STUDENTESSA ALL’ACCUSA:
L’ESPERIENZA DEL PIÙ PURO TERRORE
“Bertini”
“Presente”
Sì… presente. La
scuola è finita, ma io sono ancora qui. Mi riconosce, professore?
Mi rivolgo a lei.
Beh.. anche
quest’ultima frase sarebbe da rivedere.
Del lei si dà alle
persone a cui si porta rispetto, giusto?
Allora, perché io
non mi sento affatto di far questo?
Dovrei dire “Mi
rivolgo a te!”. E invece no. Voglio mantenere un velo di serietà, fingere che
tutto ciò che c’è stato tra di noi non abbia distrutto ciò che di rispettabile
c’era in lei.
Mi sembra ancora
di vedermi.
Il sabato sera,
tornare a casa alle 23 per poter studiare.
La domenica
sveglia alle 8, studio intenso fino alle 22, uniche pause il pranzo e la cena.
Quante partite
della Fiorentina mi sono persa a causa sua, professore.
Il lunedì mattina,
quante volte ho saltato la scuola!
Ovviamente,
sveglia alle 7 per studiare. Studiare disperatamente decine e decine di pagine
in Comic Sans MS 8.
Frasi
incomprensibili. Unica soluzione: imparare a memoria.
E le giuro,
professore, che io non sono mai stata così. Io ragiono sempre. Ma con lei è
impossibile, anche per i più bravi della classe. E se si ricorda di me, io ero
una di loro.
Il mio pranzo quei
lunedì durava circa 15 minuti. Lo stesso per la cena.
Per scaramanzia
più che per effettivo bisogno, la sera dopo cena mi facevo la doccia. Una
doccia veloce ma intensa.
L’acqua bollente
mi scorreva sul viso, nascondendo le mie lacrime amare e disperate.
La disperazione di
sapere che lo studio ostinato dei giorni passati non ha portato ai risultati
sperati.
Disperazione nel
sapere che con una domanda, tutto l’impegno di mesi e mesi di studio può essere
reso vano.
Non sono
scaramantica. Non credo a niente di non dimostrabile. Ma dovevo pur aggrapparmi
a qualcosa, per continuare a credere di avere una speranza, non crede?
Dunque la doccia.
Il profumo fortunato. La fortunata postazione per l’interrogazione.
Niente di più
ridicolo. Ma io ci credevo davvero.
Dopo la doccia,
mentre mia madre mi asciuga e spazzola i lunghi capelli neri, cerco di
trattenere le lacrime, che di tanto in tanto cadono, goccia dopo goccia, sui
miei appunti, che tengo stretti tra le mani.
Niente libri su
cui studiare. Solo i suoi appunti. Per seguirla ho dovuto comprare un
registratore vocale, e anche così è molto complesso rielaborare i suoi
discorsi.
Il suo italiano è
alquanto discutibile professore.
Fino a mezzanotte
continuo inesorabilmente a studiare, finché i miei occhi stanchi non si
chiudono da soli.
Inutile dire, caro
professore, che la storia e la filosofia mi continuano a tormentare anche nel
sonno.
Continuo a
rigirarmi nel letto, il mio stomaco freme all’idea di che cosa mi aspetta il
giorno seguente, la mia mente vaga nei suoi appunti. Finché alle 4 e mezzo la
sveglia suona.
E allora eccomi, a
ripassare di nuovo, la voglia di urlare sempre più pressante.
Lo stomaco si
contorce.
Non posso fare
colazione la mattina della sua interrogazione. L’esperienza insegna.
Per le 8 sono a
scuola.
La testa mi gira,
un po’ per la stanchezza fisica e mentale, un po’ per la paura.
Non avrei mai
creduto, prima di incontrare lei, che mi sarei mai data tanto da fare per un
sei e mezzo.
Già, nel primo
quadrimestre la sua scala di voti va dal 5 al 6 e mezzo. Perché?
Si.. nel secondo
quadrimestre la fascia si allarga: dal 4 al 7. E se l’ultima interrogazione
dell’anno riesce in modo impeccabile, naturalmente se anche tutte le precedenti
lo sono state, riesce anche a sforzarsi a dare un 7 e mezzo.
La media per lei
non esiste, no… per lei l’ultimo voto preso è quello che conta.
E dunque, ha
capito per quale motivo io, così come la maggior parte dei suoi studenti, sono
così terrorizzata dal suo metodo?
