Dalla biblioteca dell’Alta Confraternita dei Cacciatori.
Corsia 3, scaffale 2, ripiano 4.
Parte
Prima
Lo sconosciuto aveva un aspetto
estremamente inquietante: la sua snella figura era avvolta in un lungo cappotto
scuro, la sua folta capigliatura corvina era mossa dalla fredda brezza che
spirava nel vicolo. Il pallore cadaverico, le strette pupille cerchiate di
rosso: metteva i brividi soltanto a guardarlo. Da quando aveva smesso di
sussurrare minacce nei miei confronti, sulla strada era calato il silenzio.
Terrorizzato, abbassai lentamente la pistola senza distogliere lo sguardo dallo
sconosciuto, che sembrava essere divertito dal timore che incuteva: le sue
sottili labbra scarlatte si dischiusero in un ghigno malefico che rivelò una
fila di denti aguzzi e bianchissimi. Prima ancora che il mio braccio destro
fosse totalmente abbassato, il mostro scomparve. Qualcosa mi colpì alle spalle,
proprio in mezzo alle scapole. Un secondo dopo mi ritrovai ad assaporare il mio
stesso sangue, con la faccia premuta sull’asfalto; a partire dal naso
spappolato, un’ondata di dolore bruciante si diffuse in tutto il corpo. La
risata annichilente del mostro riecheggiò fra le mura degli edifici
circostanti: mentre le energie mi abbandonavano del tutto, gli echi della
risata si fecero sempre più distorti, dopodiché non vidi altro che l’oscurità
più assoluta, e sulla strada tornò a regnare il silenzio.
Quando ripresi i sensi aprii gli occhi
e sobbalzai: mi trovavo faccia a faccia con un cadavere infestato dai vermi.
Non urlai neppure: non ne avevo le forze. Con il cuore che batteva a mille,
strisciai lontano da quell’orrore e mi sforzai di mettermi seduto. Albeggiava:
in lontananza si udivano i rumori della città che si risvegliava lentamente dal
torpore notturno. Attraverso le ciglia incrostate di sangue rappreso vedevo a
malapena, ma riuscii a scorgere la mia pistola, sull’asfalto, distante alcuni
metri dal punto in cui mi trovavo. Strisciando miseramente, raggiunsi l’arma e
me n’impadronii: il mio buon senso suggeriva che quella fosse la giusta mossa
da fare prima di compiere qualsiasi altra azione. A quel punto, muovendomi
lentamente iniziai scrutare i dintorni. Nel vicolo, io e il cadavere
putrescente eravamo soli: si trattava del corpo di un senzatetto, avviluppato
in una larga e lercia giacca zuppa di sangue scuro. Lo stesso sangue formava
un’ampia pozza sul pavimento, al livello del suo addome: quando me ne resi
conto ricordai con sgomento il terribile modo con cui il barbone era stato
ucciso.
Nella mia mente si formò l’immagine del
mostro col gomito piegato ad angolo retto, l’avambraccio parallelo al terreno,
le dita tese e le unghie aguzze protratte verso il pezzente. L’uomo arretrava
in preda al terrore e supplicava lo sconosciuto di non ucciderlo: la tragedia
si consumò nel momento in cui rivelai la mia presenza. L’oscurità fu squarciata
dal fascio luminoso della mia torica: quando il disco di luce comparve sul
muro, a sinistra del barbone, lo sconosciuto trasalì e sbudellò il poveraccio
con un solo affondo dei propri artigli. Ancora inconsapevole della natura
sovrumana del misterioso individuo, corsi nella sua direzione, convinto di
poter prevalere su di lui per il semplice fatto di possedere una pistola.
Mentre mi avvicinavo al mostro con l’arma spianata, urlavo pesanti insulti nei
suoi confronti, intimandogli di arrendersi. Prima ancora che il cadavere del
senzatetto avesse avuto il tempo di afflosciarsi al suolo, il suo uccisore era
scattato verso di me coprendo in un istante la discreta distanza che c’era fra
noi. Sopraffatto dall’orrore, feci cadere la torcia al suolo; quella rimbalzò
un paio di volte sull’asfalto e si spense con un suono di vetri infranti. Il
vicolo piombò nell’oscurità più totale: riuscivo a malapena a scorgere la
sagoma antropomorfa del mostro, il quale sembrava invece vederci benissimo.
