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Autore: Fair_Ophelia    13/06/2012    5 recensioni
Questa è una one-shot sui sentimenti di Murtagh dopo aver torturato per la prima volta Nasuada e sul loro primo incontro a Urû'baen dal suo PDV. Un punto di vista dolce, disperato, diverso da quello che tutti vedono, ma che Paolini ha fatto in modo che passasse fra le righe e fosse notato nei capitoli che parlano della Stanza dell'Oracolo. Spero vi piaccia :)
-Ti arrendi?
-Mai.- Quanto coraggio, amore mio. Ma riuscirai a resistergli a lungo?
-Così sia. Murtagh?
Non posso fare altrimenti! Ti prego, perdonami...

Ispirata a "Anche Stasera" dei Modà e "New Born" de Muse. Partecipa al contest "Musica & Fantasy" indetto da Aranil_Efp sul forum.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Murtagh, Nasuada
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Questa one-shot parla dei sentimenti di Murtagh verso Nausada dopo la prima volta in cui deve torturarla.

Per scriverla mi sono ispirata a Anche Stasera dei Modà (piuttosto inusuale per me) e New Born dei Muse (ecco, questo è molto più usuale!). Immaginate di sentir partire la canzone dei Modà dopo la fine del primo paragrafo e la voce di Francesco quando Murtagh pensa... Non sono (quasi) perfettamente coincidenti? Adorabile ^^ New Born vi è invece legata per la frustrazione e la disperazione accumulati da Murtagh.
 
Questa storia partecipa al contest "Musica & Fantasy" indetto da Aranil_Efp sul forum di EFP.
 
Buona lettura :)
 
 

 
NON PER NOI, NON PER LEI
 


 
-Murtagh, vieni, non essere scortese: mostrati alla nostra ospite.
Vorrei non avere orecchie per sentire il suo invito e gambe per muovermi, ma se non lo faccio io mi costringerà lui. Mi giro, e penso solo una cosa: Galbatorix, ti odio con tutto me stesso.
Mi espone a Nasuada come il più tremendo assassino di Alagaësia, e tutto ciò che posso fare è dire: -Vero, sire-, poi con una frase mi strappa il cuore dal petto:
-Dopotutto è stato lui a convincermi che meritavi di unirti alla nuova generazione di miei discepoli.- Dopo questo, l'ho persa per sempre.
-Ti arrendi?
-Mai.- Quanto coraggio, amore mio. Ma riuscirai a resistergli a lungo?
-Così sia. Murtagh?
Non posso fare altrimenti! Ti prego, perdonami...
 
