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Autore: Rosso Veneziano    12/06/2012    1 recensioni
La storia di Anna Bassi, monaca nel convento Benedettino di San Zaccaria nel XVIII secolo. Una ragazza di umili condizioni coinvolta suo malgrado in strane trame dalla nobile badessa del monastero: Anna non fa una vita contemplativa, serve la superiora ed è una delle sue ancelle: violerà la clausura e partirà per un lungo viaggio per allontanarsi da uno strano fatto accaduto nel convento: una proposta improvvisa ed inaspettata...
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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NON NOBIS DOMINE

Capitolo Primo

 


Francesco Guardi, Parlatorio delle monache di San Zaccaria, 1750, Museo del Settecento Veneziano di Ca' Rezzonico, Venezia

Quelle rive che oggi corrono da San Marco ai Giardini dove terminano andavano una volta dal Ponte della Paglia fino alla chiesa delle Vergini e prendevano nomi diversi. Il visitatore dell’epoca, dopo le meraviglie della Piazza si eclissava sulla severità delle Prigioni Nuove e scrutava il mare verso San Giorgio Maggiore. Poteva trovare case di uomini più o meno ricchi. Da qui iniziava la Riva degli Schiavoni intervallata da ponti e frazionata dai Rii fino alla Ca’ di Dio. All’inizio del percorso, tra il Ponte della Paglia e quello del Vin si apriva una schiera di casette ed edifici. Dal Rio del Vin, a destra s’innalzava un palazzotto bianco e subito dopo di lui, a lato di uno stabile dipinto di un vivace rosso si infilava zitta zitta una calle, detta del Vin.

Il sole, splendendo nel cielo a mezzogiorno a Sud, si specchiava in due finestre di una casa, in fondo alla calle, tanto che il visitatore o il passante restava abbagliato dal riflesso dei vetri. La calle era angusta, a destra l’intonaco un po’ scrostato rivelava la muratura dell’edificio, a sinistra un semplice bugnato listava il pianterreno. Un gran portale concludeva il palazzotto bianco dirimpetto a una botteghetta cinta da alcune grate alle finestre. La calletta aveva un piccolo slargo e poi si apriva su una simpatica corte, in fondo alla quale stava l’edificio le cui finestre abbagliavano i viaggiatori. Nascosto dalla prospettiva, stava a destra un passaggetto per entrare nel quale bisognava lasciarsi alle spalle la vera da pozzo in centro allo spiazzo.

La strettoia diventava ancora più angusta scontrandosi con uno stabile che si allargava e la opprimeva. Un palazzo alto e schiacciato si apriva tra quella casa così invadente e il resto della calle che iniziava da lì. La calle proseguiva tranquilla fino a quando una casetta che pareva campata in aria apriva sotto di sé un sottoportico. Percorsolo, si aveva davanti un tabernacolo, ci si inchinava e ci si segnava per devota reverenza e il più delle volte ci si volgeva a destra ad ammirare, sopra la porta che stava per esser varcata un bel bassorilievo gotico in cui maestose e ieratiche figure di santi preannunciavano l’arrivo ad un luogo sacratissimo. Un cordone di pietra adornava la porta e sorpassatala si ammirava il tesoro marmoreo di Venezia: la chiesa di San Zaccaria.

Una lapide, collocata a sinistra ricordava l’importanza del monastero di Benedettine che sorgeva lì e la potenza della sua Reverendissima Badessa. Arcate rinascimentali cingevano a sinistra il campo spingendosi al fianco della casa di Dio. La chiesa, imperiosa, dominava il campo. Il sole brillava sulla statua in cima, sotto la quale un tetto a botte, seguito da una bifora, inaugurava la facciata meravigliosa. Dal tetto al portale essa appariva augusta e moderna nel suo stile, sotto, invece, sembrava più antica: infatti Antonio Gambello, vecchio architetto, era morto nel fare quest’ultima parte mentre il più moderno Codussi aveva completato l’edificio costruendo la meravigliosa chiesa. Un angolo del sacro edificio lambiva un giardinetto che con le sue piante offriva ombra al campo. L’edificio era medievale, severo e magnifico nel suo genere. Un cancelletto di ferro impediva di raggiungerlo. Quel giorno nuvoloso, quel mercoledì 8 marzo 1752, giorno di Quaresima, con grande pompa, il Cavalier del Doge, Giambattista Pasqualigo, attendente del Principe di Venezia era venuto fin lì accompagnato da un consesso di guardie per parlare con la persona più importante del monastero.