Egli era enormemente compiaciuto dell’espressione inorridita che avevo assunto
dal momento in cui aveva iniziato a descrivermi nei dettagli i modi con cui
avrebbe potuto farmi fuori. Il tremito che scuoteva ogni fibra del mio essere
si faceva più forte ad ogni parola pronunciata dal malvagio individuo, finché
che ad un certo punto fui costretto ad abbassare l’arma con cui lo stavo
puntando. Fu allora che, accertatosi del fatto che non rappresentavo alcuna
minaccia, il mostro si avventò su di me facendomi finire al tappeto.
Quando controllai le tasche della mia
giacca, scoprii che non mi era stato sottratto alcunché; tuttavia, né la
ricetrasmittente, né il cellulare davano segni di vita, e lo stesso valeva per
l’orologio che portavo al polso sinistro. Era come se fossi stato investito da
un forte campo magnetico che aveva mandato in tilt tutti gli apparecchi
elettronici che avevo con me. Che tutto questo centrasse col misterioso
avvenimento della notte precedente? L’unico modo per mettersi in contatto con
la centrale era trovare una cabina telefonica o qualcosa del genere. Mi misi in
piedi e fui colto da un capogiro, dunque mi avvicinai alla parete e arrancai
verso la strada principale, già inondata dalla luce arancione dell’alba. Varie
volte rischiai di inciampare nell’immondizia sparsa sul pavimento, ma in
qualche modo riuscii a raggiungere la strada senza mai finire carponi in mezzo
alla sporcizia. Raggiunta la strada, mi scontrai con qualcuno. Se io mi limitai
a sussultare, quel qualcuno fu spaventato a morte dalla mia comparsa
improvvisa, e lanciò un urlo. Scoprii di essere finito addosso ad un’attraente
ragazza in tenuta da jogging: quando si accorse che indossavo la divisa, si
rilassò, ma tornò presto ad accigliarsi, vedendo com’ero ridotto.
Effettivamente non dovevo essere proprio un bello spettacolo, col naso deforme,
il volto ricoperto di sangue secco e l’uniforme deturpata da strappi e macchie.
Nessuno di noi sapeva cosa dire, così ci guardammo: io con l’espressione di un
cane bastonato, lei con aria interrogativa e ancora un po’ spaventata.
Finalmente, dopo alcuni secondi, mi decisi a rompere il silenzio:
- Ehi! Scusa se ti ho spaventata. Per
caso hai con te il cellulare?
- Ma che diavolo ti è successo? – disse
lei, aggrottando a fronte e abbozzando un sorriso, mentre s’infilava una mano
nella tasca a marsupio del maglione verde acceso che aveva addosso.
- Non mi crederesti se te lo dicessi –
iniziai – E’ proprio questo il motivo per cui mi serve un telefono al più presto.
Devo chiamare subito in centrale per mettere al corrente i miei colleghi di
quello che è accaduto.
L’espressione della ragazza tornò ad
essere seria:
- E’ successo qualcosa di grave?
- C’è un corpo in fondo a quel vicolo –
dissi, sospirando.
- Oh. Un cadavere, vuoi dire? – la sua
voce si fece flebile.
Annuii gravemente e presi il cellulare
che la ragazza mi stava porgendo: la ringraziai, dopodiché digitai il numero di
emergenza e chiesi l’intervento immediato di una volante.
Quando le restituii il telefono, lei si
arrischiò a chiedere se poteva vedere il corpo.
- Non credo sia una buona idea: è morto
in modo orribile, in un bagno di sangue – risposi.
- Ma come? – fece lei, incerta – Non
sei stato tu ad ucciderlo? Non era un criminale? – poi arretrò di qualche
passo, come colta dal sospetto che il criminale fossi io.
Scossi la testa:
- No – dissi, e strinsi i denti come
per impedire a me stesso di aggiungere particolari al quadro della situazione,
già sconvolgente di per sé.
- Se non hai lottato perché sei ridotto
così? – fu la domanda successiva.
- Non ho detto di non aver lottato. Il
compito principale degli agenti di polizia è proteggere la gente, non far fuori
i criminali – chinai la testa, amareggiato, e aggiunsi con voce sommessa -
Anche se spesso le due cose coincidono.
