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Autore: Aine Walsh    09/06/2012    2 recensioni
In quella calda giornata di metà Giugno l’aeroporto straboccava di gente da tutte le parti, come se le vacanze estive fossero state anticipate per tutti. C’era chi saliva e chi scendeva dalle scale mobili, chi entrava e usciva dai gate, chi salutava amici e parenti con un «Torno presto» e chi esclamava trionfante «Sono tornato!», chi perdeva tempo passeggiando tra i negozi o sorseggiando qualcosa allo Starbucks e chi si affrettava per paura di non riuscire a prendere il volo, e così via.
Ma posso assicurare che tutti, proprio tutti, erano in compagnia.
Eccetto me, naturalmente.
[...]
Amanda Blair Morris, ventidue anni. Nata da padre americano di Baltimora e madre italiana, da otto anni risiedeva a Roma, Città Eterna, ma era stata invitata dal sottoscritto a trascorrere l’estate negli USA.
Ed era la mia migliore amica.
Genere: Comico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6, prima parte - Amanda
 
Per quanto mi riguarda, il novantanove percento delle volte è il risveglio che decide come mi comporterò durante la giornata, non lo stato d’animo con cui mi sveglio.
Esempio: se il risveglio è brusco, me ne sto incazzata fino all’arrivo del nuovo giorno; se invece il risveglio è calmo e tranquillo, allora sarò la persona più buona e docile di questo mondo.
Ma ovviamente ci sono anche qui delle eccezioni.
«Tanti auguri!» aveva urlato Lex lanciandosi nel letto al mio fianco.
Aprii gli occhi di scatto, col cuore che mi batteva forte nel petto per lo spavento, e osservai la data sul display del cellulare poggiato sul comodino.
15 Luglio.
In Inghilterra si festeggiava il giorno di San Swithin. In ‘casa ATL’ si festeggiavano i miei ventitré anni.
Sorrisi mentre stiravo le braccia contro la spalliera, ringraziandolo con la voce sonnacchiosa. «Te ne sei ricordato».
«A dire il vero no, è stata mia madre a farlo».
«Stronzo» dissi sollevandomi e abbracciandolo.
«Come sempre» rise.
«Ti voglio bene» sussurrai piano. La mia testa era poggiata tra la sua spalla e il suo collo, in modo da poter respirare tutto l’odore caldo e familiare che quel corpo emanava. Mi ricordai che una volta, un po’ di anni prima, avevo respinto un ragazzino perché non aveva lo stesso profumo di Alex.
Gli volevo bene, gliene volevo da quando ne avevo memoria e lo avrei fatto fino a quando ne avrei avuto la facoltà, ma non sempre riuscivo a dimostrarglielo. Si dice che sia normale, per alcuni: più vuoi bene ad una persona e più difficilmente riesci a manifestare il tuo affetto nei suoi confronti. Che gran seccatura.
«Perché ridi? Mi fai il solletico» domandò dopo un po’ sentendo la mia pelle raggrinzarsi contro la sua.
«Perché pensavo…».
«Pensare ti fa ridere?» chiese perplesso.
«Non mi hai fatto finire. Ridevo perché pensavo che magari potremmo stare insieme e staremo anche bene… Però io conosco tutti i tuoi difetti, e quindi la cosa non è nemmeno lontanamente pensabile» conclusi.
Alex si passò una mano fra i capelli con fare lievemente pensieroso. «Sai che l’altro giorno pensavo la stessa cosa?».
Attimo di silenzio.
Imbarazzo.
Un «Odio la telepatia» detto all’unisono senza averne la benché minima intenzione di farlo ci fece scoppiare a ridere.
«Andiamo di là, forza. Il tuo Jack muore dalla voglia di farti gli auguri».
«Il mio Jack, certo» sbuffai mentre mi alzavo dal letto.
Quando spinsi la porta di camera mia e riuscii a vedere il soggiorno, rimasi a dir poco esterrefatta. Non me l’aspettavo e mai l’avrei fatto, ma ne fui davvero molto contenta.
C’erano un festone che attraversava la stanza da parte a parte, dei palloncini e una piccola torta fatta in casa tra le mani di Zack che, proprio come i suoi tre compagni, mi guardava sorridente.
Mi portai le mani agli occhi, commossa. «E’ più di quanto avrei osato pensare» ammisi.
«Tu ci sottovaluti troppo» rise Dawson venendomi incontro.
Sono abituata a sottovalutare le persone per evitare di aspettarmi troppo e restare delusa, avrei voluto rispondere; ma non lo feci e lo ringraziai soltanto.
Anche Jack mi abbracciò: mi prese per le spalle, mi augurò un buon compleanno - e lo sarebbe stato di certo -, mi scompigliò i capelli e si allontanò.
Il mio sguardo cadde sulla torta. Non aveva proprio quello che poteva essere definito un bell’aspetto, ma non sembrava così male.
«Te la darei, ma non sono sicuro del risultato» disse Zachary ridendo, seppur un po’ imbarazzato.
«E’ un modo carino per dire che non ci vuole sulla coscienza. - tradusse Lex - Va’ a vestirti: andiamo a fare colazione fuori».
 