Un’oblata stava innaffiando una pianta del giardinetto quando vide il Cavalier del Doge e aprì il cancello, chinando il capo in segno di saluto. Pasqualigo svoltò a destra: la piccola milizia, sull’attenti, si dispose ai lati del portone. L’oblata, riposto l’innaffiatoio, presa una porta a sinistra, la aprì con una chiave e la richiuse, scomparendo all’interno dell’edificio. Pochi secondi dopo usciva nuovamente aprendo il portone a Pasqualigo che attendeva in piedi. Lo guardò brevemente. Era vestito splendidamente, secondo i dettami della moda. Una parrucca incipriata terminante in un codino e vestiti neri, una zimarra che sembrava annunciar lutto. Le uniche cose bianche erano le calze. Pasqualigo aveva l’aria del nobiluomo: col suo viso rugoso sembrava sempre solenne ed importante. L’oblata, chinando il capo, permise a Pasqualigo di entrare. Si aprì il parlatorio. File di grate intervallate a colonnette erano sospese, inchiodate su scanalature intagliate nel marmo. Si ripetevano per tre volte: alla quarta, invece che una grata, stava un pertugio stretto ed angusto dove scorreva una ruota.

La portinaia stava leggendo qualcosa. Era seduta di uno sgabello ed aveva un libro su un banchetto e dava così le spalle a Pasqualigo. Sapeva tuttavia che era entrato, così prese un segnalibro d’oro a forma di mano, lo mise all’interno del suo compendio e lo richiuse. Poi si volse alla grata. "Il Signore sia lodato" intonò solennemente la portinaia. Il suo abito benedettino nero era l'emblema della clausura. Il velo le copriva i capelli. Il suo volto era emaciato, stanco e spossato. Prese uno sgabello e si sedette davanti ad un tavolo che stava sotto la grata e con un segno di mano invitò il Cavalier del Doge a fare altrettanto. Pasqualigo si accomodò su un sedile di velluto nero dall’alto schienale.

Solo allora rispose: "Sempre sia lodato.". Appoggiò una borsa di cuoio, nera, sul davanzale della grata, si alzò e, schiarendosi la voce chiese: "Desidererei parlare con la Reverendissima Madre.". La portinaia lasciò intravedere una smorfia ed abbozzò una frase: "Signore, Sua Reverenza è occupata.". "Per ordine della Repubblica" si oppose Pasqualigo.

All’udire quelle parole la portinaia tacque e prese un campanello che iniziò a scuotere. Dal ventricolo di corridoi che si palesava a partire dall’ultima grata in fondo, giunse un’altra oblata. Alzatasi in piedi, la portinaia ordinò: "Chiamate sorella Anna!".

Pasqualigo non comprese perché non riferirsi subito alla badessa, ma poi capì che anche le monache avevano un cerimoniale da rispettare. Si sedette sulla poltrona e lasciò che la portinaia si accomodasse sullo sgabello, dopo aver ripreso in mano il libro. Si portava la mano al cuore mentre Pasqualigo osservava l’oblata allontanarsi. La conversa uscì cinque minuti dopo dal corridoietto portando con sé Sorella Anna e cioè un’altra oblata. Pasqualigo si indispettì.