- Quindi non sei riuscito a svolgere il
tuo compito, giusto? – disse la ragazza.
- Tante grazie per avermelo
rinfacciato! – esclamai, ironicamente.
- Hai ragione, mi spiace – si scusò lei,
e nel frattempo aveva mosso qualche passo verso il vicolo.
- Ehi! Dove credi di andare? – feci io.
Con un sorriso nervoso, la ragazza
confessò:
- A vedere il luogo del delitto. Non ti
dispiace se ci do un’occhiata, vero?
- Certo che mi dispiace! – esclamai –
Non è certo il tipo di spettacolo che piacerebbe ad una come te.
- Credi davvero di sapere cosa mi piace
o cosa non mi piace, solo perché abbiamo parlato per qualche minuto? – domandò
lei con stizza, ma sempre con un debole sorriso sulle labbra – Allora, forza:
se non c’è alcuna legge che te lo impedisce, accompagnami a dare un’occhiata al
corpo. O forse hai paura?
Io sollevai le spalle e la guardai:
- Ok, mi arrendo. Ti porterò a vedere
il corpo, purché tu mi stia vicina e, in caso di pericolo, faccia tutto ciò che
ti dico senza discutere.
- Quindi hai paura per davvero, agente? – pronunciò quest’ultima parola
con tono canzonatorio.
Decisi di non rispondere alla sua
domanda: credo che se mi fossi difeso sarei apparso infantile e probabilmente
le avrei dato una soddisfazione che non intendevo darle. Tuttavia non volevo
nemmeno procurarle un dispiacere, così l’accompagnai verso il luogo del
misfatto. Mentre camminavamo in silenzio, pensai alla singolare curiosità della
ragazza; ci riflettei e nella mia mente si formò il germe di una battuta spiritosa
che riguardava l’argomento. S’impossessò di me il desiderio morboso di dar
sfogo alla mia vena comica. E così, quando raggiungemmo il corpo, indicandolo,
dissi:
- Perché t’interessa tanto vedere un
cadavere? – e allora mi accorsi che ciò che stavo per dire non era affatto
divertente – Hai forse delle tendenze necrofile?
La ragazza fece una smorfia e mi guardò
di traverso, poi si sforzò di emettere una risata che suonasse la più ironica
possibile. Infine sorrise sinceramente e disse:
- Dunque era questo il pensiero che ti
frullava per la testa mentre camminavamo? Ecco il perché del tuo sorrisetto
idiota!
La sua sincerità mi fece avvampare per
l’imbarazzo, ma al tempo stesso tirai un sospiro di sollievo: per un momento,
dopo aver pronunciato le fatidiche parole, avevo pensato che si sarebbe
infuriata e se ne sarebbe andata.
Finalmente, smettemmo di punzecchiarci
e volgemmo la nostra attenzione al cadavere, che fino ad allora avevamo
ignorato del tutto. Mi accorsi fin da subito che qualcosa non andava, ma la
ragazza mi anticipò di parecchio: nel momento in cui io intuii che c’era
qualcosa di strano, lei aveva già capito tutto ed era pronta ad enunciare la
sua tesi al riguardo:
- Questo corpo è in fase di
decomposizione avanzata; la morte sembra risalire ad almeno tre giorni fa – e
il sorriso, che non aveva mai abbandonato il suo viso luminoso, si spense
proprio in quell’istante – Tuttavia questo non coincide con la tua versione dei
fatti.
Mi trovavo assolutamente d’accordo con
lei: il solo motivo per cui non me n’ero accorto prima era che appena appena
dopo essere rinvenuto ero troppo frastornato per constatarlo. Aggrottai la
fronte, assalito da un dubbio:
- A cos’è dovuta tutta questa
professionalità? – mi riferivo all’estrema precisione con cui la ragazza aveva
stimato il momento del decesso.
In tutta risposta, lei mi porse la mano
e finalmente si presentò:
- Laura Dever, studio Medicina Legale
presso l’università di questa cittadina.
- Ah, ecco che tutto si spiega… -
dissi, dopodiché mi presentai a mia volta e le strinsi la mano con decisione.
Mentre il rumore delle sirene si
diffondeva nella fredda aria mattutina, Laura mi guardò molto seriamente e
disse:
- Quando hai detto che è successo tutto
questo?
