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Autore: Ghevurah    11/06/2012    9 recensioni
Se potesse scegliere non cambierebbe nulla della propria esistenza. Perché certe cose qualcuno le deve fare per forza e lui non vorrebbe mai che un simile fardello gravi su qualcun’altro.
Poi, però, ci sono giorni in cui guarda suo fratello dormire. Avvinghiato nelle coperte, con uno spicchio di volto irradiato dalla luce fredda della luna. Piccolo e candido. Minuscolo.
Lo guarda e si sente egoista. Allora, della propria esistenza, della loro, vorrebbe poter cambiare tutto. Vorrebbe poter passare le ore a rincorrersi, a giocare e strillare e ridere fino a non avere più aria nei polmoni, la gola secca.
Sasuke.
Per fortuna che c’è Sasuke. Per sfortuna, allo stesso modo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Kisame Hoshigaki, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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È notte quando i ricordi affiorano tanto insistenti che è impossibile ricacciarli indietro. Il ragazzino pensa che è come essere nel mezzo di una mareggiata, investito dalle onde e sospinto giù nell’acqua, sempre più in profondità.
Sente la sua maschera scricchiolare, mentre arabeschi di crepe iniziano a  fenderne la superficie atarassica. Sa che dovrebbe fare di tutto per arginarle, ma è troppo facile lasciarsi sommergere. Perché, in fondo, affogare è un po’ come rinascere.
Rinascere in un pomeriggio di sole. Mikoto affacciata alla finestra della cucina, i capelli - nerissimi - legati dietro la nuca e un sorriso a illuminarle il volto. Fugaku seduto all’ombra della casa, la loro casa, le palpebre socchiuse e quella solita espressione severa. Sasuke in giardino, i piedi scalzi e gli occhi che ridono.
Guardali, pensa il ragazzino mentre i polmoni si riempiono d’acqua e riemergere da quell’oceano di ricordi sempre impossibile, guardali bene e ricorda.
Una voce che lo chiama, poi. Austera e composta.
Itachi-kun.
C’è un’altro ragazzino sotto il sole di quel pomeriggio ritrovato. Sembra più grande dell’età che ha, più responsabile di quello che un ragazzino dovrebbe essere.
Itachi-kun, dice, ci sono cose che vanno fatte.
Nelle sue parole vortica il dogma di un dovere inappellabile, la volontà di un sacrifico senza uguali. E lui vorrebbe allungare una mano, scuoterlo con rabbia, ricordargli che sono solo ragazzini. Bambini, quasi. Ma quello che gli sguscia dalle labbra è ben diverso: ciò che va fatto verrà fatto, Shisui.
Shisui. Shisui il fulmineo. Il suo traguardo, la sua guida. Sempre un passo avanti a tutto e tutti. Consacrato alle leggi impervie di una fede algida e superiore. Scrigno di verità crudeli ma inevitabili.
Ora, da sotto la sua maschera di vita, il ragazzino vorrebbe confessargliene una lui di verità: il dovere non è altro che un’illusione, Shisui.Un illusione che si sgretola nel tempo e nel dolore di un’esistenza vuota.




Kisame aprì le palpebre e la luce del mattino lo invase, serica e lieve. La prima cosa che fece fu allungare una mano al proprio fianco, tastando nella penombra l’elsa di Samehada.
Sorrise.
Inclinò all’indietro il capo, rilassando i muscoli. Un sospiro e poi un mugugno, mentre si sollevava dal futon con un movimento deciso.
Buongiorno.
Di prima mattina la voce di Itachi, atona e ineluttabile, aveva l’impatto di una doccia gelata.
Buongiorno, biascicò  lui, alzando lo sguardo sul compagno.
Itachi se ne stava seduto accanto alla finestra, vestito e immobile. Il suo profilo tanto pallido da sembrare fatto di luce era rivolto allo spicchio di strada su cui la loro stanza si affacciava.
Kisame si chiese distrattamente se fosse rimasto sveglio tutta la notte, ma poi il suo sguardo incontrò il futon sfatto, steso lì accanto. Tra le pieghe del cuscino capeggiava una macchia di sangue scurissimo.
Neh, articolò con vago interesse, stai bene Itachi-san?
Itachi non si mosse né distolse lo sguardo dalla finestra.
Sto bene.
Kisame voltò il capo alla sua destra, mettendosi in piedi. Si levò la maglia e ciondolò fino al bagno.
Quando vi riemerse Itachi era nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato.
Qualcosa di interessante lì fuori, Itachi-san?
Il ragazzo di ieri.
Kisame aggrottò la fronte e allungò il collo per dare uno sguardo a sua volta.
Da sotto il cornicione, in strada, comparve la figura di Hirofumi. Rovesciò un secchio d’acqua davanti all’ingresso del ryokan, scomparve qualche istante e poi tornò a fare capolino. Al suo fianco, il bambino che si era avvicinato loro il giorno precedente. Masaru-kun, precisò Kisame mentalmente.
Parlavano e l'altro gli correva attorno, saltellava. Alzava le mani al cielo, gesticolando in quel modo confuso tipico dei bambini. Hirofumi fingeva di ignorarlo, per poi allungarsi verso di lui e catturalo in un abbraccio improvviso.
Sta mentendo.
Le parole di Itachi si espansero nella stanza come increspature d’acqua.
Come?
Mente, ripeté il nukenin imperturbabile.
Su cosa?
Su tutto.
Lo spadaccino si allontanò di qualche passo dalla finestra. Si grattò il capo.
Neh, Itachi-san, quel ragazzo è solo un garzone. Perché dovrebbe mentirci?
L’espressione di Itachi si indurì quel tanto che bastava per confonderlo con una statua.
Per proteggere suo fratello, disse. E a Kisame, per un attimo, parve di scorgere l’animarsi di qualcosa nella foschia cupa che gli velava lo sguardo.