Alex aveva sempre avuto la tendenza a non dirmi dove aveva intenzione di portarmi quando uscivamo; ma che avesse trasmesso questo piacere alternativo anche al resto della band, beh, questa mi suonava proprio nuova.
E così, dopo essere stati in uno degli Starbucks della città e aver mangiato una squisita focaccina ai mirtilli, brancolavo nel buio, non avendo la più pallida idea di dove fossimo diretti.
«Stiamo andando in spiaggia a fare surf?» domandai esasperata dopo una serie di buchi nell’acqua. Il surf era l’unica possibilità rimastami: non andavamo in centro, non ritornavamo a Hollywood e non ritornavamo neppure a Beverly Hills per spiare Leonardo di Caprio o qualcun altro in particolare come avevamo fatto pochi giorni prima io, Jack e Zack.
La risposta fu un bel «No» all’unisono.
Sbuffai e mi lasciai scivolare sul sedile, rassegnata all’idea che nessuno dei quattro mi avrebbe detto ciò che volevo sapere.
«Se te lo dicessimo, probabilmente non l’apprezzeresti così tanto» osservò sapientemente il Dawson alla guida.
«E noi non vogliamo rovinarti la sorpresa» ammiccò Zachary dalla parte opposta alla mia.
«Anche perché non ci teniamo molto a sapere cosa potrebbe fare il Gas qui davanti se dovessimo spifferarti qualcosa», Jack.
Alex rise malefico. «Non sapevo di avere così tanto potere su di voi, ragazzi… Dovrei iniziare a prendere seriamente in considerazione questa cosa…».
Se magari Robert non avesse fatto il giro completo della costa occidentale degli Stati Uniti - cosa che sospettavo gli fosse stata dettata dal cantante per depistarmi -, sarei riuscita a capire da sola dove stessimo andando, senza impiegare troppo tempo forse. Invece non riuscivo per niente a pensare quella che doveva essere la nostra tanto misteriosa e fantomatica meta, anche perché avevo completamente perso il senso dell’orientamento e sembrava proprio che Rian giocasse ad entrare e uscire dalla città per confondermi di più.
Ero ancora buttata contro il sedile in un posizione del tutto innaturale e sicuramente poco femminile - visto e considerato che non me ne stavo dritta come un palo come invece predicano le buone maniere -, quando scorsi un cartello stradale in lontananza e mi sollevai per leggerlo e avere qualche indizio.
Anaheim, 500 metres, c’era scritto.
Anaheim, Anaheim… Iniziai a ripetermi quel nome in testa perché mi ricordava qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa.
Anaheim, Anaheim, Anaheim…
«Oh cazzo! - esclamai di botto - Andiamo a Disneyland!».
Risero tutti, me compresa, mentre Alex commentava allegro: «Ce ne hai messo di tempo, Morris».
Me ne fregai altamente della battuta, troppo felice e contenta per essere in grado di collegare i miei neuroni tra loro e farli pensare a qualcos’altro che non fosse quel meraviglioso parco divertimenti, e dissi: «All Time Low: sanno come rendere felice una donna».
Quando scesi dalla macchina, una volta arrivati, niente e nessuno mi impedì di stritolarli uno per volta, soprattutto Alexander, che credevo essere l’artefice di tutto.
E invece mi sbagliavo.
«Guarda che non è stata una mia idea» disse.
Lo guardai interdetta. «Ah, no?».
«No. Io avevo in mente di fare altro, a dire il vero… E’ tutto merito di Jackie, è stato lui a proporre di venire qui» spiegò.
Questo era troppo, era troppo davvero.
Jack era figo, era simpatico e adesso sapeva pure che avevo un enorme debole per la Disney; una vocina dentro di me non faceva altro che incitarmi a sposarlo quella sera stessa, magari in qualche cappella tutta cuori di Las Vegas.
Non so se più stupita, confusa o contenta, mi voltai a guardarlo e lui mi fece spallucce con mezzo sorriso incastrato tra le labbra, come a dire «Sì, è colpa mia».
Fu un attimo: corsi, spiccai un salto, gli sbattei contro e finimmo stesi a terra, ridendo come quei due idioti che non eravamo altro.
«Dio, non hai idea di come mi senta, - gli dissi mentre afferravo la sua mano per rimettermi in piedi - mi sembra di essere tornata a quando avevo cinque anni!».