Tuttavia la salutò e la nuova arrivata parlò: "Sono l’ancella di Sua Reverenza. Dite a me quello che vi preme comunicarle, se vorrete parlare con lei.". "Si tratta di un annuncio riguardante la persona del Doge." terminò Pasqualigo. Sorella Anna che era una diciottenne di umili condizioni mostrava una faccia graziosa e bella sotto il velo ed una voce chiara e musicale. Fece solo una esclamazione di flebile sorpresa. Tuttavia si riebbe e rispose con determinazione: "Chi devo annunciare?". "Il cavalier del Doge – rispose seccato Pasqualigo – e ditele che si palesi subito che è un affare importante ed in veste ufficiale, se preferisce."

L’oblata abbassò lo sguardo e percorse il corridoio. Le pareti bianche sfociavano in una porta: apertala la giovane conversa si trovò in un gran viavai di sue pari: donne umili votate alla clausura per soddisfare le famiglie si dedicavano ad essere serve delle monache. Tutte erano indaffarate: due o tre portavano alla vestiaria cesti di veli ed abiti, altre tre piatti pieni di pane cotto nel forno, altre due invece, lenzuola piegate. Giunta al termine del corridoio aprì un’altra porticina e si trovò di fronte ad un grande scalone che due monache stavano scendendo per andare nel chiostro e sovrintendere le converse nella pulizia del selciato. Le due lanciarono un’occhiataccia a Sorella Anna perché a loro pareva non stesse facendo nulla.

Lei però le ignorò, svoltò sul pianerottolo e si trovò sul piano nobile. Svoltò ancora a destra, picchiò ad una porta ed entrò. Si inchinò un po’ circospetta. Su una grande scrivania la Badessa e la Priora leggevano insieme i registri della Provveditrice. La Celleraia, di fronte a loro, spiegava ogni singolo punto commentandolo e spiegando il perché di alcune spese.

La Badessa ripose il registro, si alzò e disse: "Sorella dite. Qualcuno vien forse a chiamarmi?". "Il cavalier del Doge, Vostra Reverenza, vi chiede di venire come volete: anche in veste ufficiale. Egli ha notizie riguardo Sua Serenità il Duca di Venezia." concluse Sorella Anna alzandosi. La Badessa guardò verso la Provveditrice che si preparò subito, alzandosi.

Sorella Anna diede uno sguardo alle monache e quando vide il velo un po’ sgualcito della Priora glielo sistemò. La Badessa si volse verso un armadio stretto ed alto, girò la chiave e ne trasse il suo pastorale: ne avvolse la benda intorno all’asta e lo prese in mano. Poi, aprendo un altro stipo, ammirò la sua mitra, semplice e spartana, ricamata, non tempestata di gemme come le altre che possedeva e che usava fuori dalla Quaresima.

La Provveditrice prese la tiara con il cuscino mentre, indicando una croce di legno per le processioni, la Badessa ordinò alla Priora di prenderla in mano. La croce aprì un corteo seguito dalla Celleraia con la mitra e dalla Badessa col pastorale. Fecero il cammino a ritroso e giunsero nel Parlatorio: qui la portinaia si inchinò davanti ad esse ed uscì dal corridoio.

La Priora ripose in un angolo la croce, la Badessa le affidò il pastorale e la Provveditrice resse in mano la mitra. La Badessa si avvicinò ad uno scranno. Sorella Anna che la seguiva a qualche passo di nascosto prese il seggiolone e lo trasportò davanti al Cavalier del Doge, togliendo lo sgabello.

Poi l’oblata uscì dal parlatorio chiudendo il portone che lo separava dalle altre sale. "Madre Reverendissima – cominciò il Cavaliere – in nome della Signoria vi porgo il saluto e l’augurio di vivere in Cristo e nella sua pace.". La Badessa rispose con parole di circostanza, attese l’inchino del Cavalier del Doge, poi chinò la testa e si sedette mentre l’uomo rimase in piedi.