Hirofumi si passò una mano sulla fronte, asciugandosi il sudore con il dorso. Stava spazzando l’ingresso del ryokan, mentre Masaru saltellava su e giù per la strada. Aveva catturato una cavalletta, verdissima, e gliel’aveva mostrata schiudendo la gabbia dei suoi palmi. Lei era saltata via, veloce come un fulmine e Masaru era scoppiato a ridere con quella sua vocina sottile e fresca che metteva di buon’umore. Anche Hirofumi, allora, aveva sorriso.
L’aveva già perdonato per lo spavento che gli aveva fatto prendere il giorno prima. Lo aveva perdonato non appena fuori dalla sala del ryokan, quando Masaru aveva abbassato lo sguardo e gli aveva chiesto se gli volesse bene lo stesso, anche se combinava pasticci e parlava troppo.
Lui si era inginocchiato così da essere alla sua altezza e lo aveva stretto a sé, sentendolo fragile e prezioso come la corolla di un fiore.
Sono io che ti devo chiedere scusa, gli aveva sussurrato poi. La voce rotta e il peso di una colpa silenziosa nel cuore.



Hirofumi seguì il diramarsi della strada, sospinto da una corrente invisibile. Vicoli e persone che scivolavano ai lati del suo campo visivo in un miasma indistinto.
Svoltò dietro l’angolo di una casa e sotto le travi di un porticato di legno in cui l’umidità si era rarefatta, avvertì un vago sentore di elettricità impregnare l’aria. Alzò lo sguardo.
Davanti a lui, come spettri sorti dalle ombre delle case, stavano due maschere vestite di nero.
Finalmente ti abbiamo trovato, disse uno dei due, scandendo le parole in un eco ovattato.
Lo sguardo di Hirofumi si spostò dall’una all’altra figura come impazzito. La spirale nera disegnata sulle loro braccia. L’elsa delle katana che tenevano sulle spalle. I tratti animaleschi e vaghi delle loro maschere.
Indietreggiò di una manciata di passi, cosciente del fatto che dare loro le spalle per fuggire sarebbe stata la mossa più azzardata.
Lasciatemi in pace, biascicò. Andatevene.
La prima maschera avanzò verso di lui con movimenti decisi.
Ragazzino. Se ci farai perdere dell'altro tempo non potremo più garantirti l’incolumità di tuo fratello.
Hirofumi corrugò la fonte e assottigliò lo sguardo, spalancando le braccia.
Siete dei vigliacchi, sputò. Dei dannatissimi vigliacchi! Marionette mosse da un burattinaio dal volere assoluto. Assassini che si credono eroi. Siete patetici. Ve l’ho già detto tempo fa, no? Non diventerò mai come voi!
Le prima maschera non si scompose, né si arrestò. Allungò un braccio dietro di sé, chiudendo le dita sull’elsa della katana. Un sibilo e la lama argentea brillò, irradiata dal sole.
Abbiamo l’ordine di non ucciderti, disse, ma nessuno ci vieta di fare in modo che tu non possa muoverti.
Non vi conviene avvicinarvi! Sbraitò il ragazzo, muovendo passi incerti all’indietro.
Oh, lo sappiamo. Faremo da lontano. E alla fine ci occuperemo anche di tuo fratello.
Hirofumi seguì con lo sguardo la scia che la spada sguainata tracciò nell’aria e solo all’ultimo notò il movimento della seconda maschera, dalle cui mani si levò una pioggia di kunai.
Il ragazzo portò le braccia a schermargli il viso, serrando le palpebre, pronto a sentire le lame conficcarsi nella carne. Quello che sentì davvero, invece, fu uno spostamento d’aria e poi un rumore di kunai che impattavano contro qualcosa di solido.
Aprì gli occhi. La sua visuale era occupata da una sagoma bianca e allungata che come uno scudo si era frapposto fra lui e le lame.
Neh Hiro-kun, sibilò una voce sottile, com’è che hai a che fare con certa gente?
Hirofumi si lasciò cadere a terra, stordito. Il nukenin di Kiri era al suo fianco, la spada gigantesca che si portava appresso, sguainata a fare loro da scudo.
Poco più in là, la figura pallida del nukenin più giovane, avanzava verso le due maschere. Sotto il simbolo sfregiato inciso sulla piastra metallica e baluginante che portava in fronte, le sue ridi vacue erano accese di un bagliore carminio.