- Credo che sia accaduto tutto ieri
notte. Un individuo misterioso ha assalito il barbone ed io sono intervenuto
per sistemare le cose. Tuttavia la mia intromissione è servita soltanto a far
ammazzare il poveraccio e a procurarmi le ferite che vedi. Poi sono svenuto, e
ho ripreso i sensi pochi minuti prima che c’incontrassimo – risposi.
- Ne sei proprio sicuro? Potresti
essere rimasto privo di sensi per più di un giorno. Oggi è mercoledì
quattordici, sai?
- Non ne ero sicuro, dato che ho
orologio e cellulare fuori uso. Ma ora che me lo dici, sono certo che risalga tutto
a ieri.
- Allora ci dev’essere qualcosa che non
va: questo corpo sembra essere privo di vita da circa settantadue ore – osservò
Laura, evidentemente preoccupata.
- Sarà meglio che raggiunga i miei
colleghi - dissi – Si staranno chiedendo
dove sia finito – poi mi avviai verso la strada e intimai alla ragazza di
starmi sempre vicina.
- Ma tu zoppichi! – esclamò lei –
Perché non l’ho notato prima? – chiese, più a se stessa che a me.
- Perché fino ad un attimo fa credevo
che il dolore si fosse placato. Ma è tornato tutto in una volta, all’improvviso
– le risposi, ansimando per la fatica.
- Vieni qui, reggiti a me – disse lei,
offrendomi un braccio.
Insieme, arrancammo lungo il vicolo, e
quando raggiungemmo la strada trovammo due volanti e un’ambulanza parcheggiate
lungo il marciapiede. Le sirene tacevano, ma i lampeggianti continuavano a
spargere i loro bagliori azzurri sui muri dei palazzi circostanti. Molte
finestre si erano aperte con largo anticipo rispetto alla consuetudine, e
numerosi spettatori assonnati osservavano la scena da posti privilegiati. Altre
persone erano addirittura scese in strada per ottenere dagli agenti
informazioni sull’accaduto. Anche certi passanti s’erano fermati, incuriositi
dalla presenza dei mezzi di soccorso. Contai complessivamente tredici persone;
fra di esse riconobbi Exley e Carson, due agenti miei colleghi, e il Capitano
Lansdale. Nella folla spiccavano anche le uniformi sgargianti di tre
soccorritori: due uomini e una donna.
Sempre appoggiandomi al braccio di
Laura, mi avviai verso il gruppetto di persone. Ero tutto assorto nei miei
pensieri: provavo mentalmente le parole con cui avrei spiegato la situazione al
Capitano. Per questo sobbalzai quando una mano mi si appoggiò sulla spalla e
una voce chiamò il mio nome con un’inflessione interrogativa. Mi girai di
scatto e mi trovai faccia a faccia con un giovanissimo agente che conoscevo soltanto
di vista. Quando l’agente ebbe avuto conferma che ero veramente colui che stava
cercando, mi disse di seguirlo: il Capitano voleva parlare con me al più presto,
ed era infuriato per non avermi trovato nel punto concordato. Effettivamente,
quando guardai con più attenzione in direzione di Lansdale, mi accorsi che era
scuro in volto e continuava a guardarsi intorno. Affrettai il passo e mi feci
strada fra la gente, raggiungendo il Capitano solo al costo di lasciare
indietro Laura, la quale si unì alla folla, desiderosa di seguire le indagini
dal vivo.
- Si può sapere dov’eri finito? – mi
aggredì immediatamente il Capitano – Ti
abbiamo cercato dappertutto! Dove diavolo è il cadavere?
- Mi scusi, Capitano. Sono tornato
sulla scena del crimine per accertarmi di alcuni particolari – mentii – Il
cadavere si trova in fondo a quel vicolo, comunque - dissi, indicando la giusta direzione con la
mano sinistra.
Ma l’attenzione di Lansdale era rivolta
altrove: guardava in direzione dei soccorritori.
- Il ferito è qui – disse loro, e
quelli ci raggiunsero in pochi secondi. Lo stesso fecero Exley e Carson, i
quali mi rivolsero un rapido saluto e si diressero verso la scena del crimine,
indicata loro dal Capitano.