pronto a scagliarsi all’attacco, ma fu interrotto dalla brusca irruzione delle guardie, giunte a proteggere il loro signore. A spade sguainate avevano creato un arco perfetto poco distante da loro, fissandolo senza pietà. «Non muoverti!» esclamò una di loro, facendo sì che sul volto dello spadaccino comparisse un’espressione di consapevolezza. Non ce l’avrebbe fatta, lo sentiva sin dentro le viscere.
    E mentre la punta della lama della sua katana si levava alta nel cielo, rifulgente di un bagliore demoniaco e desiderosa di versare il sangue degli uomini che le si paravano dinanzi, Zoro capì che non avrebbe potuto mantenere la parola data, stavolta. «Mi spiace, cuoco». Sorrise amaramente, impugnando saldamente l’elsa della propria arma prima di abbassare le palpebre e sentire intorno a sé lo stridio furente e sinistro dell’acciaio. «Credo proprio che non potrò più mangiare i tuoi onigiri, dopotutto».  
    Era tutto finito. Probabilmente non ci sarebbe stata una seconda occasione, per lui. Quello che stava calando sarebbe stato il suo ultimo tramonto.









[1] Cappello a cono che portavano i samurai, i viaggiatori o la gente comune; era munito di lacci e strutture interne per poter essere indossato con maggior facilità.

[2] Specie di alga che cresce tipicamente nelle zone del Giappone. È il modo in cui Sanji soprannomina Zoro a causa del colore dei suoi capelli, che richiamano proprio il colore dell’alga marimo.
 
[3] Pipa tradizionale giapponese usata per fumare il kizami, un tipo di tabacco piuttosto fine. Il boccaglio e la vasca sono realizzati in metallo, con un tubo di legno o bambù che li collega fra loro. Giacché ogni kiseru è fondamentalmente una canna con estremità di metallo, nel periodo Edo venivano utilizzati anche come armi dai samurai.

[4] Cappello di paglia dalla forma conica che viene fissato mediante una stringa di tessuto che passa sotto il mento, spesso di seta; all’interno è presente un’altra fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da chi lavora nei campi di riso.

[5] Strumento musicale tradizionale giapponese appartenente alla famiglia della cetra, derivato dal Guzheng cinese. Il corpo dello strumento è costituito da una cassa armonica, lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, costruita, in genere, con legname di Paulownia (Kiri in giapponese). Su di essa corrono tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa tensione, ognuna delle quali poggia su di un ponticello mobile.
Il koto viene paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Per tale motivo le diverse parti di cui esso è formato assumono dei nomi che ricordano quelle del mitico animale.




_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest Scegliete il vostro Japan Menù! indetto da Airo Pearl, nel quale si è classificata seconda
Ero partita con un’idea totalmente diversa, se proprio devo essere sincera, e alla fine è venuta fuori una cosa simile. Adoro tutto ciò che concerne il Giappone feudale, dunque ho provato in qualche modo a rendere quella stessa atmosfera in tutta la storia, prendendo i ruoli che i personaggi hanno in quello Special Tv e catapultandoli in una storia dalle tinte un po’ più drammatiche.
La scelta di concludere in questo modo è stata voluta, poiché sa molto di finale aperto: Zoro in quello scontro potrebbe morire come potrebbe invece sopravvivere e tener fede alla promessa fatta a Sanji, ma sta soltanto al lettore decidere che cosa potrebbe succedere da quel momento in poi.
Non saprei cos’altro aggiungere, dunque spero che la storia sia in qualche modo piaciuta.

Commenti e critiche, ovviamente, sono sempre ben accetti.
Alla prossima. ♥





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