Le maschere inanimate dei due ANBU si sollevarono all’unisono. Kisame non poteva scorgere l’espressione dei loro volti, ma dal fremito che notò percorrere i loro corpi, capì che dovevano essersi stupiti davvero. Assopire totalmente il chakra per poi attivarlo solo al momento del bisogno poteva essere azzardato, ma a quanto pare garantiva un discreto effetto sorpresa.
Samehada ha fame, disse lanciando un’occhiata compiaciuta alla spada che iniziava ad agitarsi tra le sue mani, risvegliata dal chakra dei due ninja.
Itachi si portò accanto a lui con tutta calma. I suoi occhi mostravano lo Sharingan come fosse un marchio di fabbrica.
Voi qui… non può essere! Biascicò uno degli ANBU, senza nascondere una note indolente nella voce.
Kisame distese il sorriso che gli affilava il volto. L’ombra di Samehada si allungò, mentre il suo corpo squamoso si dimenava impaziente.
Poi Itachi sbatté le palpebre e l’illusione ebbe inizio.



Il ragazzo era ancora a terra quando il sangue dell’ultimo ANBU schizzò sulla strada. Lui si coprì il volto con le braccia, chiudendosi in una morsa che parve indissolubile.
Kisame lo guardava dall’alto. Samehada poggiata sulla spalla destra e una testa mascherata a penzolargli dalle mani.
Neh, Hiro-kun, che hai adesso?
Il ragazzo rimase immobile.
Hiro-kun? Chiamò ancora il nukenin senza ottenere alcuna risposta.
Itachi avanzò verso di loro a passi lenti, mentre il suo sguardo tornava ad incupirsi.
Kisame schioccò la lingua con fare seccato e sollevò Samehada per allungarla verso il ragazzo; ma lui si retrasse all’improvviso.
Sul volto tanto pallido da sembrare trasparente, gli occhi umidi e limpidissimi erano sgranati.
Non mi toccare! Urlò.
Kisame rimase  con il braccio sollevato e Samehada sospesa a mezza’aria.
Ma che ti prende? Ti abbiamo appena salvato la pelle, sai?
Lui scosse la testa e si portò le mani alle tempie, serrando le palpebre con forza.
Andatevene, sibilò. Andatevene via tutti!
Lo spadaccino infoderò Samehada, grugnì qualcosa e sbuffò e si chinò verso di lui. Fece per strattonarli un braccio, quando Itachi lo fermò:
Non toccarlo.
Che?
È meglio non toccarlo.



A diciotto anni il ragazzino stringe i denti. Argina i ricordi di Sasuke, quelli vecchi di lui bambino, e quelli nuovi. Del ninja che è diventato.
Passa giorni a cercare di dimenticare il suo sguardo, le sue parole. Giorni in cui il sonno non è altro che incubo.
Passa giorni a cercare di levarsi Sasuke dal cuore e dalla testa. A estrarre ogni scheggia di lui rimastagli conficcata dentro.
È strano, ma il difficile viene proprio ora. Quando l’odio di suo fratello non è più un mistero. Quando bisogna venir a patti con ciò che è stato e ciò che è.
Non saprà mai niente, Sasuke. Di quanto il ragazzino lo ami. Mai niente. E questo pensiero gli corrode l’animo, inesorabile.
Ci sono momenti in cui pensa di non farcela. In cui le colpe che ha, quelle di cui si macchierà , gli tolgono il respiro.
La maschera è sempre più pesante e malferma, ma allo stesso tempo diventa l’unica salvezza, mentre il suo copro inizia a cedere ad un male che è un po’ una penitenza.
Ha qualcosa di salvifico il bruciore che sente squassargli il petto. Il sangue, suo per una volta, che gli bagna il palmo tremante della mano.
Andrà bene, si dice il ragazzino vedendolo. Andrà bene.
Poi, però, arrivano voci da lontano. Sussurri. Racconti indiscreti che hanno fatto il giro del mondo, sino a giungere a lui.
C’è Sasuke, ancora, protagonista di quelle storie. Sasuke che ha abbandonato il villaggio per cui tanto era stato osato, il loro villaggio, lasciandosi guidare dalle spire di una serpe.
Vuole imparare dai suoi sibilii l’arte della vendetta, così dicono le voci. Così gli dice l’uomo profumato di leggenda, mentre i suoi occhi lo sondano, inesorabili. Sperano di captare qualcosa, di riuscire a scavargli dentro portando a galla -come per gioco- il suo io oltre la maschera.
Ma il ragazzino ha seppellito il vero sé stesso così a fondo che riesumarlo sembra impossibile persino a lui.