Murtagh, non dovresti bere quella roba.
Castigo, non ce la faccio più... Non sei la mia coscienza!
E invece sì!
Sono seduto appoggiato al muro della mia stanza, una fiaschetta semipiena di liquore accanto a me.
Chiudo il mio compagno di vita fuori dalla mente, ma faccio in tempo a sentire la sua delusione come un mugolio lontano. So che è dispiaciuto per me, ma non sono del morale giusto per pensare se sia giusto o sbagliato. Nulla può la ragione per alleviare il peso delle mie sciagure; forse neanche bere può farlo, ma mi aiuta a non pensarci troppo.
Dovrebbe. E invece sembra amplificare, far riecheggiare i miei pensieri negativi ancor più forte nella mia mente, come onde che s'infrangono violente, tornano indietro e urtano di nuovo sulle tempie. Mi gira la testa, sento un mare in burrasca che si agita dentro di me. Appoggio al testa al muro, afferro la fiaschetta -vedo confusamente la mia mano che trema mentre la tendo, le dita che si muovono a scatto-, la porto alle labbra e bevo un lungo sorso.
La vista è offuscata, la luce delle candele crea curiosi nastri di luce sullo sfondo aranciato, ma in realtà non li vedo: davanti a me solo la mia bellissima ragazza che urla di dolore sotto il tocco del tizzone ardente, la mie mani che manipolano l'asta arroventata, ma non sono io, è quel giuramento maledetto, quel nome che gli altri mi hanno inflitto, che lui conosce e ha legato a sé per sempre. È lui che mi guida su come e dove debba posare il tizzone su quella pelle di cioccolato, su quanto debba fare pressione, penso sempre che sia troppo, troppo per lei, ma lui pensa sempre che sia poco, che bisogni spingere di più, farla soffrire maggiormente.
Il cuore mi s'infrange ad ogni suo urlo, e mi sento terribilmente male perché anche se non è colpa mia lei questo non lo sa, e potrebbe pensare che ci goda, che sia come il re... L'espressione sul suo bellissimo viso quando Galbatorix ha detto che l'ho voluta a Urû'baen... Non ho avuto neanche il coraggio di guardarla negli occhi, ma sentivo i suoi addosso a me che mi fissavano, inorriditi per ciò che ho fatto, che -secondo lei- sono diventato... Se solo sapesse che quello che vede non sono io, che in realtà l'ho salvata da morte certa, che dalla prima volta che l'ho vista sulla soglia della mia cella sono impazzito per lei, per il suo protamento regale, per il suo modo di parlare, sempre venato di qualche emozione, che sia allegria o tristezza, per i suoi occhi a mandorla che cerco sempre d'incrociare, pozzi di oscurità luminosa, per i suoi capelli corvini che scendono come una colata d'inchiostro sulle spalle e in cui mi piacerebbe tanto affondare le dita, per la sua pelle delicata che accarezzerei all'infinito con dita incerte, per le sue labbra carnose che vorrei far combaciare con le mie e penso non accadrà mai... E invece le uniche carezze che posso -devo- darle sono di dolore. Che paradosso, l'amo più della mia vita e sono costretto a odiarla più della morte.
A ogni suo urlo provo l'impulso di lanciare via l'asta rovente e stringerla forte a me, tranquillizzarla, sussurrarle parole dolci all'orecchio, baciarla dolcemente... Farla uscire dall'incubo... Farle capire che l'amo, che finché ci sarò io con lei non dovrà mai avere paura e non sarà mai sola, mai! Cerco di scacciare le immagini di disperazione che mi perseguitano, ma anche se vedo il pavimento della mia stanza illuminato dalla luce calda e dorata delle candele il pensiero che è incatenata laggiù, che soffre, e per causa mia, che vi rimarrà, diventerà schiava di Galbatorix, perderà la sua identità, oppure morirà... e io... la... perderò... per sempre... No, non lo permetterò! Dev'essere viva, dev'essere MIA! Non può finire così, non doveva! Non per noi, non per lei!
Traggo un altro lungo sorso e affondo la testa tra le ginocchia. Senza che lo voglia il respiro inizia a uscire a rantoli dai polmoni, poi con esso le lacrime, roventi come il tizzone ardente con cui la ferisco. È lei la causa del mio pianto, come io lo sono del suo dolore; ci ustioniamo a vicenda, noi. Queste gocce del mio mare scendono lungo gli zigomi per poi attraversare le guance a tutta velocità, esitare sul mento e precipitare. Farò la stessa loro fine? Riuscirò a resistere ancora all'ironia della sorte, a quel paradosso che è la mia vita? Che si prenda gioco di me, se è necessario, ma mai di lei!
È così vicina, eppure così distante: anche se dovesse insultarmi, vorrei sentirla parlare, a costo di farmi prendere a schiaffi, toccarla, pur di prendermi occhiatacce, incrociare i suoi occhi, nonostante possa pensar male di me, essere nei suoi pensieri...