"Poiché il Signore nella sua misericordia è tanto buono con noi, siamo chiamati, per riconoscenza a chiamarlo Padre Clemente ma egli promette anche la corona del Paradiso ai meritevoli: pertanto è giusto e sapiente. – iniziò a concionare con paroloni aulici il Cavalier del Doge – E nella sua saggezza egli ordina che per poter vivere in Lui in eterno noi attraversiamo un sonno del corpo che non è sonno per l’anima: la morte. E ieri notte Sua Serenità, Monsignor il Doge, il Serenissimo Principe, il Duca di Venezia, Pietro Grimani è tornato alla casa del Padre.".

Detto questo la Badessa cadde sull’inginocchiatoio e si segnò tre volte. Il Cavalier del Doge si inginocchiò sul pavimento, guardando verso il basso. La Priora prese il pastorale e lo infilò in un sostegno, occultato dietro una tenda che toccava terra. Poi si inginocchiò anch’essa. Lo stesso fece la Celleraia mettendo la mitra sulla scrivania della portinaia.

Si stava apprestando ad inginocchiarsi quando la Priora, interpretando una smorfia della Badessa, le fece un cenno. La Procuratrice capì e tirò le tende di tutte e tre le grate.  In quel buio rimasero per un buon quarto d’ora. Poi la Badessa si rialzò, nell’oscurità ed iniziò a cantare. Le altre due monache la seguirono.

De profundis clamavi ad te Domine,
Domine, exaudi vocem meam.
Fiant aures tuae intendentes
in vocem, deprecationis meae.


A te, O Signore, gridai dal profondo,
Signore, ascolta la mia voce.
Le tue orecchie diventino interessate
alla voce della mia preghiera.

Concluso il canto, la Celleraia riaprì le tende. L’Abbadessa si rialzò mostrando gli occhi lucidi e le lacrime lungo le gote.

Allora intonò un discorso: "O Signore, tanto misericordioso da perdonare i peccatori, concedimi clemenza per quello che io penso. Io sono monaca e tua sposa soltanto dovrei essere ma in me sopravvive ancora l’amore per la mia famiglia. Ieri hai chiamato a te mio fratello. Io ti supplico di sostenermi nel momento della prova. Così sia.". Poi, preso un fazzoletto, si asciugò le lacrime e chiese al Cavaliere spiegazioni sulla morte del fratello.

"Vostra Reverenza già sapeva di certi suoi problemi di salute. Per questo voi meditavate dopo la crisi che egli aveva avuto una settimana fa, di lasciare la clausura. Lunedì si era sentito un tale mal di testa da voler annullare i consigli: e questo non era possibile, essendo stabilita una riunione col Collegio per parlare delle decisioni prese dal Senato nella giornata di Domenica. Si era tanto affaticato che ieri, avendo in programma una riunione coi Giudici del Proprio l’aveva annullata ed era rimasto nei suoi appartamenti. All’inizio di oggi si era coricato all’ora terza ma alla sesta si era svegliato dolorante: urlando ha chiamato tutti i servi, poi, sciancato e stanco e morto poco dopo l’ora settima." spiegò il Cavaliere del Doge.

La suddivisione della giornata nel secolo XVIII a Venezia era completamente diversa da quella attuale. La giornata iniziava al tramonto ed era divisa in due cicli di dodici ore.

La Badessa parve aver compreso l’altro motivo per cui il Cavalier del Doge fosse lì. La consuetudine, antichissima, poneva il monastero di San Zaccaria sotto la tutela dell’istituto del Doge. Solitamente la Badessa era una sua parente: infatti, fino a quel giorno lo era la sorella di Pietro Grimani. La morte del fratello significava per la Grimani la perdita del suo potentissimo privilegio: perciò doveva dimettersi dalla carica.

Avrebbe potuto tentennare, riufiutare di firmare il contratto che Pasqualigo teneva nella cartelletta nera, ma in quel caso il Senato l’avrebbe ingloriosamente deposta. Piuttosto che la gogna Elena Grimani – così si chiamava – decise di sospendersi dalle sue funzioni. Se non altro le era permesso di indicare una succeditrice.