«Oh, ma sul serio? Non l’avrei mai detto» rispose sarcastico. Mi passò un braccio per le spalle e raggiungemmo gli altri, già in coda davanti al box.
C’era parecchia gente in fila in attesa di entrare nel parco delle meraviglie e più il tempo passava, più io mi sentivo insofferente e morivo dalla voglia di entrare; una cretina, a dirla tutta. Solo dopo essere riusciti ad entrare, trovandoci nella Main Street U.S.A., mi resi conto di non essere l’unica talmente emozionata da comportarsi come una lattante. E di ciò devo ringraziare enormemente quel bell’imbusto dagli occhi chiari del Merrick, che, in preda all’eccitazione, cominciò a gridare «Buzz Lightyear, Buzz Lightyear! Oddio, l’avete visto?!», trascinandosi via il povero Dawson che rideva come un matto.
Rimanemmo così io, Alex e Jack, immobili sotto una statua del grande Walt Disney che teneva per mano il suo famoso topolino, il tutto circondato da un’aiuola di fiori gialli profumatissimi.
«Allora, - Barakat si sfregò le mani - da dove cominciamo?».
Un’occhiata complice e, ancora una volta, le voci mia e del mio migliore amico si sovrapposero rispondendo «Fantasyland!».
Dopo Fantasyland - dove riuscimmo anche a scattare una foto con il Cappellaio Matto - fu la volta di Mickey’s Toontown e poi di Tomorrowland, dove ci ricongiungemmo con il batterista e il bassista, che aveva smesso di andare in escandescenze.
Mi sentivo proprio una bambina, affascinata e incantata da tutto quello che vedevo e sono sicura di poter affermare la stessa identica cosa anche per i due ragazzi che si trovavano insieme a me in quei momenti.
«E’ tutto assolutamente fantastico» mi lasciai sfuggire ad un tratto, mentre passavamo accanto alla casa di Topolino nella Mickey’s Toontown.
Ci sarebbe veramente tanto da raccontare, come ad esempio la breve esibizione improvvisata dei ragazzi istigati da un pirata-chitarrista nella New Orleans Square, o il giro nella Haunted Maison che proprio non mi andava di fare - forse perché avevo visto un gruppo di bambini in lacrime dopo essere usciti di lì? Non saprei… -, oppure Bassam che si lamentava del fatto di non essere ancora riuscito a trovare Jack Skeletron per fargli ammirare il tatuaggio che aveva sulla spalla.
Qualsiasi cosa facessimo, la facevamo sempre con un sorriso a trentadue denti in viso.
Ad un certo punto, nel pomeriggio, non capii nemmeno come, io e Jack ci ritrovammo soli. Proprio soli soletti. L’aspetto negativo di quella cosa risiedeva nel fatto che io avessi già smaltito gran parte di quella confusionaria gioia che mi aveva temporaneamente offuscato il cervello e che quindi fossi ben in grado, a quel punto, di riprendere possesso delle mie facoltà mentali.
«Quindi… Cosa facciamo?» domandai guardandomi intorno.
«Pirati dei Caraibi?» propose indicando il cartello davanti a noi. Affermai e dopodiché aggiunse in tono spiritoso «Guarda che là dentro non troverai né Orlando Bloom, né tantomeno Johnny Depp».
«Poco male; tanto ci sei tu e non potrebbe andare meglio di così».
In un primo momento credetti di averlo solamente pensato, come mi capitava spesso di fare, esprimendo risposte che non avrei mai e poi mai detto a voce. Solo quando vidi Jack sorridermi imbarazzato mi resi realmente conto di ciò che avevo detto. Pregai con tutta me stessa la Terra, affinché aprisse una voragine e mi inghiottisse facendomi sparire nella mia vergogna e nella mia stupidità, ma dal momento che questo non avvenne l’unica cosa che mi rimase da fare era continuare ad arrossire inarrestabilmente.
Una volta dentro la caverna sotterranea, prendemmo posto nell’ultima fila dell’imbarcazione, scavalcati da tutta una serie di bimbi accompagnati dai propri genitori.