Ma se sono davvero disposto a ciò, non vale la pena di incontrarla e parlarle? Forse è l'alcol che mi annebbia il giudizio, mi fa pensare assurdità. Ma l'idea è troppo allettante per abbandonarla. Tanto, ormai, cos'ho da perdere? Almeno scoprirò se è arrabbiata con me per quello che ho fatto... E se lo è, potrei cercare di farle aprire gli occhi e guardare oltre le apparenze... Forse si tratta solo della mia disperata voglia di vederla, stare un po' da solo con lei, di sciocchezze, ma... Ora ho deciso: andrò nella sua cella. Non so cos'accadrà, non m'interessa. Il pensiero mi eccita, mi fa sorridere: un sorriso ebete, una pallida imitazione della sua meravigliosa espressione felice e intensa, ma è un sorriso per lei. Sorrido per te, amore. Non sei felice?
Ecco, ora sto davvero vaneggiando. Mi alzo, prendo la fiaschetta e bevo ancora. Non sento quasi più il sapore intenso del liquore; la borraccia è leggera, devo averla quasi svuotata. Ma stasera tutto è concesso.
Apro la porta e imbocco il corridoio che mi porterà alla sua cella. La luce delle torce sembra muoversi da sola e infiammare le pareti; il crepitio delle fiamme è amplificato alle mie orecchie. Barcollo, quasi non mi reggo sulle gambe malferme: mi appoggio al muro e proseguo. A volte mi sembra di stare per bruciarmi e mi scosto velocemente dal muro imprecando. Avanzo con passi incerti; abbasso un attimo lo sguardo e vedo che le nocche della mano destra sono sbucciate e gocciola sangue. Chissà dove mi sono ferito. Proseguo finché non arrivo alla porta della cella: passo in mezzo a due guardie guardandole torve, e il mio sguardo è da loro ricambiato con ancor più odio, ma non proferiscono parola. Scendo le scale e a ogni gradino il cuore mi batte più veloce: sto per vederla.. Arrivo ai piedi della scalinata e apro la porta per poi richiuderla alle mie spalle.
Mi giro e la vedo: eccola, è lì, legata sulla lastra. Penso dormisse, ma il rumore che ho provocato al mio ingresso deve averla svegliata. Mi avvicino lentamente, ogni passo un'eternità, un battito di cuore, e finalmente vi giungo. Appoggio i pugni alla lastra e la divoro con gli occhi.
Nasuada, davanti a me. Il mio desiderio di sempre si è realizzato -quasi. È davvero bellissima, e le ferite non fanno che aumentare il suo fascino, anche se non vorrei mai vedergliele addosso. Non è cambiata per niente dall'ultima volta che l'ho vista, il giorno maledetto della battaglia del Farthen Dûr. Studio a lungo il suo viso, apprezzando ogni suo nobile tratto; mi accorgo che mi sta guardando e incrocio i suoi occhi: sono vacui, vacillano, dev'essere stanca. Quanto vorrei darle quel po' di forza che mi rimane. Sto incrociando il suo sguardo... Di nuovo, dopo tanto tempo... Mi sembra un sogno... È passato tanto, ma non ti ho mai dimenticata, amore. In quella liquirizia fusa rivedo la ragazza che mi andava a trovare in una cella e con cui parlavo del più e del meno. Adesso i ruoli si sono invertiti.
Vorrei guardarla all'infinito, ma la testa mi pesa come un macigno e non riesco più a stare in piedi; vado verso una delle pareti, scivolo a terra e mi metto nella stessa posizione che avevo in camera. Siamo soli, io e lei. Non sembra arrabbiata, ma non posso dimenticare il suo sguardo d'accusa di prima... Volevo solo che non morisse... Basta, deve saperlo! Ho deciso, glielo dirò: le dirò a mia storia, la decisione di Galbatorix, tutto. Sento il bisogno impellente di raccontarle la mia disperazione, voglio che sappia tutto di me, metterò la mia vita nelle sue mani. La amo, non sopporto che pensi male di me! Lei, lei sola, saprà cosa dirmi, come consolarmi, risollevarmi dal mio baratro... Deve capire...
Riprendo la fiaschetta e la vuoto velocemente. E inizio a parlare. Le racconto di Tornac e della fuga da Urû'baen. Parlo con voce piatta, ma le emozioni quando risveglio i ricordi si accumulano sempre di più, e prima o poi esploderò. Lei mi ascolta senza reazioni particolari, anche quando ho finito resta in silenzio. E se fosse ancora arrabbiata con me, credendo che l'ho portata qui per renderla schiava? È giunto il momento di dirglielo: - È colpa mia. Sono stato io a convincerlo che era meglio portarti qui. L'idea gli è piaciuta. Sapeva che in questo modo avrebbe attirato Eragon qui molto più in fretta. Era l'unica maniera per impedirgli di ucciderti... Mi dispiace... Mi dispiace.
-Avrei preferito morire.
-Lo so. Potrai mai perdonarmi?
Non mi risponde. Tenevo così tanto a questa risposta. Amore, non riesci proprio a capirmi? Ti prego, apri gli occhi! Almeno tu! Le emozioni spingono, e io non riesco più a trattenerle: le lacrime scavano una strada dal cuore agli occhi e riprendono a scendere copiose, e quello che nascondo, l'amarezza per il mio affetto da nessuno ricambiato, l'invidia per l'abbondante fortuna degli altri che non mi ha mai sfiorato, diventano voce e urla e strazio, e allora dico tutto, perché almeno lei capisca, sperando che almeno lei sia diversa! Le parlo delle persone a corte che sin da piccolo mi hanno odiato e sfruttato, della mia malsana invidia per Eragon, del dolore per la morte di mia madre, forse l'unica che mi voleva davvero bene, poi di Castigo. Le confido quello che non ho mai osato dire a nessuno, uno dei dolori più grandi della mia vita, le parlo del mio drago che soffre. È questo il ricordo che più mi fa male. -Poi Galbatorix entrò nella mia mente. Imparò tutto su di me, e mi impartì il mio vero nome. E adesso sono suo... per sempre.- Appoggio la testa al muro, finalmente svuotato, ma le lacrime continuano a scorrere a fiumi, i singhiozzi mi scuotono ancora.
Non voglio la sua compassione, voglio la sua comprensione. Avrà capito ora cosa sono e cosa sono diventato?
Rimango così finché sulle guance rimangono solo scie d'acqua secca e il respiro si è tranquillizzato. Non posso fare nient'altro; ora tocca a lei riflettere, vedere oltre. Solo una cosa posso ancora fare: mi alzo, mi avvicino a lei e le poggio una mano sulla spalla. Vorrei accarezzarle una guancia, è così vicina, ma non mi è concesso. Con poche parole pongo fine alla sua sofferenza, almeno per ora; poi mi scosto. È finita qui.
-Non posso perdonarti, ma capisco.
La sua voce mi fa sussultare e il cuore inizia a battermi forte. Capisci? Davvero pensi di capire, amore mio? Se davvero così fosse, capiresti anche che ti amo. E invece no; lo intuirei, se lo sapessi. Sento di aver fatto un passo avanti, anzi, è stata lei a farlo, ma può vedere ancora oltre.
Annuisco e la lascio sola, abbiamo entrambi da riflettere.

 

   
 
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