Con passi solenni, dopo uno sguardo d’intesa, entrambi si diressero verso la ruota. Fu la badessa a spingere l’apertura dell’ingranaggio verso il suo interlocutore. Lui pose dentro il foglio in cui sottoscrivere le dimissioni: Elena Grimani fece girare l’ingranaggio, prese il manoscritto e si recò sul tavolo di fronte alla grata. Prese una penna d’oca e un calamaio e lesse quello che c’era scritto.

In nomine Christi amen.
La sottoscritta Elena Grimani al secolo, oggi Madre Reverendissima Maria della Risurrezione, Badessa del Monastero di San Zaccaria dell’Ordine delle Benedettine dell’Osservanza Ordinaria, sorella del defunto Monsignor Doge Pietro Grimani ai sensi delle Consuetudini del proprio Convento decreta:
-       La sua dimissione dall’ufficio di Badessa
-       La nomina di… a…

Obbedendo alle sacre leggi della Clausura imposte dalla Santa Chiesa e ai Decreti della Serenissima Repubblica di Venezia.

Completò gli spazi vuoti scrivendo il nome della Priora e la sua nomina a Priora in Capite. Poi si firmò Madre Rev.ma Maria della Risurrezione O.S.B. Badessa del Monastero di San Zaccaria in Venezia.

I Provveditori sopra i Monasteri avevano redatto quel decreto ed erano contentissimi dell’ambasciata di Pasqualigo. Elena Grimani rigirò tramite la ruota il documento. Il Cavalier del Doge lo raccolse e ringraziò molto le claustrali. Ripeté le condoglianze. A quel punto la Grimani si inchinò. La imitarono anche la Provveditrice e la Priora in Capite.

Ora spettava a quest’ultima il governo del monastero: la Badessa avrebbe rinchiuso negli armadi il pastorale e la tiara, abbandonato il suo ufficio e i suoi appartamenti. Ogni potere sarebbe passato alla Priora in Capite, fino a quando i funerali del Doge non si fossero tenuti e non fosse stato eletto il nuovo Serenissimo Principe. Tutte coinvolte nei loro pensieri le monache lasciarono il Parlatorio.
Nel frattempo Pasqualigo era già uscito dal monastero scortato dalle guardie.

I parenti che conoscevano bene Elena Grimani si chiesero come mai Sua Reverenza non avesse inviato come sua rappresentante a Palazzo Ducale l'ancella prediletta, Suor Anna, ma l'altra, che dai discorsi della superiora appariva come più incapace, rozza e sciocca. Nessuno poteva immaginare che tra i due chiostri di San Zaccaria il dubbio aveva assalito la propria reverenda parente.

Oltre quel Parlatorio ordinato e quel ventricolo di corridoi si trovavano, infatti, le celle dove le monache, meditando dì e notte la parola del Signore ringraziavano Dio per la sua misericordia e lo pregavano di concedere loro il perdono dei peccati compiuti. Il monastero di San Zaccaria era tra i più grandi di Venezia per questo, secondo la Regola, esistevano delle monache superiore, chiamate Decane, preposte al comando di un gruppo formato da dieci monache. Le monache erano 145.

Erano escluse dal governo delle Decane le monache maggiori: la Procuratrice, la Priora e le partecipanti alla Consulta, l'organo supremo di deliberazione del Monastero. Naturalmente a comandare tutte era la Badessa. Le oblate erano solitamente una per monaca con l’esclusione della Badessa che poteva averne due. Così si avevano 146 oblate. Queste ultime, dette anche converse non avevano diritto di voto nei Capitoli, dovevano obbedire alla Regola, non cantavano nel Coro e non meditavano ma espiavano la loro pochezza nel servire le superiori.

Alcune oblate non erano sottoposte al servizio di una singola monaca ma erano di proprietà del Convento. Tra queste c’erano le cercatrici, dispensate dalla clausura, che si recavano in città per gli acquisti e le latrici, postine del Capitolo presso i Provveditori per i Monasteri, il Capitolo Marciano e Patriarcale.