I raggi di sole diramavano riflessi lucenti sui pennelli di carta. Il suono di uno shamisen proveniva dai piani inferiori, le note sembravano danzare nell’aria, leggere come piume.
L’anta del fusuma si chiuse con un rumore secco. Uno zach improvviso che isolò la stanza, attutendo il suono della musica.
Kisame rimase davanti all’ingresso con le braccia conserte e Samehada in spalla. Gli occhi piccoli e ferali, appena socchiusi a squadrare il ragazzo che gli stava davanti.
Itachi frapposto tra loro era un’ illeggibile presenza d’ombra.
Hai mentito, disse. Parole atone che sembrarono gravare come macigni sulle spalle di Hirofumi e trascinarlo giù, a sprofondare nel pavimento.
Perché quegli ANBU ti cercavano?
Non cercavano me, ma la mia abilità innata.
Neh, Hiro-kun, gracchiò Kisame appoggiato al fusuma, non sembri un ninja proprio per niente.
Il ragazzo alzò lo sguardo, piantandolo con astio in quello del nukenin.
Non sono un ninja e non lo sarò mai! Sono una persona, io. Non un lurido assassino capace solo di eseguire ordini insensati alla stregua di una pupazzo inanimato.
Sul volto di Kisame si allungò un sorriso simile ad uno sfregio slabbrato.
Attento a come parli ragazzino, noi due siamo pur sempre ninja.
Lo sguardo di Hirofumi venne attraversato da un balenio mentre le sue mascelle si contraevano.
No, sibilò. Voi siete nukenin. Feccia della feccia.
Ora mi hai stancato, ragazzino. Abbiamo dimostrato una certa compassione salvandoti e...
Hirofumi alzò il capo di scatto.
Compassione? Chiese, rivolgendo lo sguardo ad Itachi. Chi stermina la sua intera famiglia, abbandonando il proprio fratello minore non può sapere cosa sia la compassione!
Sputò le parole con un astio tale da corrodere i timpani, sentendo distintamente l’eco della propria voce riempire la stanza e gravare come una maledizione.
Il suo respiro accelerato divenne l’unico suono, fino a quando Itachi non ruppe di nuovo il silenzio.
Kisame. Esci.
Lo spadaccino lanciò un occhiata prima al compagno, poi al ragazzino. Scrollò le spalle e si trascinò fuori dalla stanza, lasciandosi soli.
Itachi rimase immobile al suo posto.
Quindi sai chi sono, disse con un tale distacco da dare l’impressione di non possedere un’anima.
So chi siete entrambi. Kisame Hoshigaki, uno dei sette spadaccini della nebbia e Itachi Uchiha, assassino del sangue del suo sangue. Mio padre mi ripeteva sempre che al mondo non poteva esistere una persona peggiore di Itachi Uchiha.
Il volto di Itachi non cambiò espressione, solo parve indurirsi appena.
Sei un bravo attore, disse.
Odio mentire, ma mi è necessario. E fingermi disponibile con voi due, con te, é stato terribile. Quando, poi, ho visto Masaru parlarti…
Anche lui conosce la nostra identità?
No! Lui non sa nulla. Sa che siete nukenin ma nient’altro!
Perché dovrei crederti? Hai mentito fino ad ora.
È la verità! Verificalo con la tua abilità oculare se non mi credi!
Fu un battito di ciglia quello in cui Itachi coprì la distanza che li separava. Hirofumi se lo ritrovò così vicino da avere la percezione di affogare negli abissi bui che erano i suoi occhi. Il volto del nukenin sembrava una maschera mortuaria, perfetta e impassibile.
Hirofumi socchiuse le palpebre e trattenne il fiato.
Non toccarmi, fu l’unica preghiera che gli sfuggì dalle labbra. Poi il respiro tiepido del nukenin si infranse contro la sua pelle facendolo sussultare.
Anni fa, a Konoha, parlavano del figlio di un samurai al servizio del daimyo di Ho, sussurrò Itachi senza allontanarsi né sfiorarlo, si diceva che possedesse una particolare abilità innata che gli permetteva di insinuarsi nelle menti e nell’animo delle persone attraverso un semplice tocco.
Hirofumi tremò, serrando gli occhi e volgendo il capo da un lato, quasi potesse scacciare il suono della sua voce.
Non so controllarlo, gemette. Se mi tocchi non sarò in grado di scindere la mia mente dalla tua, non...
Le sue parole si ruppero in un singulto strozzato. Dopo ci fu un rumore lieve e il ragazzo percepì il calore del corpo del nukenin allontanarsi.
Aprì gli occhi quel tanto che bastava per scorgere la sua figura tremolante tra le lacrime che gli velavano lo sguardo.
Non voglio diventare come voi, biascicò lasciandosi scivolare contro la parete. Siamo scappati da Ho per questo. Non voglio uccidere, non voglio trasformarmi in un mostro per assecondare un dovere che non mi appartiene.
Itachi si allontanò di qualche passo, dandogli le spalle. Quando la sua voce tornò, sembrava impregnata di una strana arrendevolezza.
Dici di odiare la violenza, ma se qualcuno minacciasse la vita di tuo fratello, non rinnegheresti questo tuo pensiero e faresti di tutto, anche uccidere, per proteggerlo?
Hirofumi guardò il profilo scuro della sua schiena stagliarsi nella luce del giorno e scosse il capo, piano.
Va via, disse il nukenin all’improvviso.
Il ragazzo si alzò a fatica, barcollando contro il fusuma sottile.
Quando fu in piedi, notò che Itachi era appoggiato al davanzale della piccola finestra con entrambe le mani. Il corpo appena incurvato in avanti.
Quindi non mi uccidi, Itachi Uchiha? Chiese senza riuscire ad impedirselo.
La spalle del giovane vennero attraversate da un fremito che si acquietò subito quando voltò il capo di lato, lanciandogli l’ombra di un’occhiata.
Non vedo perché dovrei. Sarebbe un inutile spreco di energie.