Ma tutto ciò
cambia radicalmente nel caso in cui lei decida di farci l’onore di provare uno
dei suoi compiti. A quel punto, al diavolo le interrogazioni. Il voto del
compito sarà il tuo voto in pagella alla fine dell’anno.
E in questo caso
puoi prendere dallo 0 al 10.
Prendi tre al
compito, e sai già che sarai rimandato a storia, o a filosofia.
E non è difficile
prendere meno di 4.
I suoi compiti
sono a tempo. La sua sveglia conta i minuti, il ticchettio delle sue dita
contro il tuo banco scandisce i secondi. È sfibrante.
Dunque mi dica,
professore, se all’ultimo compito di giugno avessi preso meno di quattro, non
sarei stata ammessa agli esami di maturità nonostante avessi 8 e 9 in tutte le
altre materie? Anche i migliori sbagliano.
Raggiungendo la
mia classe li vedo.
I tredici compagni
di classe che saranno con me interrogati in queste due ore da cinquanta minuti.
Pallidi, sudati, gli occhi gonfi e rossi.
Qualcuno corre al
bagno con una mano sulla bocca, qualcuno sta per svenire.
Adesso, professore,
faccia un rapido calcolo di quanti studenti nella nostra scuola sono quest’anno
svenuti, quanti si sono sentiti male.
Beh, il 90 % dei
casi, è stata colpa sua.
Si sente in colpa?
No.. perché lei lo sa. Farci soffrire, farci piangere ed implorare.
È l’unica cosa
nella sua vita che le permette di sentirsi superiore. Temuto..
Il timore non è
rispetto, lo sa?
Lei entra in
classe. Con la sua solita lentezza fa l’appello.
Ho sempre pensato
che lo facesse apposta per aumentare il nostro livello di tensione. Me lo
conferma adesso, professore?
“Chi deve venire
venga”
Ecco che sette
sedie si spostano e si dispongono sul lato sinistro della sua cattedra. In fretta,
mi accingo ad occupare la mia postazione fortunata, quella che mi permette di
esserle il più vicina possibile.
Di nuovo, con
calma piatta, scrive i nomi delle sue vittime sul registro. Poi tira fuori il
suo quadernino giallo e, ovviamente, nonostante desideri dal profondo essere la
prima a togliermi questo pensiero, decide di chiamarmi per ultima del suo primo
giro.
Dopo il verdetto,
qualcuno dei miei compagni corre in bagno a piangere, ed io mi sento sempre più
vulnerabile.
“Bertini”
pronuncia il mio cognome. Esita un attimo prima di pormi la sua domanda.
Il mio cuore batte
così forte contro il petto che tutti possono sentirlo.
Le sue
interrogazioni si compongono di una sola domanda a studente. Tempo medio,
misurato con il cronometro l’anno passato, 2 minuti e 48 secondi.
Non ci sono quasi
mai risultati medi. O bene, o male.
La sua domanda
inizialmente mi spiazza.
Tutta la saliva
nella mia bocca è come prosciugata, la lingua si attacca al mio palato, impedendomi
di parlare.
Chiudo gli occhi,
sento battere il cuore. Mi calmo e inizio a parlare.
Trenta secondi
dopo, tutto è finito.
Quattro giorni di
sofferenza per trenta secondi di esperienza effettiva.
Me ne torno a
posto, compiacendomi del mio 7 e mezzo di fine anno.
Posso ancora
palpare il terrore dipinto sui volti delle sette vittime della seconda ora.
Ci può credere,
professore, che per tre anni scolastici, due volte al mese, abbiamo dovuto
sopportare tutto questo?
Abbiamo lasciato
indietro altre materia per le sue, abbiamo gettato al vento i nostri bisogni da
adolescenti, trascurando amici, amori, famiglia addirittura.
Tutto questo a
causa sua.
Da una parte
vorrei dirle grazie. Grazie, perché adesso so che nessuna esperienza di studio
potrà mai essere più incredibilmente traumatica dei miei ultimi tre anni di liceo.
Al contempo,
voglio che lei sappia che tutte le lacrime da me versate a causa sua sono ognuna
una goccia di disprezzo a lei dedicata.
Sperando che non
riesca a rovinare anni di vita ad altri studenti, e sperando di riuscire un
giorno a perdonarla, perché quasi tutti meritano il perdono, concludo la mia
accusa.