Anche per le altre oblate la clausura era regolata da leggi meno severe: ogni monaca poteva ordinare alla propria ancella di svolgere faccende anche in città.

Le monache dovevano, secondo la Regola, mortificarsi, rifuggire le comodità, amare il digiuno, azzerare se stesse, distruggere la propria personalità e rimettersi in Cristo per essere annientate dalla sua presenza maestosa.

Le Benedettine credevano che Dio fosse il grande dispensatore di ogni bene e che esse fossero le responsabili del male della propria vita: odiavano i propri desideri, detestavano la propria opinione e la propria volontà. Non dovevano mai ridere, parlare di facezie e discutere molto in modo da mettere le altre in imbarazzo e soggezione o portarle in ammirazione.

Era proibito parlare di cose divertenti durante la propria ricreazione: se qualche monaca avesse voluto discutere di argomenti non spirituali avrebbe dovuto chiedere alla propria Decana. Se quest'ultima non avesse dato il proprio beneplacito, la sorella incriminata poteva essere condannata alle pene più dure. Alcune claustrali leccavano con la lingua a terra il pavimento del Refettorio restando in digiuno, altre erano condannate ad essere frustate dalle oblate, altre ancora espulse.

Le accusate dalla Consulta dovevano essere sottomesse alla volontà della Badessa: se avessero osato rivoltarsi punizioni tremende e rivoltanti sarebbero state scagliate su di loro. Si narrava di suor Agata, che, nel ‘500, lavorando con l’ago una tovaglia si era punta ed aveva bestemmiato. La Badessa le aveva fatto cavare la pelle della mano in cui si era punta. Altre monache in gioventù avevano rimproverato di propria iniziativa le Consorelle e per questo motivo camminavano zoppe: infatti, tutte si ricordavano di Maria Todara Mocenigo, sorella del doge Alvise II che aveva ordinato la rottura delle caviglie di cinque sue sottoposte. Alcune oblate, dopo averle legate ed imbavagliate, le incatenarono ai letti e con dei magli, dopo aver loro dato pezzi di cuoio da mettere in bocca avevano disarticolato le loro ossa.

Ma erano episodi grotteschi che alcune oblate avevano riferito in città e che avevano contribuito a creare un certo alone di mistero ed obbrobrio intorno a San Zaccaria. Tuttavia la Repubblica di Venezia faceva uso frequentissimo di pene similari quindi nessuno se ne era scandalizzato.

Elena Grimani non era così conservatrice ed aveva accettato anche punizioni più lievi. Una volta aveva fatto frustare una monaca ma aveva assistito al supplizio e dopo sei schiocchi di frusta aveva pianto spaventata ed aveva ordinato la fine della tortura. Non era stata colpita da una smania di abusare del proprio potere ed aveva lasciato in pace le monache. Al massimo si era spinta a farle mangiare per terra come cani o a leccare il pavimento.
Certo era che Elena Grimani era stata una severa riformatrice: aveva portato innovazioni, questo sì, ma dure e severe, tanto crudeli, secondo le monache abituate alla mollezza di San Zaccaria. La Grimani era stata educata a San Lorenzo, un monastero di Castello nato con il solo scopo di forgiare monache più ligie alla Regola Benedettina.

Nel claustro di San Zaccaria le monache erano dispensate dalla Regola grazie ad alcune consuetudini: intrattenevano amanti, avevano comodità ed agi e vestivano abiti aristocratici e ricchi. San Lorenzo, invece, a detta di alcune trasferite, era l’inferno. Ogni giorno c’erano donne frustate e picchiate per ordine della Badessa: in quello squallore Elena aveva conosciuto i principi della severità cattolica e li aveva fatti suoi.

Finito l’Educandato, nonostante il padre volesse iscriverla a San Zaccaria perché l’esperienza a San Lorenzo era stata traumatizzante, Elena aveva scelto la chiesa di Santa Maria di Gerusalemme, detta delle Vergini, anch’essa nota per la sua ieratica impostazione, severa ed anacoreta.