Quando Kisame ritornò nella stanza il ragazzo se n’era andato. Le imposte delle finestre erano accostate e dallo spicchio aperto tra le due ante, sgusciava il riverbero del sole che serpeggiava nella penombra.
La sagoma di Itachi appoggiata alla parete, sembrava essere parte del buio raggomitolato negli angoli per sfuggire all’irruenza della luce. Il nukenin teneva il capo chino e le palpebre serrate.
Itachi-san, chiamò Kisame avanzando verso di lui, sono ancora i tuoi occhi?
Itachi si passò una mano, bianchissima, sul volto. L’indice e il pollice a premere ai lati delle tempie.
Starò bene.
Kisame sfilò dalle spalle la cinta che sosteneva Samehada e l’ appoggiò al proprio fianco.
Neh, Itachi-san, che ne facciamo del ragazzino? Chiese, facendo vagare lo sguardo su di lui con attenzione, quasi potesse vedere concretizzate le pene che l’affliggevano.
Non credi che qualcuno con un’abilità simile potrebbe essere utile anche ad Akastuki? Voglio dire se davvero gli basta un solo tocco per entrare nella mente della gente e manipolarla a suo piacere, non sarebbe male averlo con noi…
Quel ragazzo non è stato addestrato come ninja, ribatté il nukenin di Konoha. Non sarebbe saggio affidarci a lui.
Allora forse dovremmo sbarazzarcene. Se Konoha riuscisse a farlo collaborare, potrebbe diventare una seccatura.
Itachi inclinò il capo su un lato, lentamente, appoggiandolo alla parete.
Passeranno anni prima che impari a padroneggiare la sua abilità innata… troppi perché possa fare la differenza.
Kisame sembrò ponderare le sue parole attentamente, sospirò e si sedette a terra; ma il suo sguardo non abbandonò la figura del compagno.
Itachi socchiudeva gli occhi, sforzandosi di mettere a fuoco la stanza. La fronte corrugata in un sottile incresparsi di pelle. Poi le palpebre tremavano e si chiudevano. Le teneva così per qualche istante, rilassava l’espressione appena più tesa del volto, e tornava a riaprirle.
Kisame sospirò di nuovo.