In quel momento mi vennero in mente i miei, di genitori, e mi ricordai del nostro primo viaggio insieme: avevo da poco compiuto i cinque anni ed eravamo andati all’Eurodisney di Parigi, prima di tornare in Italia per salutare i nonni materni e tornare a casa, a Baltimora. Con il tempo avevo dimenticato la maggior parte delle cose successe in quel soggiorno parigino, ma adesso, lì nel parco di Anaheim, quei pochi ricordi che avevo riemersero a galla, facendomi sorridere tra me e me. Ero così persa nei miei pensieri da non accorgermi nemmeno della barchetta che aveva iniziato a muoversi.
«Sei felice?» mi chiese improvvisamente Jack, riportandomi alla realtà e rompendo il silenzio che si era creato tra noi dopo che io avevo detto quel che avevo detto. Forse aveva scambiato i sorrisi che mi suscitavano i ricordi d’infanzia con la contentezza di trovarmi lì… Di trovarmi lì con lui.
«Non immagini quanto. - risposi sincera - Non credo che ti ringrazierò mai abbastanza per aver avuto l’idea di venire qui, Barakat».
Sorrise, e attraverso la poca luce che emanava la lanterna di uno dei finti pirati della grotta potei notare che quel sorriso fosse molto diverso da quelli che gli avevo visto fare di solito; non era malizioso, non era neppure ironico, e non era totalmente divertito… Era più soddisfatto, appagato e felice come il mio, oserei dire.
«Sono contento del fatto che tu abbia deciso di passare l’estate insieme a noi, Amy. Anche se spesso mi comporto da stronzo e ti faccio incazzare, ci tengo a te».
Si avvicinò puntando i suoi occhi nei miei.
Poco per volta ma sempre di più; la scena sembrò svolgersi al rallentatore.
Anche attraverso la fioca luce potei cogliere il suo sguardo intenso mentre mi fissava.
Alzò un braccio e affondò piano la mano tra i miei capelli.
Chiusi gli occhi.
Un bacio? In quel momento? Non me lo sarei mai aspettato, non così all’improvviso, non così subito. Ma non lo avrei mai disdegnato, questo è ovvio.
Me stavo lì, con gli occhi chiusi, il cuore che batteva forte per uscirmi dal petto e un urlo che mi moriva in gola, soffocato dalla stessa contentezza e dalla voglia di non rovinare quel momento.
E poi niente.
Jack ritrasse il braccio e lo sentii allontanarsi da me per tornare al suo posto. Aprii gli occhi e lo guardai confusa.
«Avevi una finta ragnatela attaccata ai capelli. Sarà sicuramente caduta dal soffitto» spiegò facendo dondolare tra le dita quell’affare simile a del cotone sporco.
«Oh, certo» balbettai a bassa voce.
Non ebbi neppure il tempo di far ordine in tutto quel groviglio di pensieri che ululava dentro la mia testa che mi ritrovai sbalzata fuori dall’imbarcazione e immersa nella luce del pomeriggio, senza rendermene conto, facendo tutto meccanicamente.
«Ah, eravate qui. - disse Lex - Ci avrei scommesso».
Rian e Zack iniziarono a ridere, seppure piano, e si vedeva chiaramente che i loro sforzi per autocontrollarsi erano del tutto inutili. Smisero solo quando si accorsero dello sguardo truce negli occhi di Jack, sguardo che io non vidi, ma che immaginai come se fosse rivolto a me.
Gaskarth continuò. «Abbiamo più o meno tre quarti d’ora prima di dover andare via. Amy, vuoi andare a fare shopping?».
Distrattamente, feci cenno di sì con la testa.
«Va bene… Ragazzi, accompagnate voi Amanda? Io ho urgente bisogno di un bagno… Vieni con me, Jack?».
E così, senza porre nessuna obiezione e senza dire niente, mi allontanai con i due ragazzi, sperando nel potere curativo di quello che le mie coetanee definivano “shopping terapia”.

Long live the Reckless and the Brave...

Tempo record! Cioè, ho aggiornato in dieci giorni, vi rendete conto? u.u
Comunque sì, avete letto bene: "prima parte"... La seconda è già tutta nel mio cervellino, devo solo scriverla e vedere come esce :D
Oggi non ho molto dire, quindi vi mollo (siete fortunate, questo NdA è breve... Che poi non so neppure chi legge le cavolate che scrivo qui, bah ._.)
Vi ringrazio e spero che il capitolo vi sia piaciuto :3
With love,

A.

Ps: Se volete, mi trovate su Twitter proprio qui :)





 
  
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