Elena era nata nel 1679, a quarant’anni nel 1719 era divenuta Badessa. Aveva vissuto per anni nel monastero: poi nel 1741, su insistenza del fratello, eletto Doge, si era trasferita a San Zaccaria. C’era voluto un anno prima che le monache la accettassero: nel frattempo la precedente Badessa, la vecchissima Benedetta, rimase in carica.

Poi finalmente votarono per lei e la scelsero come superiora. Elena in quell’anno vestì l’abito benedettino, si sforzò di non dare giudizi e di non magnificare troppo l’esperienza vissuta a Santa Maria di Gerusalemme: poi nominò una nuova Consulta, con un decreto vietò alcune comodità, sequestrò gli abiti profani, impose quelli benedettini, rese più severa la clausura e stabilì nuovi ordini per le oblate. Il tutto nello spazio di tre mesi.

Il monastero era piombato nell’austerità. Quante non avessero voluto accettare i nuovi ordini della Badessa richiesero il trasferimento: ma andò loro male perché le misero a San Lorenzo o alle Vergini.

Il principale impegno di Elena era stato organizzare per nove anni di seguito il pranzo pasquale con la Serenissima Signoria: per evitare contatti troppo diretti aveva fatto costruire una grata tra i tavoli delle claustrali e quelli della Signoria.
Dopo la grande riforma aveva scelto affidabili Decane per controllare le monache: tutte, seppur con difficoltà, si adattarono. Fece di San Zaccaria da luogo di svaghi qual era il covo della mestizia ma represse ogni desiderio di ribellione soffocando le sottoposte con preghiere ed orazioni.

I Capitoli erano in pratica inutili poiché quando qualche monaca avesse ardito parlar contro la Badessa questa l’avrebbe fatta inquisire dai Provveditori sopra i Monasteri. Era subdola nel suo modo di agire perché non aveva spinto con la forza le claustrali ma le aveva lusingate.

Ora esse si vergognavano di averla eletta ma pensavano alle probabili conseguenze: forse il Capitolo di San Marco avrebbe fatto scomunicare le facinorose, imporre una commenda sull’abbazia il che significava l’essere odiate da tutte le Monache del mondo e la perpetua messa alla gogna.

Le minacce non erano servite, i soli presagi erano bastati a convincere le poverette ad accettare le condizioni poste da Sua Reverenza per la salvezza dell’anima.
Tuttavia neppure l’obbedienza, la pazienza, la carità e la fede avevano potuto sollevare e rinfrancare la Badessa nel difficile momento seguito alla morte del fratello.

Suor Maria della Resurrezione era un po’ particolare: oltre ad eccellere nelle sue virtù e nella sua perseveranza soffriva di un male che la rendeva singolarmente famosa tra le claustrali. Tossiva alla vista della luce del sole e della forte illuminazione. Aveva cercato risposte anche nei vecchi libri di Aristotele: ma non era riuscita a trovare rimedio

Forse era questo uno dei motivi che le aveva spinta a vivere nel monastero, un luogo buio e tetro: una delle cause della sua sindrome, però, era la sua ipertensione ma ohimè, i medici dell’epoca non avrebbero mai potuto scoprirla e curarla.

La morte del fratello e tutte le sue peripezie la avevano stremata: per dodici anni era destinata a rimanere in uno stato di angoscia e trepidazione, di stanchezza: l’insonnia, la fiacchezza, l’astenia, la rigidità nei movimenti, la goffaggine, i crampi, l’emicrania, l’ansia, la perdita graduale dell’equilibrio, il continuo senso di smarrimento e di confusione, la distrazione, la pelle secca, il vedere tutto confuso e sfocato, l’ipotermia, l’intolleranza al freddo ed al caldo, il fastidio del veder la luce e l’aggravarsi del suo disturbo nel tossire davanti al sole, il continuo perpetrarsi del dolore di malattie antiche già guarite ed il sentirsi mutevole di salute a seconda del bello o del cattivo tempo l’avrebbero infine portata ad una grave forma di fibromialgia che infine l’avrebbe spinta in un tetro e marmoreo sepolcro nel camposanto delle Benedettine.