Hirofumi sapeva bene chi era Itachi Uchiha, sapeva ciò che aveva fatto e anche se non l’avesse saputo sarebbe riuscito ad immaginarlo, guardando le cavità vitree e senza fondo che erano i suoi occhi. Ma quella mattina, ascoltando le parole che gli aveva rivolto, gli era sembrato di avere di fronte qualcun altro. Un singulto di luce fra le ombre che impregnavano il suo animo. Il riflesso, flebile, di un' umanità assopita.
Per questo motivo, quando Kisame aveva detto loro che il suo compagno non si sentiva bene, si era offerto di portargli da mangiare.
Hirofumi appoggiò il vassoio a terra e alzò lo sguardo sui decori sbiaditi del fusuma. Sagome geometriche di fiori e piante stilizzate.
Dalla stanza oltre la parete non veniva alcun suono.
Si stropicciò le mani, sistemò le scodelle e bussò. Due colpi lievissimi.
Entra.
Una voce roca, più debole di quello che ricordava.
Hirofumi prese un respiro profondo e fece scorrere l’anta del fusuma lentamente.
La stanza era buia. Si intravedevano appena i profili dei mobili, delineati dalla cornice di luce che sfuggiva ai battenti della finestra chiusa.
Il tuo compagno ha detto che non ti sentivi bene, disse senza scorgere il nukenin. E il vecchio mi ha incaricato di portarti da mangiare.
Vieni avanti.
Hirofumi prese il vassoio in mano e si chiuse il fusuma alle spalle. Riuscì a distinguere la sagoma di un futon ripiegato, il tavolo basso su cui era poggiata una lanterna spenta e un secondo futon disteso a terra.
Non fece in tempo a cercare la figura del nukenin che la sua voce lo raggiunse ancora.
Mettilo lì.
Hirofumi aguzzò la vista e dal buio iniziò ad emergere il corpo di Itachi. Se ne stava appoggiato contro la parete di fondo, le gambe allungate sul futon e una mano, tanto pallida da rilucere nell’oscurità, a schermargli il volto.
Il ragazzo si inginocchiò, sistemando il vassoio a terra come gli era stato chiesto. Alzò lo sguardo. Itachi non era che una sagoma indistinta.
Ho pensato a ciò che mi hai detto, disse piano Hirofumi, testando le sue reazioni. Ci ho pensato bene. Ma non credo che riuscirei a fare del male a qualcuno, neppure per proteggere Masaru.
La voce di Itachi si alzò dall'ombra quel tanto che bastava per farsi udire in un sussurro basso ma distinto:
Lasceresti che lo uccidessero, quindi?
No! Certo che no! Troverei… troverei un’altra soluzione.
A volte non c’è un’altra soluzione.
Hirofumi represse l’impulso di scappare via e fissò l’agglomerato denso di oscurità che era il corpo dell’altro.
È per via dei tuoi occhi che stai male? Chiese a brucia pelo, come se non stesse parlando con Itachi Uchiha. Mio padre diceva sempre che per un dono immenso si deve pagare un prezzo altrettanto grande.
Ci furono istanti di silenzio, scanditi solamente dal respirare di entrambi, poi Itachi parlò:
Tuo padre era un uomo saggio, disse e ad Hirofumi mancò il fiato perché del nukenin impassibile, quella voce non aveva proprio niente. Risuonò morbida e lieve.
Il ragazzo si affrettò a cercare il volto del nukenin, ma ne indovinò a stento i contorni, senza riuscire a scorgere la sua espressione.
S-sì, lo era. Anche se era un samurai odiava la violenza e finché restò in vita non permise che venissi addestrato come ninja. Diceva che era disumano, prendere dei bambini e trasformali in assassini. Diceva che mai e poi mai avrebbe lasciato che mi trasformassero in uno di loro.
Dal buio venne un fruscio e le parole di Itachi scivolarono ancora alle orecchie del ragazzo.
I ninja di Konoha torneranno.
Lo so… è per questo che vorrei andarmene. Da solo, senza Masaru. Cosicché non possano minacciarmi facendogli del male. Vorrei allontanarmi il più possibile, lasciare il confine di Ho, ma non so come attraversare i paesi senza che i ninja di Konoha mi scoprano…
Ancora buio e silenzio. Poi, la laconica risposta di Itachi:
Io e Kisame andiamo a Tsuchi, disse e Hirofumi desiderò davvero poterlo vedere in volto.



Masaru pianse tutta la notte. Un pianto disperato, singhiozzi che gli facevano sussultare le spalle e lo scuotevano in tutto il corpo.
No, diceva. Ti prego no, non lasciarmi.
I rimasugli di una litania ridotta ad un mormorio sconnesso.
Hirofumi gli aveva scostato i capelli dal viso, impiastricciato di lacrime. Lo aveva carezzato fino a sentirsi dolere le braccia.
Shhh. Tornerò Masaru, tornerò. Fra qualche tempo, quando le acque si saranno calmate e potrò portarti lontano. Tornerò.
Masaru affondava il volto contro il suo petto e inspirava il suo odore come se fosse ossigeno.
Nii-san, chiamava.
Starai bene, Masaru. Starai bene.
Ma io voglio stare con te, nii-san.
Tornerò.
Giuramelo.
Hirofumi gli fece sollevare il viso per poterlo guardare negli occhi. Limpidi e immensi. Poi lo ricacciò giù, fra le sue braccia e lo strinse a sé come se non ci fosse un domani.
Te lo giuro, disse. Te lo giuro.



Il ragazzo era seduto sotto il portico, quando i due nukenin fecero capolino dall’ingresso buio del ryokan. Kisame chinò il capo per riuscire a passare sotto le travi dell’ingresso, mentre Itachi lo seguiva portandosi appresso un po’ di quell’ombra da cui erano usciti.
In lontananza i primi singulti dell’ alba che sorgeva bianca e tersa su di un villaggio senza nome.
Neh, Hiro-kun, disse lo spadaccino vendendo il ragazzo, Itachi-san mi ha detto che ci accompagnerai per un pezzo di strada.
Hirofumi gli lanciò uno sguardo nervoso, poi rivolse la propria attenzione ad Itachi, impassibile al suo fianco.
Già, biascicò.
Camminarono per ore. Ogni tanto Kisame chiedeva al compagno se si sentisse bene, ottenendo in risposta vaghi monosillabi.
Hirofumi seguì le loro schiene come se fossero calamite. L’immagine stilizzata della nuvole rosse ricamate sulle loro casacche gli bruciava nelle iridi.
Sentiva ancora i singhiozzi di Masaru nelle orecchie e ad ogni passo che lo distanziava da lui, un male incurabile sembrava  infettargli l’animo.