Quei tempi bui, che comunque le avrebbero consentito di morire alla veneranda età di ottantasei anni, erano ben lontani. Era ancora una arzilla signora di settantaquattro anni, un po’ in trepidazione e pressata dai problemi ma ancora energica e con tanto desiderio di lavorare e vivere.

Da bambina aveva avuto un certo ribrezzo delle immagini sacre e delle processioni che le monache organizzavano. Una volta si era aggregata per la preghiera notturna ad un corteo di Benedettine. Il gatto del monastero, arrampicatosi su una alta mensola, spinse giù una pesante immagine di marmo in cui era ritratto lo scuoiamento di San Bartolomeo. L’effigie piombò proprio sulla testa di Elena che alla vista della statua per terra ebbe un grande terrore. La scena era macabra e drammatica: sotto la pelle del santo si vedevano vene e tendini, un aguzzino torturava con ferocia il povero martire. L’idea che bisognasse subire quelle pene per essere in Paradiso l’aveva spaventata. Il dolore alla testa per il colpo ricevuto era durato per un po’ ma poi tutto si era risolto.

Probabilmente se non fosse stata così presa dalla Regola di San Benedetto avrebbe avuto anche paura della clausura e delle monache e sarebbe uscita dal convento senza rimpianti a causa di tutti i traumi vissuti.

Suor Elena era stata forte ed aveva saputo superare le difficoltà: ad Elena era stato affidato un ruolo in famiglia. Erano in cinque, i fratelli Grimani. Il più grande era Marcantonio: a lui era stato riservato un matrimonio con Paolina Querini, già morta, all’epoca. L’altro fratello, Pietro, era divenuto un politico. Lei era la terzogenita. Il quartogenito Almorò: un uomo simpatico e gentile, non sposato, anche lui entrato in politica. Ad Almorò Elena teneva moltissimo: era il suo fratello preferito ma purtroppo era un po’ timido per essere un eccellente politico quale Elena desiderava fosse.

Il quintogenito Andrea non aveva fatto carriera coi soldi dei Grimani, come Marcantonio, o in politica, come Pietro ed Almorò, ma nel Clero. Egli era divenuto monaco: Elena desiderava lo facessero benedettino ma il padre aveva scelto diversamente e lo aveva iscritto tra i Cistercensi della Madonna dell’Orto. Nonostante un certo rimorso Elena lo aveva accettato: così ella era badessa a San Zaccaria, il fratello abate nella chiesa di Cannaregio.

Elena aveva due soli nipoti, i figli di Marcantonio: Marcantonio II e Maddalena. Quest’ultima aveva anch’essa scelto la vocazione religiosa: era stata cresciuta tra le Benedettine, a San Lorenzo, come aveva desiderato sua zia, ma non era entrata nel novero delle Claustrali di Santa Scolastica. Aveva invece scelto le Carmelitane Scalze, ordine noto per la continua mortificazione delle monache. Elena si era opposta energicamente: era un ordine meno prestigioso, derivato da una famiglia di Frati e di non di monaci, tra l’altro le superiore non erano badesse ma semplici priore. Insomma era la cosa più inadatta per una nobile del suo rango. Maddalena però era stata irremovibile. La giovane divenne priora del monastero delle Terese a Dorsoduro dove aveva scelto il nome di Suor Elena, in omaggio alla zia.

La sua clausura Elena Grimani non l’aveva mai rimpianta: si ricordava ancora di quando, giovane, entrata alla chiesa delle Vergini il padre aveva stipendiato alcuni cantori per eseguire il Veni sponsa Christi di Palestrina.

Veni sponsa Christi accipe coronam
quam tibi Dominus preparavit in aeternum.


Vieni, sposa di Cristo, ricevi la corona
che il Signore ti ha preparato per l'eternità.
  
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