Al confine di Ho vi era una striscia di alberi che costeggiavano un guado dall’acqua cristallina. Loro passarono sotto i rami di un salice che si protendevano verso la terra in un abbraccio mesto.
Fu lì che Itachi parlò:
Hai mentito ancora.
Hirofumi fissò lo sguardo nel suo e sorrise. Un sorriso limpido e sereno come il cielo, il torrente e l’aria che li circondava.
Sì, ammise semplicemente.
Kisame davanti a loro si fermò per poi voltarsi verso il compagno e il ragazzo. Non chiese niente, ma rimase in ascolto, vigile.
Se lo hai capito, Itachi Uchiha, allora devi aver anche capito perché sono venuto con voi.
Sotto la tesa del sugegasa, Itachi abbassò lo sguardo.
L’ho capito.
Il sorriso di Hirofumi si allargò ancora.
Per favore, disse. Da solo non posso riuscirci.
Fu quando Itachi si sfilò il sugegasa, lasciando che il velario di carta gli scoprisse il volto, che Kisame corrugò la fronte.
Di cosa sta parlando, Itachi-san?
Hirofumi scrollò le spalle. I suoi occhi non abbandonarono quelli di Itachi, ma rispose:
È l’unico modo che ho per salvare Masaru, disse. Qui, al confine, i ninja di Konoha troveranno di sicuro il mio corpo e sapranno che non c’è più niente da fare. Mio fratello sarà libero ed io altrettanto.
Gli occhi sottili di Kisame si sgranarono in un moto di stupore silenzioso.
Voglio che sembri uno scontro vero. Che non abbiano sospetti.
Vuoi morire come chi hai sempre odiato?
È l’unico modo.
Kisame sbuffò, poi portò una mano all’elsa di Samehada.
Neh, ragazzino, se è proprio quello che vuoi a me non costa nien...
Lo farò io.
Itachi si parò fra di loro lentamente, lasciando cadere a terra il sugegasa.
Lo farò io, ripeté.
E tra le sue dita comparve il balenio spietato di un kunai.



A vent’anni il ragazzino sa che tutto sta arrivando agli sgoccioli. Il suo corpo è stanco e debole e spezzato. Il germe della malattia da cui si è lasciato divorare, ha fatto la sua parte. I suoi piani si districheranno a breve, giungendo ad un’inevitabile conclusione.
C’è Sasuke da qualche parte, finalmente pronto ad ucciderlo. Lontano anni luce dal Sasuke bambino ed anche dal ragazzino avventato che l’ha affrontato anni prima.
È pronto, ora. Con o senza occhi uguali ai suoi, è pronto. Deve esserlo. Perché non c’è più tempo.
I ricordi vengono accantonati, vinti da un presente troppo importante, inghiottiti da una maschera che inizia a tremare.
Ripassa le ultime battute di una recita di vita, il ragazzino. E giura -su tutto ciò a cui ha rinunciato - che non fallirà.
Ma è sempre a vent’anni, all'apice di un copione perfetto, che inciampa in uno sguardo tanto limpido da riflettere persino l’anima.
È lo stesso sguardo che Sasuke deve aver visto mille e mille volte in quegli’anni di infanzia rubata. È uno sguardo che racchiude il segreto di un potere devastante e allo stesso tempo sembra essere la soluzione a tutti i mali del mondo.
A lui piace quello sguardo. E lascia entrare un po’ della luce che irradia, tra le fenditure della propria maschera. Una pioggia di calore dove ormai vi è solo lo scheletro arido di un ragazzino che mai diventerà uomo.
Parla di Sasuke, quello sguardo. Con una purezza e una forza in grado di spazzare via qualunque dubbio.
Lo salverò, dice. Lo salverò io.
Da sotto la sua maschera, il ragazzino si sente tentato. Per un istante pensa di mostrarsi per ciò che è. Di far crollare i cocci sotto cui si nasconde e dissotterrare il sé stesso sopito.
Lo pensa, ma tutto è stato studiato nel minimo dettaglio. Calcolato come un processo matematico. Ed è da solo che ha previsto di sostenere il peso del propria recita. Solo. Inevitabilmente e indiscutibilmente solo.




Il kunai trafisse il costato di Hirofumi con un suono liquido, amniotico. E vi ci si conficcò come se non avesse dovuto stare in nessun altro posto che lì, nella sua carne.
Faceva male. Faceva male da morire, ma poi Hirofumi si concentrò su altro.
Le dita bianche ed eleganti di Itachi strette attorno all’impugnatura della lama. Il riflesso della luce sul sigillo incastonato nel suo anello. La catenina che dondolava sull’impronta sottile delle sue clavicole, contro al pelle.
Socchiuse gli occhi, Hirofumi, pensò al viso sorridente di Masaru e vide il cielo ribaltarsi.



Itachi-san, non è prudente toccarlo!
La voce di Kisame si perse nel tonfo ovattato che seguì.
Fu semplice per Itachi allungare le braccia e trattenerlo. Chinarsi in avanti e accompagnare il suo corpo a terra. Una mano a stringergli la spalla destra, i suoi capelli sottili a solleticargli la pelle scoperta del polso.
Era leggero Hirofumi, non quanto Sasuke da piccolo, ma comunque leggero. Sotto i vestiti larghi e lisi c’era poco da stringere, ossa per di più; ma dal suo corpo anche se abbandonato, si irradiava una strana forza.
Cercò lo sguardo del ragazzo e lo trovò a una spanna dal suo. Un velo di lacrime impigliato tra le ciglia.
Non avresti dovuto, sussurrò. Non avresti dovuto toccarmi.
Itachi sentì un reflusso di chakra irradiarsi dal corpo di lui e pizzicargli le dita. Poi, il terreno sembrò aprirsi sotto i suoi piedi. Fu un po’ come trattenere il fiato e lasciarsi cadere nel vuoto, l’aria che sibilava nei timpani e il petto che pareva scoppiare.
Il volto di Sasuke si parò davanti ai suoi occhi all’improvviso. Era il ragazzino che lo aveva attaccato a Ho, ma allo stesso tempo il bambino in lacrime e l’angoscia nel cuore di quella notte dannata. Era il bambino che lo rincorreva nei boschi, si intrufolava nel suo letto con i piedi gelati e lo chiamava nii-san. Ma era anche il ragazzo che aveva abbandonato Konoha, dilaniato dall’odio. Il ragazzo che aveva avuto la meglio su Orochimaru e avrebbe fatto qualunque cosa per riuscire ad ucciderlo.
Dopo Sasuke vennero i morti. Quelli trafitti dalla lama della sua katana il giorno in cui il mondo si era capovolto, mentre le parole di Shisui gli rimbombavano nella testa come un mantra: non abbiamo scelta, certe cose vanno fatte.
Un universo di sangue e la speranza - infantile - che sia stato tutto un incubo. Suo padre, sua madre, Sasuke. Tutto un incubo.
Sedere sul tatami, mentre l’uomo davanti a lui blaterava di fargli sterminare il suo clan, la sua famiglia, quasi equivalesse a chiedergli di sbattere le palpebre. Guardare le sue labbra tirarsi in una piega atavica e pronunciare parole insensate. Rimanere impassibili, non solo nel corpo ma anche nell’animo quando, invece, l’unica cosa che avrebbe voluto fare era urlargli di essere solo un ragazzino di quattordici anni. Un incubo.



Quando Itachi tornò padrone di sé, era inginocchiato sull’erba con il corpo di Hirofumi stretto tra le braccia.
Lo guardò dall’alto, sentendo schegge della propria maschera scivolare dal viso come acqua.
Mi spiace, disse Hirofumi. Mi spiace, mi spiace.
Lo ripeté tante di quelle volte da far girare la testa, mentre lacrime silenziose gli solcavano le guance e gocciolavano giù, lungo la curva del collo.
Itachi-san, piango io per te, va bene?
Itachi teneva il capo piegato verso di lui, ciocche di capelli scivolavano in avanti, sul viso di Hirofumi, sul suo petto.
Grazie, sussurrò piano. Voce tremante, roca e bassissima. I lineamenti che si ammorbidivano, mostrando un sorriso dolorosamente vero.
Grazie.



È alla fine, quando tocca il volto di Sasuke immobile di fronte a lui, che la maschera si ritira del tutto. Lo scopre, sgretolandosi davanti agli occhi sconvolti di suo fratello.
Si sente libero, il ragazzino. Di respirare e ricordare ed essere ciò che per anni non è stato. Dura un istante o poco più, è vero, ma accade.
Un istante.
Dita che scivolano sul viso pallido di Sasuke, tracciando una carezza di sangue.
Un istante.
Sussurri di una benedizione segreta.
Un istante.
Un sorriso, uno di quelli che faceva secoli prima, da bambino. Uno di quelli che aveva creduto di non essere più capace di fare.
Un istante.
Non ci sarà una prossima volta, Sas’ke.
Un istante. La recita di vita si interrompe e allo steso tempo arriva al proprio compimento.














*********



Dunque, anche se non mi piace parlare di ciò che scrivo, credo che in questo caso qualche parola sia d’obbligo. Un po’ perché il testo è complesso e incasinato, un po’ perché non vorrei aver dato idee sbagliate.
La parte introspettiva che ripercorre la vita di Itachi si sviluppa in modo indipendente dal resto del testo. È una sorta di "fusione" tra una fan fiction missing moment/what if? e uno sguardo introspettivo che segue tutte (o quasi) le vicende di Itachi narrate nel manga. È ovvio, poi, che le due parti siano in qualche modo legate, ma è pur sempre vero che restano due cose distinte, amalgamabili solo secondo un’interpretazione personale.

Grazie per aver letto!

   
 
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